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Leandro Papi

nasce il 5 marzo 1937 a Poggio San Costanzo, territorio collinare del comune di San Ginesio, in provincia di Macerata.
Nel 1959 si diploma nell'Istituto Magistrale del comune di residenza.
Costretto, come tanti giovani, a cercare lavoro lontano da casa, nel 1961 si trasferisce a Varese, dove viene assunto come educatore nel "Villaggio Cagnola" di Rasa, istituto che accoglie ragazzi con diversi problemi familiari.
Nel 1962 vince il concorso magistrale sempre a Varese e dall'anno successivo inizia ad insegnare nelle scuole elementari della stessa provincia.
Nel 1967 pubblica tre romanzetti per ragazzi con l'Editore Raiteri di Milano: La storia del gattino nero, Il merlo senza coda e Cento anni per Sergio.
Un anno dopo con l'Editore Menna di Varese pubblica ancora, sempre per ragazzi: Una gatta e un gattino attraversano l'Appennino.
Tra il 1974 e il 1978 collabora con il quotidiano La Prealpina di Varese in qualità di corrispondente locale di Cantello, paese vicino al confine svizzero, dove insegna e risiede.
Dopo circa trent'anni di impegno con la scuola, va in pensione e con il pensionamento ha più tempo da dedicare alla sua passione di scrittore.
Nell'agosto del 1996 pubblica con l'Editore Livi di Fermo (AP): Vita contadina, storia, tradizioni e abitudini della sua terra di origine.
Nell'estate del 1998 con lo stesso autore pubblica: Fàmmete dì (Fammiti dire), una raccolta di racconti, poesie e scenette comiche in dialetto maceratese.
Nell'estate del 2001 esce: La gente di Poggio. È un libro in due parti: storie e leggende della sua terra nella prima, la storia di ogni famiglia nell'evoluzione da vita contadina ad altre scelte lavorative, nella seconda.
Ancora nel novembre del 2002, pubblica con Ghisetti e Corvi Editori di Milano: Il regno di Henry, un romanzetto per gli alunni delle scuole medie.
Infine nel luglio del 2004, esce, per conto dell'Editore Michele Di Salvo di Napoli: Ho dimenticato il pigiama, romanzetto per adulti.



Peppino
contadinello gentile e risoluto



Indice

L'asino sotto il carretto pag. 5
Il terribile orco gigante " 7
La donna cannone " 12
La casa dei fantasmi " 15
Uno spettacolo di comiche " 18
Modelli di comportamento " 22
La strada per la città " 26
Un uomo disperato " 28
La città degli sconosciuti " 31
La città degli affamati " 34
La paura di invecchiare " 38
Giovani senza futuro " 42
Il carcere dei bambini " 45
Le sorprese della notte " 48
Le mattine dei marescialli " 51
Addio alla città " 54
Il vecchio Fausto in campagna " 57
Periodo di visite " 59
Una piacevole sorpresa " 64
Un dolce sentimento " 68
Non può sposare un contadino " 72

