racconti - stories



Pierluigi Porazzi

 

Biografia
nato a Cameri (No) il 20 marzo 1966, residente a Tarcento (UD)
Laureato in Giusirsprudenza, ho conseguito il titolo di Avvocato e sono attualmente impiegato presso la Regione Friuli Venezia Giulia.

PUBBLICAZIONI:
1998: Pubblicazione di una raccolta di racconti presso Campanotto Editore (La Sindrome dello Scorpione)
1996/1997: Pubblicazione di alcuni racconti sulla rivista "ACHAB", nn. 52, 54, 55 e 56 (Ed. Bariletti - Roma), rivista letteraria a diffusione nazionale: sette racconti pubblicati nell'ambito del "5° Campionato Scrittori d'Avventura" e tre racconti si sono classificati tra i primi dieci e uno al 2° posto assoluto del "4° Campionato Scrittori d'Avventura".
1993: "Il Racconto" (Ed. Crocetti - Milano) n. 5, Ottobre 1993: pubblicazione di quattro racconti.
1990: "STAR MAGAZINE" (Ed. Star Comics, Perugia) n. 3, Novembre
1990: pubblicazione di due racconti con recensione di Daniele Brolli.
1987: Vincitore di un premio nell'ambito del concorso "Premio letterario Inedito L'Espresso" indetto dal settimanale "L'Espresso".

Presentazione
La sindrome dello scorpione è una raccolta di racconti brevi, a volte brevissimi, il cui tema centrale è la condizione dell'uomo d'oggi, così com'è vissuta da un narratore che indoviniamo giovane, lucido nella desolante contemplazione del "nostro gioco di tutti i giorni", ardito nell'inseguimento del sogno e nella sofferta scelta dell'autenticità, che si rifiuta al compromesso dell'omologazione. E l'intuizione che trapela da queste pagine è che l'alternativa ad essere sé stesso non è la possibilità, che non ci è data, di essere un altro, ma quella di essere nessuno, di perdere o dimenticare il proprio nome.
Nei racconti di Pierluigi Porazzi il nome è metafora per identità profonda e senso della vita. Il rischio è rappresentato dalla capacità dell'uomo di crearsi un'identità vuota, basata sul successo inteso come accaparramento di consenso esistenziale, sul tentativo di evitare sistematicamente il confronto con la diversità e la sofferenza propria ed altrui, sulla sostituzione dell'impegno con l'abitudine. In questa prospettiva i sogni sono essenziali. Per essere antidoto alla perdita del nome, essi vanno tuttavia tradotti in realtà a costo che la vita se ne impossessi e li trasformi in illusioni o che essi stessi ci portino oltre il nostro desiderio palese, verso luoghi dove non sapevamo di volere andare. Perché se i sogni rimangono astratti ad alimentare una convinzione di superiorità, essi non ci regalano ali da "Albatros" per "solcare i cieli" alla conquista del nostro io più "alieno" e più vero, ma ci tirano giù, verso un suicidio, reale o metaforico, ma pur sempre fatale.
Lo stile dell'autore è cristallino, con un linguaggio impeccabile, senza scarti, senza crepe, che colpisce per la sua assoluta assenza di pretenziosità. I riferimenti culturali sono molteplici, dalla tradizione delle fiabe al Faust, dal rituale cattolico alla psichiatria, dalla scienza alla poesia, il tutto inserito in un universo quasi fantascientifico di macchine pensanti e trapianti cerebrali, e, non di rado, in una atmosfera agghiacciante nella sua apparente normalità, nella quale uccidere diventa soltanto un divertimento, un lavoro, o un gioco di abilità. In questa paradossalità, l'epifania finale dei racconti, sempre inaspettata, acquista pregnanza, ci induce a sostare, a voltarci indietro, e forse a rievocare un momento in cui ciascuno di noi, tanto tempo fa, ha cominciato a tradire, o, meglio, a tradir-si.
Esiste una cura per il nostro male, "la sindrome dello scorpione" che, accorgendosi "di essere circondato dalle fiamme..., rivolge contro di sé il suo pungiglione mortale"? La risposta compete ai lettori. A me torna in mente una frase della poetessa Alda Merini, eterna innamorata, compagna spirituale, nella vita e nell'arte, di folli ed emarginati: "...so precisamente che alla base del terrore universale sta l'incapacità di redimere quella purezza che è in tutti noi." Spero che i lettori dei racconti di Pierluigi Porazzi sappiano condividere questa consapevolezza.

Chiara Tranchina


LA SINDROME DELLO SCORPIONE

Racconti

Pierluigi Porazzi
Via Sottocolle Verzan, 58 - 33017 Tarcento (UD)
Tel.: 0432-792125
328-1552247
E-MAIL: anarky@libero.it



WELCOME
(Comitato di Benvenuto)

Fame. Caldo. Freddo.
Poi senti rumori, voci, musica.
Improvvisamente vieni spinto da una forza invisibile. Qualcosa ti stringe. Non riesci a muoverti. Paura.
Ti ricordi dove stai andando. Sei sopraffatto dal terrore. Cerchi di aggrapparti a qualsiasi cosa, ma non ci sono appigli. Scivoli via lentamente. Conosci già la tua destinazione, anche se tra poco non lo ricorderai. Non possono permetterselo. Tutti devono dimenticare dove sono.
Sei quasi alla fine del cunicolo. Qualcosa ti afferra. Non puoi vedere i volti sorridenti intorno a te. Qualcuno ti dà uno schiaffo.
Piangi. Gridi tutta la tua rabbia. Ma ormai non serve a niente. Sei arrivato a destinazione.
Benvenuto all'Inferno.


LA SINDROME DELLO SCORPIONE

In Africa è un gioco. Prendere uno scorpione e metterlo al centro di un cerchio di fuoco. Lo scorpione cerca una via d'uscita, ma ben presto si accorge di essere circondato dalle fiamme. Allora, sapendo di non avere via di scampo, rivolge contro di sé il suo pungiglione mortale.
Chissà chi si sta divertendo con noi.
Penso al nostro gioco di tutti i giorni. A chi possa averci messo dentro questo cerchio di fuoco.
Poi premo il grilletto.


L'UOMO SENZA NOME

Si svegliò alle sei, come tutte le mattine. Si lavò, si vestì e bevve il caffè, proprio come tutte le mattine.
All'improvviso "sentì" che qualcosa era diverso, ma non gli veniva in mente che cosa...
...Il suo nome! Come si chiamava? Non lo sapeva più.
Sapeva solo di essere un ragioniere, e che tra mezz'ora avrebbe dovuto essere in ufficio.
Tornò in camera da letto e svegliò la moglie. "Come mi chiamo?" le chiese. La implorò di rispondergli. Ma lei non lo sapeva.
Era disperato, ma doveva andare a lavorare. E se qualcuno avesse pronunciato un nome, in strada o in ufficio? Come avrebbe fatto a sapere se chiamavano lui?
"Be', si disse, "per qualche giorno me la caverò, poi mi arriveranno una lettera o una cartolina, oppure lo chiederò ai miei colleghi...".
Chiedere il suo nome in ufficio? No, non lo avrebbe fatto. Sarebbe stato troppo ridicolo. Pensò che in qualche modo, prima o poi, avrebbe saputo come si chiamava.
Non lo seppe mai.
Adesso giace sotto tre metri di terra, e la sua tomba è contrassegnata, come tutte, da una lapide immacolata.



IL SOGNATORE

Il sognatore era un bambino, e sognava di essere l'Uomo Ragno, di salvare la donna più bella del mondo e di vivere con lei per sempre.
Il sognatore, adolescente, sognava di diventare un grande scrittore, di conoscere un'attrice bella e famosa e di sposarla.
Il sognatore, diventato adulto, sognava di veder pubblicato il romanzo
che aveva scritto, di prendere il posto del suo direttore e di sposarne la segretaria.
Il sognatore, ormai vecchio, sognava di vivere ancora qualche anno.
Il sognatore ormai era morto.
Nel cassetto della sua scrivania furono trovati più di duemila fogli, completamente bianchi.


INCUBI

Non gli davano tregua. Esseri mostruosi ovunque. Lo inseguivano dappertutto. Non c'era scampo. Nessuna via d'uscita. Nessun posto dove rifugiarsi. Mostri orrendi, mummie viventi, sciacalli e squali umani, serpenti a sonagli, giganteschi ragni neri e pelosi. Un muro, davanti a lui. Non c'era più scampo. Era finita...
Si svegliò di soprassalto nel suo letto. Era stato solo un sogno. Tutto intorno a lui era normale. Al suo fianco c'era la moglie, il bambino dormiva nella camera accanto, la sveglia segnava le 6.30. Tra due ore doveva essere in ufficio.
Era stato solo un sogno. Adesso iniziava l'incubo.


L'UOMO CHE RIDEVA

Era un uomo come tanti, tutt'altro che stupido. Aveva un buon lavoro, una bella ragazza e abbastanza soldi da condurre una vita piuttosto agiata. Aveva un unico difetto: quando era felice piangeva, e quando era triste rideva. Fin da quando era piccolo i genitori lo avevano portato dai migliori medici, e molti specialisti si erano interessati al suo caso, ma nessuno era riuscito a trovare una cura per la sua strana malattia.
Ora aveva ventinove anni, e questo difetto lo perseguitava. La sua fidanzata lo aveva lasciato, non aveva più amici, e tutti si guardavano bene dall'invitarlo a un matrimonio o a un funerale, durante i quali metteva in imbarazzo i presenti scoppiando in allegre lacrime o in una fragorosa e commossa risata. Lui aveva un bel dire, quando, giustificando una sua risata alla notizia della morte di un suo parente, diceva di essere vittima di un crudele scherzo della natura, e di essere sinceramente dispiaciuto, e che una sua risata equivaleva al pianto di una persona normale. Fatto sta che, gli credessero o meno, tutti cercavano di evitarlo, e la sua presenza a un funerale era decisamente malvista.
Così, un giorno, decise di fingere.
Si riconciliò con la sua ragazza e con tutti i suoi amici, contenti di vederlo guarito. Alcuni giorni dopo, al funerale della madre della sua fidanzata, pianse per tutto il tragitto dalla chiesa al cimitero.
E finalmente si sposò: la cerimonia, sontuosa, con un centinaio di invitati, fu perfetta.
All'uscita della chiesa erano tutti in posa aspettando lo scatto del fotografo.
Lo sposo, al centro, sorrideva felice.


L'ULTIMO DESIDERIO

Stava guardando la lampada ad olio che aveva appena comprato dalla vecchietta che vendeva oggetti d'antiquariato fuori dall'università. Gli era andato bene un esame, e aveva voluto ricompensare l'anziana signora che gli aveva fatto gli auguri prima che entrasse nell'ateneo. Aveva speso tutti i suoi risparmi.
- "È un affare" - gli aveva detto - "È la lampada di Aladino"-
Sorrise ripensando alle parole della donna e ripose la lampada in soffitta.
Fu solo alcuni mesi dopo, che, mettendo in ordine la soffitta, la ritrovò. Stava cercando di pulirla quando un fumo bianco e profumato uscì dalla lampada avvolgendolo in un dolce abbraccio. Sentì una voce dentro la sua testa che gli diceva che aveva la possibilità di esprimere sette desideri, che sarebbero stati tutti esauditi. Poi il fumo scomparve. Sul momento pensò di aver vaneggiato, o alla possibilità che la lampada contenesse droghe o essenze orientali. Tuttavia cosa gli costava provare? Non gli ci volle molto per decidere il suo primo desiderio: diventare ricco. Si stava chiedendo quanto tempo dovesse aspettare per verificare se la sua richiesta fosse stata esaudita quando squillò il telefono. Dall'altro capo una voce stentorea stava parlando con accento inglese. Era l'avvocato di un eccentrico miliardario appena scomparso, che aveva voluto destinare la metà delle sue sostanze a un beneficiario scelto a caso. Il legale gli aveva telefonato per informarlo che il fortunato era stato lui, e che da quel momento possedeva venti milioni di dollari. Incredulo, posò il telefono mentre dall'altro capo della cornetta l'avvocato stava ancora parlando, chiedendogli se per caso non avesse bisogno di un consulente o di un legale.
Era diventato ricco. E soprattutto aveva ancora sei desideri da esprimere. Corse subito in soffitta, e, memore di molte fiabe che narravano le più svariate beffe, utilizzò subito altri tre desideri per chiedere di vivere in eterno, di non ammalarsi mai e di restare sempre così, senza invecchiare. Poi pensò anche all'amore, chiedendo che tutte le donne si innamorassero di lui. Dopo alcuni mesi di vita spensierata tra lussi e viaggi si sentiva insoddisfatto. Gli mancava la realizzazione professionale, il successo, l'ammirazione della gente. Fu così che consumò anche il sesto desiderio: avrebbe avuto successo in qualsiasi campo si fosse cimentato. Scrisse un libro che divenne in poco tempo un best seller, tradotto in tutto il mondo. In un anno divenne il libro più venduto di tutti i tempi, superando anche la Bibbia. Ma essere uno scrittore famoso non gli bastava, così passò al cinema, vincendo un Oscar come attore e uno come regista.
Ma dopo i primi tempi di grande euforia, anche il successo e la fama lo avevano stancato. Non solo per gli aspetti negativi come l'impossibilità di avere una vita privata, ma anche perché si stava chiedendo se fossero veramente le cose più importanti della vita: in fondo non gli era mai importato di quello che pensava la gente, anzi, aveva sempre nutrito il più profondo disprezzo per il genere umano, tranne, ovviamente, che per sé stesso. Si chiedeva se fosse davvero così importante, allora, ottenere l'approvazione della gente piccola e squallida.
Fu così che iniziò a pensare all'ultimo desiderio. Si era lasciato di proposito un desiderio per qualsiasi eventualità, per non consumarli tutti, e adesso stava meditando quale gli convenisse maggiormente chiedere. Alla fine decise. Strofinò la lampada ed espresse il suo ultimo desiderio: "voglio essere felice".
- "Posso vederlo?" -
- "Certo, signora" -
L'infermiere aprì la porta della stanza. Lui era lì, sdraiato sul letto.
- "È suo figlio, vero? Certo che è un peccato. Aveva tutto: soldi, successo, fama. Pensi che il suo libro è stato il più venduto in tutto il mondo. Lo invidiavo da morire, avrei voluto essere al suo posto. È proprio vero che nella vita non si può mai dire. Adesso non farei certo cambio con lui. Da un giorno all'altro, ridursi così... Poveretto... si sa poi che cos'è stato? Parlavano di un embolo, di un'ischemia cerebrale... Oh, mi scusi, immagino che sarà doloroso per lei ripensare a quello che è successo..."
La donna aveva il viso rigato dalle lacrime. Quello che un tempo era suo figlio era diventato un cerebroleso privo di qualsiasi facoltà intellettiva, che non riusciva più nemmeno a parlare o a comunicare. Lo guardava sdraiato sul letto, immobile.
Con un sorriso perennemente stampato sul volto.



SCHEDA PERSONALE

-"Voglio la sua testa" - sbotta il Direttore Generale della Wilson, una multinazionale di dolciumi, rivolto al suo nuovo segretario.
-"Non si può andare avanti così: in tre mesi ci ha fatto perdere ventimila dollari con i suoi errori idioti. Entro domani voglio un nuovo contabile al suo posto. Adesso va' pure e provvedi tu a tutto, d'accordo?"-.
Rimasto solo nel suo ufficio, il Direttore pensa compiaciuto al suo nuovo segretario: "Un tipo in gamba, non discute mai un ordine, ed è sempre il più zelante; e pensare che l'ho assunto solo da due settimane. Anzi, adesso che ci penso non ho nemmeno guardato la sua scheda personale".
Si alza dalla poltrona e, raggiunto uno schedario, vi estrae una pratica e si mette a sedere.
"Come sospettavo: curriculum vitae ottimo, quasi perfetto".
Poi legge le note personali.
"Eccellente".
Quindi sposta l'occhio sulla relazione redatta dallo psicologo che, per regola instaurata da alcuni anni, sottoponeva tutti i nuovi dipendenti a un colloquio. Scritta in modo discorsivo, recita:
Il soggetto, pur dialogando con facilità e senza alcun timore apparente,
A questo punto sente dei rumori lontani
fa trasparire una profonda introversione, quasi psicotica, e presenta
che si avvicinano sempre di più...
parecchie difficoltà di astrazione a livello psichico, che ingenerano
poi dei passi che si avvicinano al suo ufficio,
un profondo imbarazzo nell'elaborazione concettuale del linguaggio
la porta si apre: è il segretario. Ha in mano qualcosa...
o, per dirla in termini più semplici,
...qualcosa che gocciola, ma non si vede bene..."Oh, mio Dio!"
prende tutto alla lettera.



CICATRICI

Volti devastati da orrende ferite. Li vedeva tutti i giorni, nessuno pareva esserne immune. Eppure lui era il solo che potesse vedere le orrende devastazioni sulle facce della gente. Fin da bambino aveva preoccupato i suoi genitori, che temevano per la sua sanità mentale e pensavano di avere un figlio visionario.
Fu solo col tempo che capì l'origine delle ferite che vedeva deturpare i volti della maggior parte delle persone che conosceva. Le poteva scorgere mentre si formavano ad ogni compromesso, crescendo in maniera proporzionale ad ogni loro meschinità e cattiveria. Ma lui era diverso. E proprio per questo riusciva a vedere la devastazione sui volti altrui. Aveva sempre giurato che non sarebbe mai stato come loro, che non si sarebbe mai piegato alla società, che non avrebbe mai vissuto una vita insulsa e banale. No, lui sarebbe stato diverso, sempre. Avrebbe fatto qualcosa di grande.
Intanto il tempo passava. Si laureò, si sposò e accettò di entrare nello studio legale del padre della moglie.
Dopo una dura giornata di lavoro, tornato a casa, dato il consueto bacio alla consorte, andò a salutare suo figlio. Il bambino gli fece una domanda. Uscito dalla stanza si chiuse in bagno. Si guardò allo specchio, aprì la finestra e si gettò verso l'asfalto.
Durante il volo di cinque piani, una sola frase gli risuonava nelle orecchie. "Cosa sono quelle ferite che hai sulla faccia, papà?"



COME LE FORMICHE

Provate qualche volta a guardare le formiche. Laboriose, corrono avanti e indietro senza sosta. Sono così piccole. La tentazione di schiacciarne qualcuna è irresistibile. Se non altro per vedere la reazione delle altre, che per un momento sembrano impazzite. Ma dura poco. Poi tutto riprende come prima, come se niente fosse successo. Di nuovo, avanti e indietro per gli stessi percorsi, giorno dopo giorno. Niente è più noioso delle formiche. Provate a guardarle più spesso. Forse riuscirete a capire di più chi vi è superiore. Chiamatemi pure Dio, basta che sappiate che avete sbagliato tutto. Mi avete rivestito delle vostre speranze, mi avete creato a vostra immagine e somiglianza, quello che avreste voluto che esistesse: un essere divino dispensatore di giustizia che si prende cura di ognuno di voi, prima e dopo la morte. E ognuno si creava il suo, che avrebbe castigato i suoi nemici e chi non era d'accordo con lui. Consolazione per i più deboli e sfortunati e strumento di potere per i più forti. Avete negato la morte, creandovi un aldilà collettivo e uno personale, per ognuno di voi. Posso solo darvi un consiglio.
Guardate più spesso le formiche.


LA SPINTA

Aprendo il cassetto avvertì la sensazione di violare l'intimità di qualcuno. Eppure era il suo cassetto, dove erano stati riposti tutti i suoi effetti personali, dalla sua infanzia alla sua maturità. Lettere, racconti, diari, indirizzi. Come può cambiare un uomo. Era come guardare vecchie fotografie o guardarsi allo specchio: non si riconosceva. Non aveva scritto lui quella roba. Era stato un altro. Un ragazzo che sognava qualcosa di grande, che era disgustato da una vita normale, da un lavoro ripetitivo e noioso, da una famiglia banale e borghese.
Si era completamente dimenticato di quel periodo, delle sue idee, del suo rifiuto per tutti i compromessi. Del resto non aveva più molto tempo per pensare. Il lavoro in banca, non certo eccitante, ma stabile e sicuro, sua moglie e suo figlio, le rate dell'auto, il mutuo della casa, le tasse...
Uscì sul balcone a prendere un po' d'aria. Sentiva dietro di sé una presenza. Si voltò ma non c'era nessuno.
Eppure, prima di cadere al suolo, avrebbe giurato che qualcuno gli aveva dato una spinta.