L'asino sotto il carretto

Peppino era un ragazzo di campagna. Una campagna lassù sotto i monti, dove i grandi spazi silenziosi che mutano colore ad ogni stagione, aiutano a cercarsi dentro e a trovarvi le risposte migliori.
Non gli erano ancora spuntati i peli della barba, ma già s'era messo in testa che niente può fare paura, se uno la paura non ce l'ha dentro. S'era messo in testa che non esistono difficoltà insuperabili, se uno non ha paura di affron-tarle. A forza di pensare s'era dimenticato perfino di crescere, perché era rimasto piccoletto e mingherlino, però con i pensieri più grossi di lui, decise di girare il mondo per dimostrare che aveva ragione.
Così una mattina di mezza primavera, dopo aver salutato quelli di casa, mol-to preoccupati per lui, perché in un mondo così grande si poteva perdere, partì senza niente, con le mani in tasca, fischiettando per conto suo.
Cammina che ti cammina, ad un certo punto cominciò ad avere fame, anche perché era arrivato mezzogiorno, annunciato dal suono delle campane di tut-te le chiese nei paesi intorno. Allora s'avvicinò ad una casa di contadini.
- Dareste da mangiare ad un povero ragazzo affamato? - domandò al primo che vide.
- Se non te ne vai, ti do una bastonata in testa, altro che mangiare - rispose quello.
Nell'aia c'era un gruppo di persone che trafficava attorno ad un asino diste-so per terra sotto le stanghe del carretto carico di sacchi. Chi lo incitava ad alzarsi, chi gli dava pacche sul sedere, chi tentava di sollevarlo per la pan-cia. Le donne lo tiravano su per la coda, i bambini per le orecchie. Ma l'asino se ne stava giù allungato tranquillamente, come se niente fosse.
- Che cosa è successo? - chiese Peppino.
- Dobbiamo andare a macinare il grano, ma questo somaro ha visto che il carro era troppo pesante e s'è messo a dormire - spiegò qualcuno.
Peppino ci pensò un attimo, poi disse:
- Se mi date da mangiare, vi faccio alzare l'asino.
- Tu ci fai alzare l'asino! - rispose uno di quelli. - Guarda un po' la! Le ve-di? Anche le galline si sono messe a ridere per quello che hai detto.
- Dico sul serio - insistette Peppino. - Se voi mi date da mangiare, io vi fac-cio alzare l'asino.
- Che cosa vuoi alzare tu? - intervenne il nonno. - Pretendi di alzare l'asino e non hai neanche la forza per portare a spasso te stesso.
- Sei sottile come uno stuzzicadenti e se tira un po' di vento, ti porta via e non riesci più a ritrovarti - aggiunse un altro.
- Se mi date da mangiare, vi faccio alzare l'asino - ripeté Peppino per la ter-za volta.
Tutti capirono che c'era da divertirsi.
- Se ci riesci, ti do la mia parte di pollastro - disse uno ridendo.
- Se ci riesci, ti do la mia pastasciutta - disse un altro, ridendo anche lui.
- Se ci riesci, ti do la mia bottiglia di vino - disse il nonno con una risata sotto i baffi.
Insomma, tutti, ridendo a più non posso, promisero parte del loro pranzo a Peppino, se fosse riuscito a far alzare l'asino.
- Parola? - chiese Peppino seriamente.
- Parola d'onore! - risposero tutti, ridendo più che mai.
- Qui vicino c'è qualcuno che ha una somara? - domandò Peppino.
- Non vale! - disse subito il nonno. - Tu vorresti farmi trascinare l'asino dalla somara, così mi si spella tutta la pancia. Non vale!
- Chi vi ha detto che voglio trascinare l'asino? Portatemi la somara e non vi preoccupate.
Gliela portarono. Peppino prese l'asina per la cavezza e cominciò a passeg-giare come se niente fosse intorno all'asino. L'asino dapprima rimase indif-ferente, ma appena si accorse di quella somarella grigia che gli ancheggiava davanti agli occhi, si diede uno strattone sulle quattro zampe. Saltò su così di scatto, che fece rovesciare tutti i sacchi di grano sul carretto e mandò a gambe all'aria le donne che ancora lo tenevano per la coda.
- Hai visto nonno? - stavolta era Peppino che rideva. - Tu che cosa avresti fatto se avessi visto una bella ragazza? L'asino ha fatto lo stesso.
Tutti si sbellicavano dalle risate. Il nonno ridacchiava sotto i baffi al pensie-ro che, se avesse visto una bella ragazza, avrebbe fatto lo stesso. L'unica che non rideva era la nonna, che s'era appena rialzata dalla capriola. Guar-dava tutta seria suo marito, pensando a quello che avrebbe fatto, se avesse visto una bella ragazza.
Quel giorno Peppino mangiò da scoppiare come non era mai successo in vi-ta sua. Si fece fuori due piatti di pastasciutta, poi mezzo pollo, ma il colpo di grazia lo ricevette dalla bottiglia di vino promessa dal nonno. Prima disse un mucchio di stupidate, poi cominciò a fare lo scemo, infine crollò come un sacco di patate e si fece tutta una tirata fino al mattino dopo.