IL DONO

Odiava farlo. Donare un suo gioco a un altro bambino.
Era anche il giorno del suo compleanno. Perché avrebbe dovuto regalare qualcosa? Era lui che doveva ricevere i regali.
Quella stupida maestra gli aveva rovinato il compleanno. Ma quando sarebbe arrivato suo padre a prenderlo, nel parco che la loro famiglia aveva donato al comune, gli avrebbe raccontato tutto, e lui avrebbe fatto licenziare quella maestra. Brutta strega. Cosa importava a lei di quel bambino cencioso? Tutto perché aveva raccontato ai suoi compagni di classe che cosa gli avevano regalato per il suo compleanno. Aveva raccontato della macchina, simile a un'auto vera, il primo modello lanciato sul mercato, e del campo da tennis che suo padre gli aveva fatto costruire, e dei soldatini che aveva ricevuto, e di tutti i giocattoli che aveva a casa.
E quella stupida maestra si era permessa di dirgli di regalare il suo vecchio pupazzo a quel bambino. Solo perché era povero.
Eccolo lì, con il mio pupazzo. Chissà cosa starà pensando.
Il bambino povero stava ammirando il pupazzo che gli aveva regalato il suo nuovo amico. Era bellissimo. Non aveva mai avuto un giocattolo. Ogni tanto si sentiva male per questo. Ma poi sua mamma gli diceva che lui era speciale, che aveva qualcosa che nessun altro aveva. E allora era contento. Si era sentito in dovere di fare anche lui un regalo al suo nuovo amico. Anche se sua madre gli aveva detto di non farlo mai, lui aveva disubbidito. Aveva voluto donare al suo compagno di classe l'unica cosa che aveva, quello che lo rendeva così speciale, come diceva la sua mamma.
Si era punto un dito e aveva lasciato cadere una goccia di sangue nel bicchiere del bambino ricco.
Ecco, pensò, così sarai anche tu speciale come me.

 

CHE LA PACE SIA CON VOI

In piedi, davanti al banco della chiesa, lo guardava negli occhi. Stringeva "in segno di pace" la mano che lo aveva rovinato.
La mano che aveva firmato il suo licenziamento, che lo aveva ridotto sul lastrico, cancellando in un attimo tutta la sua vita. Con il lavoro aveva perso anche la casa, la famiglia, la dignità, l'umanità.
Chissà se si era lavato le mani, dopo. Se era bastato un po' di sapone per togliere il rimorso. Se lo era sempre chiesto. E si era chiesto cosa potesse esserci negli occhi di chi ti uccide, di chi distrugge la tua vita, di chi ti dice che non servi più.
Quegli occhi lo accompagnarono finché arrivò il treno.
Il suo ultimo treno, quello che lo avrebbe portato alla destinazione finale, che adesso era sempre più certo di conoscere. Sdraiato sui binari guardava i fari della locomotiva vedendo ancora quegli occhi in cui aveva scorto la verità, oltre il velo della menzogna e delle illusioni.
Davanti a lui non c'erano più aspettative, speranze, sogni. Solo il nulla.
E due occhi spenti che lo fissavano inespressivi, con il vuoto dentro.

 

IN GABBIA

Un leone in gabbia. Il re della foresta. Sbarre d'acciaio davanti ai suoi occhi.
L'orizzonte sterminato è solo uno sbiadito ricordo.
Pochi metri di terra sotto le sue zampe. Non si può correre.
L'infinità della savana è rimasta nella sua memoria.
O forse ci è pure nato, in quella gabbia. E allora non sa che cosa sia la savana. Non ha mai visto oltre le sbarre. Ma sa che c'è qualcosa, oltre quelle sbarre. Qualcosa di più grande, qualcosa che non potrà mai raggiungere. E forse neanche mai vedere. La libertà.
Ma la gabbia si è aperta. Non si sa come. E la pazzia e il furore di un vita da prigioniero si sono scatenati. Il sangue scorre a fiumi. Nessuno è sopravvissuto.
La pistola ancora in mano. Lo hanno trovato così, dopo che aveva brutalmente ucciso tutti i suoi colleghi. Senza una ragione apparente. Era entrato alle otto, come tutte le mattine. E aveva estratto la pistola.
L'ufficio era un lago di sangue. Parlarono subito di follia. Lo trovarono lì, in piedi, immobile. Che mormorava una sola frase.
"Il leone è libero"



A UN SOGNO

Vorrei darti tutto ciò che mi appartiene, dividere i miei pensieri, farti assaporare le mie emozioni, donarti le mie lacrime, senza pensare a quante ne ho sprecate. Mi chiedo spesso dove tu possa essere. Forse ti nascondi nei greggi delle discoteche, o in un ufficio noioso e polveroso. Qualche volta cerco un segno, un barlume negli occhi, una parola, un sorriso diverso dalle vuote risate. Ti penso sempre, anche se non so ancora come immaginarti, come saranno i tuoi capelli, i tuoi occhi. Non so nemmeno se saprò riconoscerti, o se saprai farlo tu. Non so neppure più se sperare di incontrarti o se non sia meglio conservarti come sogno, che niente al mondo potrà mai scalfire. Ma, comunque vada, voglio che tu sappia che il mio amore sarà sempre per te, per la persona con cui non dovrò mai fingere di essere un altro, mai far finta che non mi importi, mai nascondere le lacrime, mai mentirti. E in questo non ti tradirò mai.


UNA PICCOLA ILLUSIONE

E' stata solo un'illusione. Pensavo di aver trovato il vero amore. E invece i tuoi gesti, le tue parole, i tuoi sentimenti, erano tutte bugie. La tua profondità, la tua sensibilità, la tua dolcezza, il tuo amore, sono stati solo una grande menzogna. Per te stessa. Io ho perso solo qualche lacrima. Tu hai perso la parte migliore di quello che avresti voluto essere.


CAMERA 203

Un rumore sordo.
La sua mente iniziò a mettere a fuoco la situazione.
Intorno a lui una stanza d'albergo, una città che non era la sua.
Sentì subito nell'aria il suo dolce profumo.
Accanto a lui, sul letto, il dolce incavo del suo corpo. Dentro di lui, ben più profondo, il solco della sua assenza. Come tizzoni ardenti, i segni della presenza di lei ardevano bruciando tutte le sue certezze.
Un incontro casuale, una donna conosciuta la sera prima che in poche ore aveva cambiato la sua vita.
Ripensando alla notte appena trascorsa, non poté trattenere il ghiacciato rimorso che gli trafiggeva il cuore. Il sordo dolore che accelerava i battiti del suo cuore, lo stupore, l'incredulità, l'enorme sforzo per nascondere il fiume di emozioni e sentimenti scaturito da quell'incontro casuale.
Ma le regole erano chiare fin dall'inizio. Nessun coinvolgimento emotivo. Una sola notte insieme, poi ognuno avrebbe proseguito per la sua strada.
Ma non era quello che cercava. Non con lei.
Gli abbracci, i baci, l'amore goffamente camuffato che appariva superficialità.
La sua incapacità di fingere.
Avere in mano la felicità e sapere di essere costretti a restituirla al risveglio. Non era stato capace di vivere il sogno fino in fondo. Non era stato capace di accontentarsi di assaporare la felicità una volta soltanto. Sapeva che non sarebbe mai riuscito a trattenerla, a vincere la sua voglia di libertà. E aveva preferito non dover sentire per sempre il sapore della felicità solo come un ricordo, sapendo che non sarebbe mai più stata sua. Forse ci sono cose che è meglio non conoscere, non provare. Questa, almeno, era la sua filosofia.
Rivestendosi, corse con la mente alla sua quotidianità. Telefonò a casa. Come stai? come stanno i bambini? torno domani come previsto no tutto bene.
Chiuse la stanza e uscì camminando tranquillo, lasciando tutto se stesso nella camera 203.


IL VUOTO

Jean André Gides era un pittore squattrinato. Si considerava un artista, ma i suoi quadri erano, a detta di tutti, critici e non, privi di qualsiasi valore, e il consiglio più ricorrente che gli veniva dato era quello di cambiare mestiere.
Finché, un giorno, quando ormai era alla disperazione, un uomo si presentò nel suo studio. Era un uomo sui quarant'anni, molto distinto ed elegante, e gli propose di diventare il suo manager. Alle obiezioni del pittore, che gli disse che non avrebbe potuto pagarlo, rispose che per il momento non voleva nulla, e che avrebbe preteso il suo compenso solo se fosse riuscito a farlo diventare un pittore di successo.
Jean André Gides accettò.
Da quel momento, in poco tempo la sua fortuna cambiò: i critici d'arte cominciarono ad apprezzare i suoi quadri, il mondo della pittura iniziò a conoscerlo e la sua firma, JAG, con cui contrassegnava ogni suo dipinto, era una garanzia di successo. In un paio d'anni divenne il pittore più quotato del momento, e i suoi quadri venivano contesi a suon di milioni di dollari.
Passò ancora un anno; proprio quando Gides stava iniziando a lavorare al suo capolavoro, il suo manager pretese di essere pagato. Da quel giorno il pittore sparì. Nessuno riuscì a capacitarsi della sua scomparsa. Alcuni dissero che si era trasferito in un'isola del Pacifico, altri che girava il mondo sotto mentite spoglie, altri ancora, i più fantasiosi, che, per avere successo, aveva venduto l'anima al Diavolo, il quale si era presentato per la riscossione.
L'unica cosa certa è che nessuno lo vide mai più. Di lui resta solo il suo ultimo dipinto, considerato unanimemente dai critici d'arte un capolavoro assoluto. Intitolato "Il Vuoto", sul quadro campeggia, in basso a destra, la sigla JAG. Per il resto la tela è immacolata.

 

IL TUNNEL DELL'ORRORE

Erano tutti sul treno che percorreva il tunnel dell'orrore. Qualcuno piangeva, altri si godevano lo spettacolo, altri ancora attendevano con ansia l'uscita. Si intravvedeva una luce in fondo al tunnel, una luce che dava tranquillità e speranza.
Intanto il treno andava avanti, tra orrori e grida, correndo sempre di più, e, alla fine del tunnel, l'accecante bagliore bianco del vuoto.



LE ALI

Ridano pure coloro che mi vedono costruire le ali. Che mi considerano stupido, o matto. Che dicono che non posso volare, che è impossibile, che nessuno di loro lo fa eppure sono felicissimi. Ridano pure.
Non rideranno più quando mi vedranno volare enorme sopra le loro teste, mentre loro non saranno che tanti puntini invisibili.


IL PATTO

Non poteva crederci. Lui, un modesto impiegato, che si trovava di fronte al re delle tenebre. Il Diavolo. Non era davvero come se lo era immaginato, o come se lo immagina la maggior parte della gente. Nelle sue sembianze umane avrebbe potuto passare per una persona rispettabile, un uomo d'affari, uno che ispira fiducia e onestà.
Era lì per vendergli l'anima, stanco, dopo tanti anni, della vita di tutti i giorni. Era disposto a tutto pur di ottenere quello che voleva. Finalmente aveva la possibilità di vivere la propria vita da protagonista, di essere fiero di sé, ammirato e rispettato da tutti. Successo, ricchezza, donne.
Il Diavolo, udita la sua richiesta, scoppiò a ridere.
"Come potrei comprare una cosa che è già mia?"



NATI PER VOLARE

Gli Albatros sanno volare.
Questo lo sanno tutti, ma forse non tutti sanno che esistono altri animali, migliaia e migliaia più degli Albatros, identici a questi in tutto e per tutto, salvo che per il fatto che non volano. Alcuni di loro saltellano qua e là convinti di volare, mentre gli altri, che non si alzano da terra, riversano su di loro fugaci sguardi di ammirazione.
Questi animali vivono da sempre nello stesso luogo, una palude, dove mangiano, dormono, si moltiplicano. Il loro unico divertimento, se così si può chiamare, consiste nel guardare gli Albatros volare in alto, enormi, sopra di loro, che per gli Albatros non sono altro che tanti puntini invisibili. Allora si riuniscono tutti su un promontorio vicino alla palude per vederli meglio, e qualcuno, alzando la zampa infangata, ne indica uno dicendo a qualcun altro: "vedi quello? Molto tempo fa, quando era così piccolo che non sapeva volare, era qui con me nella palude, e giocavamo insieme".
Infatti gli Albatros nascono tutti nella palude, spesso sono anche figli degli altri animali, ma, nonostante ciò, diventano Albatros.
Anche lui voleva volare.
Era stato fino ad allora nella palude ed era stanco di vivere nel fango. Era sempre sul promontorio, e quando non guardava passare lo stormo dei volatili si esercitava a volare. Sapeva già saltellare, ed era un buon inizio, ma non gli bastava. Doveva volare. Non c'era uno degli altri che lo incoraggiasse, che gli dicesse che poteva farcela. Ma del resto era giusto così: perché, se non erano riusciti gli altri, avrebbe dovuto farcela lui? Ma lui sapeva che ci sarebbe riuscito, e che un giorno, non gli importava anche se non subito, avrebbe volato.

 

IL SEGRETO DELLA FELICITA'

Il grande portone d'acciaio si aprì lentamente di fronte a lui. All'interno, un enorme parco solcato da un viale bianco che conduceva alla villa. Lungo il tragitto poteva vedere alcuni degli ospiti della casa. Erano l'immagine della serenità e della gioia. Ridevano, cantavano, ballavano. Nessuno era fermo o seduto in qualche angolo. Non per niente si trovava all'interno di "Villa Felicità". Era una clinica, o meglio una specie di pensionato di lusso, dove l'esorbitante retta mensile era giustificata dall'obiettivo garantito dal soggiorno nella residenza: il raggiungimento della felicità. Il risultato era assicurato: tutti gli ospiti della villa erano felici, e nessuno si era mai lamentato. Il segreto della felicità era custodito gelosamente dal proprietario della villa, eccentrico uomo d'affari che aveva fatto una fortuna: del resto chi non brama, nella vita, la felicità? E chi non è disposto a pagare qualunque prezzo per ottenerla?
Era il primo giornalista a varcare quella soglia, grazie all'enorme somma sborsata dal suo giornale per ottenere un'intervista esclusiva.
Il proprietario della villa si dimostrò una persona cordiale, con il piglio dell'affarista ma deciso, a suo dire, ad operare per il bene dell'umanità, alla quale chiedeva, certo, un piccolo sacrificio. Ma in fondo che cos'erano un po' di soldi in confronto a una vita felice? Naturalmente non rivelò nulla sui metodi che utilizzava. Si limitò a precisare che l'effetto era permanente, e che, nonostante potesse durare anche al di fuori della villa, tutti i suoi ospiti avevano preferito restare con lui. Le spese per la permanenza, dopo un'ingente quota iniziale, erano in realtà minime, pari a quelle di un qualsiasi buon albergo.
Raccolte le dichiarazioni del proprietario, il giornalista si incamminò sul candido viale alberato riflettendo sulle parole dell'intervistato.
Lasciando l'atmosfera serena e gioiosa della villa non poté fare a meno di pensare con inquietudine a quel segno rossastro che aveva scorto sul capo di tutti gli ospiti della residenza.
Sembrava proprio una cicatrice.

 

LA CITTÀ DELLA GIOIA

Il paese brulica di vita. Persone che entrano nei negozi, bambini che ridono, donne che chiacchierano. La strada è gremita di gente.
Lo sguardo si allontana. Il punto di vista cambia.
Intorno alla città c'è solo il deserto. Le case sono semplici sagome sostenute da un'impalcatura di legno.
E il paese brulica di vita.



COLPO DI GENIO

Era il suo primo caso di suicidio, o almeno appariva tale. I suicidi non erano certo molto frequenti: l'ultimo, se non ricordava male, risaliva al 2020. Una pioggia insistente lo accompagnò fino alla porta dell'abitazione. La casa era già presidiata dai suoi colleghi della squadra omicidi. Non che si sospettasse qualcosa, era una pura formalità, intervenivano in tutti i casi di morte violenta. E che questo fosse un caso di morte violenta risultava evidente entrando nella camera del suicida. Il colpo che si era sparato alla tempia aveva avuto un effetto devastante, disseminando materia cerebrale in tutta la stanza.
Anche l'interrogatorio della moglie faceva parte della prassi. La donna non aveva idea del motivo che potesse aver spinto il marito a compiere quel gesto.
- "Era un uomo felice" - disse - "aveva tutto quello che poteva desiderare: un buon lavoro, una casa, una bella macchina, una famiglia. Tutto. Non capisco. Era sempre stato felice." -
In quel momento arrivò il medico di famiglia, che, dopo aver somministrato un tranquillante alla moglie, si sottopose di buon grado alle domande di rito. No, non aveva idea del motivo per cui l'uomo si fosse tolto la vita. Anche lui lo aveva conosciuto come un uomo tranquillo e sereno. Una persona felice. Certo, era conscio dei suoi limiti, ma questo non era mai stato un problema per lui. Anche l'intervento cui si era sottoposto alcuni giorni prima era riuscito perfettamente.
- "Quale intervento?" -
- "Oh, niente di serio. Non che fosse malato, anzi, era in perfetta salute. Non è stato un vero e proprio intervento, ha solo voluto sottoporsi a un B.T., un trasferimento cerebrale. Non so se sa come funziona; non è un trapianto, né un trasferimento vero e proprio, piuttosto un'aggiunta..." -
- "Lo so, grazie. Sono un poliziotto ma vedo anch'io i telegiornali." -
- "Be', insomma, come le dicevo questo trasferimento è riuscito perfettamente, senza alcuna complicazione, anche se gli avevo sconsigliato di scegliere un cervello di tipo "X"." -
- "Perché? Com'è un cervello di tipo "X"?" -
- "Il cervello di un genio." -


LA DONNA IDEALE

Quasi non riusciva a crederci: sul letto, accanto a lui, c'era la più bella ragazza che avesse mai visto. Il viso dolce, il seno morbido, le braccia sottili e armoniose, i fianchi snelli, le gambe perfette. Era la sua donna ideale, quella che tutti vorrebbero avere ma che quasi nessuno riesce a trovare. Lui c'era riuscito. Era così immerso nella contemplazione della sua amata che non udì bussare alla porta.
Dopo aver bussato ripetutamente senza ottenere risposta, i poliziotti sfondarono la porta dell'appartamento. Lo spettacolo che si trovarono di fronte era orripilante. C'era sangue dappertutto, e teste, gambe e braccia mozzate disseminate ovunque.
Nella stanza attigua un uomo era chino sul letto.
Accanto a lui era disteso un corpo composto da membra e parti del corpo di varie donne cucite alla meglio in un macabro puzzle.


NELL'ARMADIO

Avevo una pianta stupenda nel mio armadio. La innaffiavo di illusioni e i suoi frutti erano speranze.
Sono passati molti anni. L'ultima volta che l'ho vista era avvizzita, e muffa e ragnatele se ne erano impadronite.
Adesso sono un uomo sposato e lavoro in banca. Non ho più aperto quell'armadio.
Ho paura di quello che potrei trovarci.


ERRORE DI SISTEMA

L'eccitazione era palpabile. Il laboratorio era in fermento. Finalmente era stato realizzato. Il computer vivente, il cervello elettronico più complesso esistente al mondo. La novità era più grande di quello che si possa pensare: il computer era stato costruito in modo da provare emozioni. Non era solo la mente artificiale più sofisticata esistente al mondo, era un essere umano. La sua intelligenza artificiale avrebbe potuto capire il significato di molte domande, e trovare una risposta. Sarebbe stato possibile sapere se Dio esiste, qual è il senso dell'esistenza umana, se ci sono altre forme di vita nell'Universo.
L'inserimento degli ultimi dati era terminato. L'enorme hard disk lavorava rumorosamente. Sembrava quasi gemere. Il modulo continuo iniziò ad uscire dalla stampante. Poi, improvvisamente, tutto si fermò in un silenzio inquietante.
Uno degli scienziati controllò i responsi del computer. Si voltò impallidendo verso i colleghi che lo fissavano perplessi.
"Si è suicidato".



SCELTE

La sua mente ha conosciuto profondità stellari, il suo animo racchiude in sé una galassia. Ha assistito alla nascita di molti mondi, è stato spettatore della fine di molti altri, comprende cose che nessun uomo potrà mai nemmeno immaginare. Eppure non ha mai conosciuto la felicità. La felicità di un uomo semplice, di una vita normale, senza aspirazioni, senza troppe pretese. E' ciò che ha chiesto a Lucifero, ed è stato accontentato: ora vive sulla Terra, sotto spoglie mortali, ha una bella moglie e un figlio, un buon lavoro, una casa, un giardino, una bella macchina. Tutto. Tutto quello che un uomo può desiderare. Qualsiasi uomo.
Si guarda allo specchio, e non si trova di fronte l'uomo che tutti gli altri vedono, un uomo del tutto normale, ma una figura argentea. E capisce che mai potrà essere diverso da quello che è, neanche vendendo l'anima a Lucifero.
In un attimo la realtà fittizia che lo circondava svanisce. L'uomo che un momento prima era una persona qualunque sfreccia ora nel cielo. Lo avvolge una tristezza infinita, ma ha finalmente capito che non potrà mai rinunciare alla sua essenza, e che, anche se sarà per sempre solo, per sempre infelice, non potrà essere altrimenti, perché non potrà che solcare i cieli seguendo la sua natura aliena.
Per sempre.


RIFLESSI

Si stava facendo la barba quando successe. Un piccolo taglio. Niente di strano. Solo che non sanguinava. Provò a toccare. Niente. Eppure qualcosa si era aperto. Discostò i lembi della ferita. Nulla. Nella ferita vedeva solo qualcosa di scuro. Aprì ancora di più il taglio che si era procurato. Si ritrasse terrorizzato dallo specchio.
Sotto la sua pelle c'era solo il vuoto.


LA MANO

La sua mano tranciata da una lamiera era stata l'ultima cosa che aveva visto durante l'incidente. Poi era svenuto.
Non sapeva quanto avesse dormito; forse due giorni, forse di più. Si era trovato in un letto d'ospedale, con un gran senso di nausea e dolori in tutto il corpo. Il dolore finiva al polso destro, ma al posto della sua mano, un'altra. Non era artificiale, era proprio umana, eppure non era la sua; certe cose si sentono, e poi la sua mano era stata maciullata nell'incidente. Ma allora di chi poteva essere?... Un brivido gli percorse la schiena: era la mano dell'automobilista che aveva ucciso nell'incidente. Rivedeva mentalmente lo scontro: lui che viaggiava a velocità folle, lo stop che non aveva visto, la macchina rossa, il terrore sul volto del guidatore che aveva investito, poco prima che la sua testa venisse schiacciata. Sì, era proprio la mano di quell'uomo. Sussultò: si era mossa, senza che lui lo volesse. Non riusciva a comandarla, non era una mano, era l'uomo che aveva ucciso, e voleva vendicarsi. Ed era forte, più forte del suo braccio...
Lo trovarono morto in sala di rianimazione, si era tolto il tubo dell'ossigeno, aveva ancora la mano destra che stringeva il tubo.
- "Non riesco a capire" - disse il medico che l'aveva operato - "era riuscito tutto perfettamente; oltre ad averlo salvato siamo riusciti perfino a riattaccargli la sua stessa mano. Era stato davvero fortunato." -
- "Già, anch'io lo sono stato; fratturarsi solo il setto nasale e una gamba in un incidente di quel tipo è stato davvero un miracolo. Eppure, anche se è stato lui a provocare l'incidente, non serbavo rancore nei suoi confronti, anzi, sa cosa le dico? Mi dispiace molto che sia morto senza che gli abbia potuto dire che stavo bene e che lo avevo perdonato. Avevo già deciso: appena fosse uscito dalla rianimazione, sarei andato a stringergli la mano." -

 

BELLI E BESTIE

-"Non capisco proprio tutto questo scalpore"- squittì la bionda dalle enormi forme.
-"Il nostro è un vero amore, a me non importa niente del fatto che lui abbia appena ereditato una fortuna"- miagolò all'indirizzo dell'intervistatore.
-"E anche se siamo di razza diversa, che male c'è? Io lo amo per come è dentro, non certo per i suoi soldi, e lui questo lo sa bene. Vero, amore?"-
"Woof" - rispose il pastore tedesco accovacciato al suo fianco.


24 DICEMBRE

Era morto la notte del 23 dicembre, sul marciapiede della strada in cui era solito chiedere la carità. Sembrava che dormisse; era seduto con la schiena appoggiata al muro, stretto nel suo cappotto logoro, con accanto il suo vecchio berretto vuoto.
Ma oggi era la Vigilia di Natale, e la gente era più buona. Delle centinaia di persone che passavano in quella via, molti lasciavano cadere qualcosa nel suo cappello: alcuni qualche moneta, altri (i più) una o due banconote. Perché si sa che a Natale la gente è più generosa. Poi, però, se ne andavano più felici, sentendo dentro di loro un benefico tepore.
Ormai era passata la mezzanotte. Era il 25 dicembre, la strada era deserta e lui era ancora lì, stretto nel suo cappotto logoro, con accanto il suo vecchio berretto pieno di foglietti di carta rettangolari.


RELATIVITÀ

Stava pensando a come era stata stupida. Le era bastato sfogliare un diario di alcuni anni prima, tappezzato di foto del suo attore preferito, di cuori con all'interno le iniziali T.H., per capire quanto fosse ridicolo essere stata innamorata di un attore. Che stupida! Il suo sguardo indifferente e distaccato si posava su quelle stesse immagini che fino a pochi anni prima la facevano palpitare. Ma adesso era cresciuta, aveva 18 anni. E non avrebbe potuto essere più fortunata. Aveva un ragazzo, il più bello della scuola, si sentiva più desiderata e più bella, tutti i suoi complessi adolescenziali si erano dissolti nel nulla. Il suono del campanello interruppe i suoi pensieri. Lasciò sul tavolo il suo vecchio diario tappezzato di foto e di cuori, accanto alla sua nuova agenda, dalle pagine bianche e ordinate, con appuntamenti, compiti, appunti delle lezioni.
Le fischiarono le orecchie. "Dimmi un numero" chiese al suo ragazzo. "Venti".
Dall'altra parte dell'oceano un uomo sentiva il vuoto dentro di sé. Era un attore, aveva avuto molto successo, anche se adesso era in una fase discendente della sua carriera. E non aveva mai conosciuto il vero amore. Donne sì, tante, sempre. Ma aveva aspettato per anni la sua donna, quella che avrebbe voluto sposare, e che, ne era sicuro, esisteva da qualche parte, in qualche sperduto angolo di mondo. Stava proprio pensando a lei, alla ragazza dei suoi sogni, alla donna che avrebbe potuto dare un senso alla sua vita e che non era mai riuscito a trovare. Poi diede un calcio alla sedia. La corda si tese e il cappio si strinse attorno al collo soffocando in un rantolo anche il suo ultimo rimpianto.


VENDESI

Seduta sull'erba, oltre il ciglio della strada, oltre le auto che correvano instancabilmente verso il nulla, aspettava. Un fuoco a scaldarle le mani, i suoi sogni a diffonderle un benefico calore nel cuore. Era sempre lì, giorno e notte, nell'attesa che qualche auto si fermasse. Su questo non aveva dubbi, qualcuno si sarebbe fermato. Qualcuno che l'avrebbe apprezzata per quello che era, anche se grassa, anche se non era mai stata bella, nemmeno da giovane. Un uomo. Un amante. Un cliente. Quante volte l'aveva immaginato. A volte sognava troppo forte, creandosi storie immaginarie, un motivo per restare lì, seduta, ad aspettare. E qualche volta ci credeva anche lei.


RACCONTI D'AUTORE

Aveva iniziato una notte. Soffriva d'insonnia, così si era seduto davanti al computer e aveva iniziato a scrivere di getto. Sembrava che le sue mani fossero solo lo strumento di qualcun altro. Sullo schermo si dipanava un racconto che sembrava già scritto, tanta era la facilità della stesura. Era la storia di un'intera famiglia trucidata nella propria casa.
Il giorno seguente, in ufficio, durante una pausa di lavoro lesse con sgomento una notizia sul giornale: "Famiglia selvaggiamente trucidata". Ma non ci badò più di tanto. Una semplice coincidenza, era la conclusione a cui giunse la sua mente razionale e analitica.
La notte successiva scrisse di un ragazzo, della sua vita, dei suoi sogni infranti, del suo suicidio.
La sera dopo apprese dalla televisione del suicidio di un ragazzo di vent'anni. Il metodo era lo stesso che aveva descritto nel racconto: il giovane si era dato fuoco e poi si era gettato dal palazzo dove abitava. Un volo di dieci piani che gli era valso il soprannome di "Torcia Umana". Che poi era anche il titolo del suo racconto.
Sgomento, smise di scrivere per alcuni giorni. Fin quando nella sua mente si affacciò un'idea.
La sera stessa si sedette davanti al computer e si mise a scrivere. In quel racconto il protagonista era lui. L'indomani era il giorno dell'estrazione dei biglietti della lotteria nazionale, e il primo premio sarebbe andato a lui. Avrebbe trovato il coraggio per lasciare la moglie, per mandare al diavolo il suo lavoro in banca, per dire al direttore quello che pensava di lui.
Il giorno seguente attese con ansia l'esito dell'estrazione, trasmessa in diretta televisiva. Ma il numero del suo biglietto non c'era.
Fu allora che capì. La sera prima non aveva scritto un racconto, ma solo quello che avrebbe voluto che succedesse. Così non funzionava. Aveva scritto senza passione, senza infondere arte nelle parole. Ormai lo sapeva. Doveva lasciare libero sfogo alla sua creatività, all'arte che era dentro di lui. Solo i suoi racconti si sarebbero avverati, non i suoi desideri o le sue aspirazioni trascritte senza il sacro fuoco che donava alle sue creazioni di aspirante scrittore.
Fece alcuni tentativi scrivendo altri racconti, storie che puntualmente si avverarono.
Allora decise di scrivere un romanzo. Sarebbe stata quasi un'autobiografia. Il protagonista aveva molte cose in comune con lui, ma la fine sarebbe stata diversa. Il suo protagonista avrebbe sfondato, sarebbe diventato un grande scrittore.
Fu così che, giorno dopo giorno, il suo romanzo iniziava a prendere forma. Pagine e pagine racchiuse nella scatola del suo computer, tutta la sua vita memorizzata nell'hard disk.
Quella sera era particolarmente depresso. Gli capitava spesso. In quei momenti vedeva tutto nero, o forse vedeva con occhi più obiettivi la realtà. E nella realtà, al di fuori del suo PC, lui era un fallito. Adesso più che mai ne era consapevole, e sapeva che niente avrebbe mai potuto cambiare questo fatto. Preso dallo sconforto evidenziò le pagine che aveva scritto fino ad allora, dalla prima all'ultima. Quindi premette il tasto "canc".

La donna non riusciva a dormire. Suo marito doveva essere ancora nello studio a scrivere. Non sapeva che cosa, perché lui non le aveva mai fatto leggere i suoi lavori, ma intuiva che potesse trattarsi di un romanzo, o di qualcosa di simile. Stanca di aspettare scese dal letto e si diresse verso lo studio. Aprì la porta senza bussare.
Nessuno. La stanza era vuota. Si chiese dove fosse suo marito. Non poteva essere uscito, perché non aveva sentito aprirsi la porta. Ma allora dov'era andato? Era impossibile che fosse sparito così. Non era certo il tipo da fare queste cose. Non riusciva a capacitarsene. Questa sparizione improvvisa, nel cuore della notte, era troppo strana. E ancora più strano era il fatto che, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare il volto dell'uomo che aveva sposato.

 

GUARIGIONE

- "Eccolo, signor Direttore." -
- "Prego, si accomodi." -
L'uomo si sedette davanti alla scrivania del Direttore.
- "Allora, mi dica. Come va?" -
- "Bene." - disse l'uomo. Il suo aspetto era dimesso, i vestiti laceri e consunti, il volto segnato dalla vita, la barba incolta.
- "Mi hanno detto che è guarito." -
- "Sì, sono guarito." -
- "Ha visto? Adesso potrà avere anche lei una vita normale, un lavoro, una casa, una famiglia, ed entrare finalmente a far parte della società." -
- "Sì." -
- "E' contento?" -
- "Sono contento" -
- "Bene, adesso può andare. E mi raccomando, niente più vaneggiamenti." -
Il Direttore congedò il paziente. Era contento del suo lavoro. Un altro malato di mente era stato reintegrato nella società e recuperato a una vita normale. Avevano dovuto tenerlo rinchiuso per quasi vent'anni ma ci erano riusciti. Era una grande soddisfazione per tutto l'ospedale guarire pazienti tanto gravi.
Questo, pensò il Direttore sorridendo, credeva addirittura di essere il figlio di Dio, tornato sulla Terra.
Che sciocchezza, pensò guardando fuori dalla finestra.
Nel vicolo due ragazzi normali stavano dando fuoco a un barbone.

 

PREDA INFINITA

Correva spinto dalla disperazione. Braccato. Poteva udire i latrati dei cani che annusavano la sua scia di dolore e sangue, di sudore e paura. E i passi veloci e decisi dei suoi inseguitori. Dietro di lui. Sempre più vicini. Doveva ignorare il dolore lancinante ai fianchi e la stanchezza delle gambe. Ormai era allo stremo. Il suo corpo cedette di colpo, vinto dalla fatica.
In pochi istanti i cacciatori lo avevano raggiunto. Due fucili puntati contro il suo viso implorante. Non aveva quasi più fiato per parlare, ma i suoi occhi imploravano pietà, le sue labbra sussurravano di risparmiarlo, che aveva una famiglia che lo aspettava a casa, due figli ancora piccoli che avevano bisogno di lui.
I fucili spararono e in una frazione di secondo che sembrava eterna due proiettili raggiunsero la sua testa.
In quell'istante uno squarcio si aprì nella sua mente. E improvvisamente capì.
Il suo piccolo e ottuso cervello diventò d'un tratto pensante.
Si ricordò della sua vita di cacciatore, e dello sguardo di tutti gli animali che aveva ucciso, trovandolo del tutto simile al suo. Comprese l'orrore che stava vivendo e che avrebbe vissuto per l'eternità, contrappasso dell'orrendo e mortale peccato di chi uccide esseri viventi per puro divertimento.
E finalmente capì. Era l'inferno.
Poi il buio. Per un breve istante.
Quando si risvegliò stava correndo spinto dalla disperazione. Braccato. Poteva udire i latrati dei cani che annusavano la sua scia di dolore e sangue, di sudore e paura. E i passi veloci e decisi dei suoi inseguitori. Dietro di lui. Sempre più vicini...

 

VENDETTA

Stava firmando autografi. Era all'apice della popolarità, fresco vincitore dell'Oscar come miglior attore protagonista.
- "Ciao" -
Alzò lo sguardo.
- "Ti ricordi di me, vero? Eravamo a scuola insieme, quasi vent'anni fa"-
Vicino all'uomo, appesantito da un matrimonio e da una vita normale, un bambino che doveva avere quattordici anni o poco più, estasiato dal vedere che il padre conosceva un attore famoso.
- "Mi dispiace. Credo che mi confonda con qualcun altro." -
Poteva vedere negli occhi del bambino, rivolti interrogativi verso il padre, l'ammirazione e la stima che si sgretolavano. Suo papà non era più un eroe, un modello. Era solo un uomo meschino. Lo stesso uomo meschino che vent'anni prima prendeva in giro un compagno di classe timido e imbranato, troppo diverso per integrarsi nella normalità.


PICCOLE STORIE

Una giornata come tante.Alzarsi, vestirsi, fare colazione.Un uomo come tanti. Non c'era niente di speciale in lui.Giacca e cravatta, borsa in pelle.Uscire di casa, salire in macchina, guidare nel traffico.Come tutti i giorni. Questa volta aveva scelto una nuova cliente da visitare.Arrivato al pianerottolo suonò il campanello. Una giornata come tante.Alzarsi, vestirsi, fare colazione.Una donna come tante. Nubile, disoccupata, viveva da sola. Una storia appena finita che aveva lasciato qualche traccia sul suo viso e nel suo cuore.Oggi aveva voglia di farsi bella. Non le capitava spesso. Anzi. Ultimamente si trascurava un po'.Aveva appena finito di prepararsi quando sentì suonare il campanello.

La porta si aprì davanti a lui. Una giovane donna, sui trent'anni. Si fissarono per un lunghissimo istante.
Chissà cosa sarebbe potuto succedere qualche anno fa, quando lui era meno cinico. Forse avrebbe potuto innamorarsi di questa ragazza, magari sposarla e vivere felice con lei. È proprio strana, la vita. Ottieni le cose che desideravi follemente solo quando ormai non ti servono più.
Sì, è proprio strana la vita, pensò l'uomo pulendo con un fazzoletto il coltello insanguinato.



IL VOLO
(Punti di vista)

In piedi, sul cornicione di un grattacielo, stava per spiccare il volo. Tutta la vita aveva sognato questo momento, e ora finalmente avrebbe volato.
Si gettò felice nel vuoto, librandosi nell'aria.
Passarono pochi secondi prima che si sfracellasse al suolo con un tonfo lugubre. Molti si chiesero perché un ragazzo giovane e senza problemi si fosse suicidato. Non sapevano che si era ucciso molto tempo prima di gettarsi nel vuoto. Si era suicidato alzandosi ogni mattina per andare in ufficio, con le umiliazioni che aveva dovuto subire per trovare un lavoro e per conservarlo, quando aveva supplicato una ragazza di non lasciarlo, quando aveva rinunciato a tutti i suoi sogni.
Gettandosi nel vuoto aveva vissuto, come mai prima di allora. Un istante che valeva una vita intera. Un solo istante, ma aveva vissuto.


MUTAZIONI

Era ancora un ragazzo quando vide quelle orrende escrescenze che spuntavano dalle sue braccia.
Cercò di nascondere la sua deformità finché poté. Quando i vestiti non bastarono più a celare ciò che gli stava accadendo dovette esporsi alla curiosità e allo scherno della gente.
Successe al college. Nel campo di football. Prima di un allenamento. Lui era al centro del terreno, e intorno i suoi compagni, che ridevano con un po' di orrore della sua deformità. Lo chiamavano Batman, per la forma che avevano assunto quelle che un tempo erano le sue braccia. Poi lui iniziò ad agitarle, piangendo. E ad alzarsi da terra.
Fu il primo a stupirsi. Mai avrebbe pensato che quelle mostruosità avrebbero potuto farlo volare.
E da lassù vide tutto con occhi diversi. E fu felice di possederle, e di poter volare, anche se questo lo rendeva diverso da tutti gli altri, anche se non aveva vissuto una vita normale e non avrebbe mai potuto farlo.
E i suoi compagni di scuola, sul campo da gioco, lo guardavano. Nei loro occhi non c'erano più ribrezzo o scherno. Solo una grande ammirazione per quel ragazzo che era riuscito a solcare il cielo.


SCHEGGE

Raccogli i pezzi sparsi nella stanza.
Li riconosci, uno ad uno.
Ecco quello che avevi perso quando era morto un tuo amico.
E questo è quello di quando quella ragazza ti aveva lasciato. Come si chiamava...?
Oh, eccoli. Tutti quelli dei tuoi sogni, delle tue speranze. Ridotti in frantumi.
Centinaia di piccoli frammenti.
Finalmente sono tutti di nuovo insieme, incollati, ricomposti. Dovrei averlo aggiustato. Ma perché allora non funziona più?
Perché questa piccola cosa non batte più?


UN PICCOLO DUBBIO

La sua fede incrollabile lo aveva sostenuto per tutta la vita. Aveva superato i tanti momenti difficili grazie al conforto della preghiera, convinto che Dio lo stesse mettendo alla prova e che sarebbe stato ricompensato.
Allo stesso modo tollerava le ingiustizie terrene, certo della Giustizia divina, pur senza riuscire a capirne i disegni.
Perfino in punto di morte era sereno. Sapeva che avrebbe lasciato la vita terrena, ma la fede lo sosteneva fino all'ultimo.
Chiuse gli occhi per un attimo.
Nero. Buio. FINE. NULLA
Li riaprì. Le sue pupille vagavano smarrite. Il suo volto era in preda al terrore. Qualcosa si era insinuato nella sua mente.
Un piccolo dubbio.


PENSIERI PERICOLOSI

Non era la prima volta che era in coda sul viadotto, alla guida della sua auto. A quell'ora, quando usciva dall'ufficio per tornare a casa, il traffico era sempre caotico.
Ma quel giorno la fila non si muoveva. Oltretutto si era dimenticato di fare aggiustare la radio.
Era nervoso. Non sapeva come ingannare il tempo. O forse era il tempo che stava ingannando lui.
Pensò a quante volte aveva fatto quella strada, e si mise a contarle. Cinque volte alla settimana per ventisette anni... più una moglie, due figli, una casa, una macchina, le cene con gli amici, la Tv...
Dissero che era impazzito. Parlarono di un colpo di sole. Del resto era l'unico modo per spiegare il comportamento di un uomo che, uscendo dalla propria auto, si mette a gridare "ZERO, ZERO, ZERO..." e si butta dal cavalcavia trovando la morte sull'asfalto sottostante.
Come potevano sapere? Come avrebbero potuto intuire il motivo per cui lo aveva fatto? Chi avrebbe immaginato che si era gettato nel vuoto per colpa di un'operazione matematica? Chi avrebbe mai potuto sapere il risultato di cinque volte alla settimana per ventisette anni... più una moglie, due figli, una casa, una macchina, le cene con gli amici, la Tv... ?


INCAUTO ACQUISTO

Si trovava al centro di ibernazione "H.A.L.O.", rinchiuso in una stanza e controllato a vista da due infermieri.
Domani avrebbe cessato di esistere. Domani. Non si sarebbe detto vedendolo seduto sulla poltrona, sorridente.
Solo stamattina aveva firmato il contratto con cui vendeva la sua vita. Il cervello di un altro uomo, ibernato da 80 anni, l'indomani sarebbe stato trasferito nel suo corpo.
Eppure non poteva fare a meno di sorridere ripensando al colloquio con cui erano stati definiti tutti i dettagli dell'operazione.
L'impiegato del centro medico, dopo aver accreditato la somma pattuita sul conto della moglie, gli aveva comunicato che il suo corpo era stato assegnato a Sir Blackmail, fondatore della multinazionale che lo aveva licenziato cinque anni prima.
Ecco perché non poteva fare a meno di sorridere. Non certo perché sua moglie e suo figlio avrebbero finalmente avuto una vita serena grazie alla "transazione". No. Non c'era molto da ridere nel fatto che si potesse comprare anche l'immortalità. Anzi. Significava che con il denaro ormai si poteva evitare anche la morte, un tempo uguale per tutti, poveri e ricchi.
No. Sorrideva pensando a quella nuova forma virale di meningite. Era chiamata BK. Distruggeva le cellule cerebrali. Sistematicamente. Non dava scampo. Non esisteva alcuna cura. Un vero e proprio killer. Per questo sorrideva, pensando al contenuto della siringa che si era iniettato la sera prima.


IL MONDO DI BOB

Bob sapeva che tutto era possibile, bastava volerlo. E lui aveva sempre voluto essere speciale, diverso da tutti gli altri. Appena si era reso conto di come vivessero i suoi genitori aveva deciso che la sua vita sarebbe stata diversa. Grazie alla sua forza di volontà divenne un grande scrittore, conosciuto in tutto il mondo. I suoi libri venivano tradotti in sette lingue, e tutti erano ai suoi piedi, come aveva sempre voluto. Era quasi un dio. Aveva donne bellissime, tutte le ragazze cadevano ai suoi piedi. Riuscì a cambiare il mondo: gli uomini più potenti del pianeta furono illuminati dalle sue idee, i principi dell'economia vennero stravolti, i governi caddero a ripetizione. Tutti vivevano felici nel mondo ormai governato da Bob, un mondo finalmente giusto. Solo i cattivi vennero sacrificati, resi schiavi o uccisi. Stava dando disposizioni per la costruzione della prima colonia terrestre sulla Luna quando accadde.
Fu come un'esplosione.
Ma erano solo parole che raggiungevano la sua mente.
Due sole frasi rimbombavano nella sua testa.
- "Suo figlio è autistico, signora" -



IL LUNGO VIAGGIO

Ricevette il libro per posta, in un pacco. C'era anche una busta. La aprì e lesse la lettera.
"Ho viaggiato per migliaia di chilometri, percorrendo terre desolate e mondi lontani, sempre in cerca di qualcosa per cui valesse la pena vivere.
Cercavo il senso della vita, lo scopo di questa esistenza apparentemente assurda.
Ormai sono arrivato alla fine del mio cammino, e lascio a te questo diario dove ho annotato tutto ciò che ho scoperto in questi lunghi anni.
Spero che farai tesoro di quanto apprenderai dalla lettura di questo volume."
Prese in mano il diario.
Lo aprì, poi lo sfogliò, una pagina dopo l'altra, sempre più ansioso.
Ma non riuscì a trovare altro che fogli bianchi.



L'UOMO DEI SOGNI

Arrivò sulla collina con il suo sacco in spalla. Diede uno sguardo in direzione della città che si stendeva sotto di lui, quindi posò il sacco ai suoi piedi. Lo aprì e qualcosa, da lontano, rispose al suo gesto. Sembrava una musica, un dolce suono che si avvicinava sempre di più. Arrivarono tutti quasi subito. Un'istintiva allegria contagiò l'uomo vestito di nero che reggeva il sacco aperto. Li poteva riconoscere tutti, uno ad uno, dai più piccoli ai più grandi. C'era un poliziotto che avrebbe voluto difendere la gente dai criminali, una donna bellissima e ammirata da tutti, un poeta che avrebbe cantato la sua infelicità, un attore che avrebbe vinto l'Oscar, uno scrittore celebrato.
Quando anche l'ultimo raggiunse i suoi simili all'interno del sacco, l'uomo lo richiuse e se lo rimise in spalla.
Poco più in là qualcosa di strano era accaduto nel paese sovrastato dalla collina. Alzarsi al mattino era sempre più difficile, la schiavitù del lavoro sempre più insopportabile, gli amici sempre più noiosi, la moglie un'abitudine sempre meno piacevole, il marito un dovere che era sempre più difficile sopportare.
Intanto, un uomo vagava con in spalla il suo sacco, reso sempre più leggero dalle nuove presenze.


L'UCCISORE DI SOGNI

Quell'uomo vestito di nero aveva catturato i sogni di intere città, depredando le menti di migliaia di persone. Adesso lo stava seguendo, per scoprire cosa poteva farsene di tanti sogni. Arrivarono ai piedi di un monte, dove il bosco si diradava per cedere il passo alle rocce. E improvvisamente la montagna si squarciò dinanzi all'uomo vestito di nero, facendo venire alla luce un castello. Riuscì a infilarsi anche lui nell'apertura, prima che la montagna si richiudesse con un sinistro boato. Seguì titubante l'uomo oltre il grande portone di legno massiccio. All'interno del maniero le stanze sembravano uscite da una favola: alte, fredde, enormi, lugubri. Non gli fu difficile seguire le tracce dello sconosciuto. Dopo aver attraversato innumerevoli stanze vide lo straniero al cospetto di colui che doveva essere il padrone del castello. Il ladro di sogni aprì il sacco davanti al suo interlocutore. Questi, sublimato alla vista del contenuto, disse qualcosa all'uomo vestito di nero, il quale svuotò il sacco. L'altro gli porse un sacchetto, non molto grande, ma che doveva contenere qualcosa di enorme valore. Lo straniero, soddisfatto dello scambio, si voltò per uscire dal castello. Lui fece la stessa cosa, sperando di ritrovare l'uscita. Fu fortunato: riuscì a precedere il ladro di sogni e si appostò all'esterno. Quando anche l'altro si trovò al di fuori del castello la montagna si richiuse.
"Perché hai rubato i nostri sogni?"
"Dovresti saperlo. Erano sogni morti, ora rivivranno. Erano come animali in gabbia. Nelle vostre gabbie. Io li ho liberati. Sogni infranti. Feriti a morte, lacerati. Uccisi tra mille torture."
"Chi ha potuto fare una cosa del genere?"
"La quotidianità, la banalità, la normalità. La società uccide i sogni. Uccidono i sogni quando ti costringono a cercare un lavoro, quando non riconoscono l'arte o il genio, quando apprezzano solo ciò che rende o che produce cose materiali. Noi non possiamo fare altro che raccogliere le vittime straziate, rimettendo insieme i brandelli di ciò che resta di tutti questi nobili sogni. E sperare che un giorno, da qualche parte, possano tornare a vivere."
Non aveva avuto bisogno di chiedergli altro. Sapeva già cosa c'era in quel sacchetto: centinaia di altri sogni, di deboli speranze, di piccoli germogli che si sarebbero tramutati quasi tutti in piante avvizzite. Ma questo era il destino dei sogni. Di quasi tutti i sogni.



LO SPAZZACAMINO

Inghilterra. XVIII secolo.
Una bambina è affacciata alla finestra della sua camera. Il paesaggio è ricoperto di neve, caduta abbondantemente per tutta la notte. Tutto fuori è bianco, tranne un puntino nero che si avvicina. E' un ragazzo, tutto vestito di nero che si dirige verso il paese avanzando a fatica nella neve.
- "Vieni via di lì" - Una mano afferra la bambina allontanandola dalla finestra bruscamente - "Quante volte te lo devo dire? Vuoi che l'uomo nero ti porti via?" -
Quell'uomo vestito di nero era uno spazzacamino. Viveva in una piccola casa di legno a circa un chilometro dal villaggio. Non ha potuto scegliere nella vita: suo padre era una spazzacamino, e lui, rimasto orfano a diciassette anni, aveva ricevuto in eredità il mestiere del padre riuscendo a malapena a sopravvivere con quello che gli abitanti del paese gli offrivano in cambio del suo lavoro. Non sarebbe stato un brutto ragazzo, tutt'altro. Ma nessuno guardava oltre quel vestito logoro e al di sotto del cappello; per tutti era solo lo spazzacamino. Adesso si sta recando al paese per lavoro, e non ne è certo entusiasta; è sempre stato un solitario e il contatto con la gente gli fa un po' paura.
Terminato il lavoro si incammina, come tutte le sere, verso la sua piccola casa. E' quasi arrivato a destinazione quando sente lo scalpiccio di un cavallo. Si volta in direzione del rumore: uno splendido destriero al galoppo si sta dirigendo verso di lui; è imbizzarrito, e sulla groppa porta una persona distesa, forse svenuta. Lo spazzacamino cerca di fermare il cavallo, ma riesce solo a rallentarne la corsa e a far cadere il cavaliere. Quindi solleva da terra la persona caduta e la porta in spalla fina a casa sua. Qui la stende sul suo pagliericcio, e, togliendole il copricapo, si accorge che è una donna. E' molto bella: la pelle bianchissima, come il latte e i capelli biondi che le incorniciano il viso dai lineamenti delicati. Non ha mai visto una ragazza così. Non è solo svenuta, ha anche una freccia conficcata in un braccio. Cerca di curarla come può, assistendola tutta la notte, finché, a mattina inoltrata, lei si risveglia. Inizialmente è spaventata, poi si rassicura e gli racconta la sua storia. E' la figlia del re della regione vicina, il quale è stato detronizzato dal fratellastro. Lei era riuscita a scappare per cercare di raggiungere un sovrano amico di suo padre e chiedergli aiuto, ma, inseguita dagli uomini dell'usurpatore, era stata ferita da loro prima di riuscire a seminarli. Ora deve arrivare a destinazione al più presto, prima che suo padre venga ucciso. Lo spazzacamino le dice di non muoversi: penserà lui ad aiutarla. Si dirige in paese la notte stessa, e, dalle stalle di un ricco fattore ruba il destriero più veloce. Ma il figlio del fattore lo vede e si getta al suo inseguimento. Giunto a casa, lo spazzacamino dà il cavallo alla ragazza, che, ormai guarita, in segno di gratitudine, gli regala il suo anello. La ragazza è appena partita quando arriva il fattore. Lo spazzacamino cerca di scappare, ma l'altro, sguainata la spada, lo trafigge; poi, cercato inutilmente il cavallo, dà fuoco alla casa. Quindi si dirige verso il corpo dello spazzacamino, e, vedendo qualcosa che luccica, si china: è l'anello della principessa. Il fattore cerca di toglierlo dalla mano dell'uomo riverso a terra, ma l'anello è stretto; allora, spazientito, il fattore estrae il coltello e taglia il dito dello spazzacamino.
Passano alcuni mesi. Il padre della principessa ha riconquistato il suo trono, e ora, in tutto il regno, un banditore legge un regio avviso: chi riporterà il suo anello alla principessa avrà diritto di divenire suo sposo. Il fattore, venuto a conoscenza del bando, si presenta al castello. La principessa, seppure a malincuore, perché convinta che si sarebbe presentato lo spazzacamino, deve acconsentire alle nozze, non potendo smascherare l'impostore in quanto aveva taciuto al padre parte della sua avventura, e ben sapendo, oltretutto, che la parola di un re non si può ritrattare.
E' il giorno delle nozze: da tutto il regno i sudditi, festanti, portano doni per i futuri regnanti. Tra gli altri c'è anche un frate, con il cappuccio dell'abito che gli copre il volto. Quando arriva il suo turno, il frate porge il suo regalo allo sposo. E' una piccola scatola di legno. Il fattore la apre, e, vistone il contenuto, la lascia cadere inorridito. Dalla scatola esce un dito. Il frate si toglie il cappuccio: è lo spazzacamino, che, la notte in cui era stato ferito, dopo aver ripreso i sensi, era riuscito a trascinarsi fino a un convento di frati, i quali lo avevano curato. Sentita la storia dello spazzacamino, il re ordinò che il fattore fosse messo a morte, e il matrimonio si celebrò il giorno stesso, cambiando solo lo sposo.
Tempo dopo, lo spazzacamino fa ritorno al suo paese natale, che non vedeva ormai da molto tempo. Al passaggio del principe, su un cavallo bardato e tutto vestito di bianco, gli abitanti del villaggio si prostrano al suo passaggio. Solo una bambina l'ha riconosciuto, e, in piedi, saluta il suo vecchio spazzacamino. Ma la mano della madre la afferra, e, con uno strattone, cerca di farla stare in ginocchio come tutti. Allora il principe prende la bambina e la porta sul suo cavallo bianco.


UNA CITTÀ TROPPO PICCOLA

Guidando verso la casa del dottor Lyle pensava che l'avrebbe sicuramente preso per pazzo. E forse lo era davvero. Ma lui lo aveva visto. Il commesso viaggiatore appena arrivato in paese era un vampiro. Lo aveva visto uccidere una ragazza sotto i suoi occhi, succhiandole il sangue dal collo. Per fortuna il dottor Lyle era un uomo di larghe vedute, e, benché scettico, decise di andare con lui portando con sé un grosso paletto di legno e un martello. Stava per sorgere il sole quando arrivarono alla casa dove alloggiava lo straniero. Lo trovarono in cantina, nella più completa oscurità, all'interno di una bara. Non si accorse di nulla, si risvegliò per un istante solo quando il dottore conficcò il paletto nel suo cuore, ma era troppo tardi. La carne del vampiro si dissolse lasciando nella bara un putrescente cumulo di cenere.
-"E' una fortuna che mi abbia creduto, dottore. Pensavo che mi avrebbe preso per pazzo, stavo quasi per crederci anch'io e per tornare a casa senza passare da lei."-
-"Invece hai fatto bene a rivolgerti a me"- disse il dottor Lyle mentre i suoi canini scintillavano alla fioca luce delle candele prima di affondare nella gola dell'amico.
-"Vedi, questa città è troppo piccola per due vampiri."-


UN ALTRO BICCHIERE

Stava tornando a casa. Ma stavolta, a differenza del solito, era contento.
Stasera l'avrebbe finalmente uccisa.
Sua moglie, la donna che gli rendeva la vita invivibile da anni. Il piano era perfetto: avrebbe dovuto essere in un albergo a duecento chilometri da casa sua, per un convegno. Era andato in treno, aveva i biglietti di andata e ritorno, ed era effettivamente andato al convegno. Ma il giorno prima aveva noleggiato un'auto, che aveva provveduto a lasciare nella città dove si svolgeva il congresso e che gli sarebbe servita per tornare a casa. Era sgattaiolato dall'albergo dopo l'una di notte, senza farsi vedere da nessuno. Il portiere dell'hotel avrebbe giurato che era rimasto tutta notte nella sua stanza. Per precauzione aveva chiesto di non essere disturbato, e aveva lasciato staccato il ricevitore del telefono della sua stanza.
Erano le tre e mezza quando arrivò a casa. Accostò l'auto. In strada non c'era anima viva. Diede un'occhiata alle finestre delle case. Tutte buie. Perfetto. Scese dall'auto e percorse i pochi metri che lo separavano dalla libertà. Si sarebbe goduto i soldi della moglie, sarebbe stato libero di uscire con gli amici e di bere. Solo a pensarci gli veniva l'acquolina in bocca. "Lei" gli aveva proibito di bere più di un bicchiere di whisky al giorno. Quando voleva bere doveva farlo di nascosto. Adesso tutto sarebbe finito. Entrò dall'ingresso di servizio.
Alle quattro l'aveva già uccisa. Prima di andarsene avrebbe rotto una finestra dall'esterno, per simulare l'effrazione di un ladro. Ma adesso aveva sete. Si sentiva la gola ardere. Prese la bottiglia di whisky e si versò un bicchiere finalmente abbondante. Mentre sorseggiava il liquore non poteva fare a meno di pensare con soddisfazione alla faccia della moglie quando lo aveva visto. Gli aveva chiesto come mai fosse già a casa, poi lui aveva sparato.
Era strano, però. Sembrava quasi contenta che fosse tornato un giorno prima, pensò finendo il suo whisky mentre un dolore lancinante lo piegava in due.

 

LETTERA DALL'INFERNO

Una pagina bianca. Questa era la mia vita. Normalità e banalità che non vale la pena di raccontare.
Tutto nella norma. Gioie, dolori, anonimato, la noia. Le cose peggiori.
Ho iniziato quasi per gioco, per sfidare il mondo.
La mia esistenza incolore si è tinta di rosso, il colore del sangue. Ho scoperto il piacere del dominio, mi sentivo un dio quando decretavo la morte di una mia vittima. Avrei voluto colpire i criminali, le persone perbene con un lavoro onesto. I ricchi. E in un certo senso l'ho fatto. Anche se ho dovuto uccidere sfortunate e innocenti vittime della vita, che la società aveva già ucciso in modo ben più brutale. La mia è stata una forma di eutanasia. Ho riscattato la mia esistenza. Non sono certo peggio di voi, che vi scannate per pochi spiccioli, che uccidete con uno sfratto, o con uno sguardo, o con una parola, o negando un lavoro. Siete molto più spietati di me. Io non avrei mai avuto il coraggio di fare certe cose. Ho ancora una coscienza, IO.
Con disgusto, Jack.


INVISIBLES

Sogni infranti contro
Quotidiane miserie
Pensieri e idee
Urlati nel vuoto indifferente e sprezzante
Rutilante di luci che illuminano il nulla
Di pagliacci travestiti da santoni

Piccoli uomini chiudono le anguste gabbie
Tombe di aquile reali e albatros dalle grandi ali
Che non potranno mai spiccare il volo
Avvolte per sempre nel loro
Nobile sudario



VUOTI A PERDERE

Esausta

Percorre incessante una gioventù

Solo sognata

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Poetry is a state of mind

Frustrazioni creative

Immacolati fogli di vita

Percorsi da vane speranze

Torbide mani afferrano rapaci

Solo l'eco risponde al grido del giusto

Pianto
Dolore
Rabbia

Crescono nell'indifferenza

Risuonano nell'aria
Fragorose vuote risate
E niente altro

Lenta scorre la vita

Di volti sorridenti

Che mi circondano

Di bocche che mi parlano

Senza dire niente

Dietro avide fauci voraci

Vedo solo il


N u l l a



UNA FINE

Pareti di ghiaccio
Erette dal tempo di un'abitudine consunta
Lasciano intravedere
L'Amore corroso

Dolce profumo di ricordi
Si scioglie nel cuore
Sanguinante
Stillano piccole gocce
Amare


L'ULTIMA OPERA

Era un artista. Il che non significa che producesse opere d'arte.
Si può essere artisti senza farlo di mestiere. L'arte è idea, pensiero, sensibilità, immaginazione, intelligenza, non certo "mestiere".
Aveva sempre cercato strade nuove.
Bucando le tele, in cerca di spazio per la sua arte.
Lasciando la pittura per creare forme espressive sempre più rivoluzionarie.
Sperimentando ogni possibile innovazione.
Ma i suoi tentativi risultavano vani.
Confondendo l'opera con l'artista si limitava alla ricerca di una pura forma priva di sostanza.
Si può essere artisti anche senza creare, ma l'opera d'arte deve avere vita propria, non può essere solo provocazione, né forma senza contenuto, e nemmeno contenuto senza forma.
Infine, un giorno, capì quale sarebbe stata l'opera d'arte definitiva, oltre la quale c'era solo il nulla. Il massimo che qualunque artista possa sperare di raggiungere, il suo testamento artistico. Dopo quello che aveva in mente nessun tipo di arte tradizionale avrebbe avuto senso.
Per quella che sarebbe stata l'ultima opera della sua vita scelse una tela enorme, grande quasi quanto una parete.
In basso attaccò una targhetta dorata, su cui era inciso il titolo: "L'artista". Quindi firmò la tela.
Poi impugnò la pistola e si sparò in bocca, avendo cura che ciò che usciva dalla sua testa si trasferisse solo sulla tela, senza disperdersi. Altrimenti sarebbe stato un bel guaio, perché la sua ultima opera era sicuramente irripetibile.

 

 

 
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