Il terribile orco gigante



Il sole s'alzò dietro le colline, infilandosi in mille raggi d'oro attraverso i rami delle querce. Peppino, a sentirsi punzecchiare gli occhi dai raggi del sole, cominciò a smaniare, a rigirarsi, poi finì per svegliarsi del tutto e saltò giù dal letto. Andò al pozzo, si rovesciò sulla testa un secchio d'acqua fresca per ritrovare tutte le sue idee e partì, salutato e ringraziato dai contadini.
Collina dopo collina, camminava già da qualche ora per quella lunga strada del mondo, quando vide giù in fondo alla valle un bosco così esteso che sembrava una foresta e nel campo vicino alla strada una vecchia che pasco-lava le pecore. Vecchia sembrava a lui, anche se in realtà era una donna sul-la cinquantina.
- Buongiorno! - le disse con gentilezza, dandole la mano. - Io mi chiamo Peppino.
- Buongiorno, Peppino! - gli rispose lei con altrettanta gentilezza. - Io mi chiamo Costanza.
- Costanza, mi puoi dire, per favore, dove porta questa strada?
- Questa strada porta molto lontano. Dove stai andando di bello?
- Vado! Cammino! Ho deciso di girare il mondo.
- Gira il mondo finché vuoi, ma sta alla larga da quel bosco che vedi laggiù.
- Perché, c'è il lupo? - chiese Peppino incuriosito.
- Peggio, ragazzo mio. Peggio!
- C'è un leone?
- Peggio, molto peggio, ragazzo mio!
- Ci sono due leoni?
- Peggio ancora!
- E allora ce ne saranno tre! - concluse Peppino che non sapeva cos'altro pensare.
- No, ragazzo mio! In quel bosco laggiù vive un terribile orco gigante che sparge il terrore nei dintorni.
- Tutto qui? Io credevo chissà che cosa! - si meravigliò Peppino.
- Come, tutto qui? - piagnucolò sbalordita la donna. - Non lo sai che da quando quel terribile orco gigante vive giù in quel bosco, la gente non esce più di notte e i bambini hanno paura a dormire da soli?
- Esagerati! Ha ammazzato molta gente quest'orco gigante?
- Che io sappia, non ha ammazzato mai nessuno, almeno da queste parti. Però fa sparire la nostra roba senza che nessuno se ne accorga. Pensa! Ho quattro pecore, vedi?
- Certo che le vedo! Fino a quattro riesco a contare.
- Ebbene ragazzo mio, io fino a due settimane fa ne avevo cinque. Ero gira-ta di qua. Ad un certo punto mi rigiro in giù e le pecore erano quattro.
- Sarà fuggita - spiegò Peppino. - Sarà andata a mangiare nel campo di qualcuno.
- No, ragazzo mio! È stato lui che me l'ha fatta sparire. Come fa sparire maiali vivi e maiali appena uccisi, come fa sparire agnelli e capretti, salami e prosciutti dalle case dei contadini e nessuno riesce mai a vederlo, nessuno riesce mai a sorprenderlo.
- E tu, Costanza, l'hai visto qualche volta?
- Mai! Il cielo me ne scampi e liberi. Morirei di paura.
- Allora come fai a dire che è un terribile orco gigante, se non l'hai mai vi-sto?
- È lui che lo ha detto. Tempo fa alcuni uomini tentarono di affrontarlo in mezzo al bosco. Lui però, sradicando alberi e sollevando macigni per get-tarli contro i suoi assalitori, gridò: "Io sono il terribile orco gigante! Non vi azzardate ad avvicinarvi perché, se mi capitate tra le mani, vi riduco tutti in polpette e vi mangio con le patate".
- E neanche allora nessuno lo vide.
- Neanche allora.
Peppino, come al solito, ci pensò un po' e fece le sue considerazioni, quindi aggiunse:
- Ho capito tutto, Costanza! Ho capito tutto. Senti, se oggi mi offri il pran-zo, questa sera ti riporto la pecora.
- Tu sei impazzito, ragazzo mio! Avresti il coraggio di affrontare da solo il terribile orco gigante?
- Ti ripeto, se mi offri il pranzo, questa sera ti riporto la pecora.
- Io il pranzo te lo offro volentieri, anche perché vivo sola e mi farai com-pagnia, ma ti scongiuro, non affrontare il terribile orco gigante. Ti ridurreb-be in polpette e ti mangerebbe con le patate.
Dalla donna, anziché le polpette con le patate, mangiò un bel piatto di rape con uno zampetto di maiale e mentre cercava di addentare la poca ciccia tra i tanti ossetti, lei si sfogò con lui e gli raccontò in tutti i particolari la storia della sua vita che, detta in poche parole, era questa: viveva sempre sola per-ché il marito le era morto da alcuni anni e i suoi figli erano andati a lavorare all'estero.
Peppino la ascoltava in silenzio, anche perché aveva la bocca impegnata a rosicchiare, ma nell'alzarsi dalla tavola, promise di nuovo:
- Questa sera ti riporto la pecora, però mi devi fare un altro favore.
- Chiedimi tutto quello che vuoi, ragazzo mio.
- Ho bisogno di poco. Mi occorrono due palle di ricotta e un sacchetto per metterle, infine una penna e un foglio di carta.
- Di ricotta ne ho quanta ne vuoi, ma ti scongiuro ancora: non affrontare il terribile orco gigante.
- Non ti preoccupare. Dammi solo quello che ti ho chiesto e questa sera ri-avrai la tua pecora.
Mentre la vecchia in cucina arrotondava le palle di ricotta, facendole girare tra le mani, Peppino tirava fuori dalla mente le sue idee migliori: "Quando mi troverò faccia a faccia con quel ladro di prosciutti, - pensava tra sé - devo dargli ad intendere che sono un duro, che sono più forte di lui". Quindi si mise a scrivere alcune cosette sul foglio di carta, che poi piegò e mise in ta-sca. La donna intanto uscì dalla cucina con le due palle di ricotta dentro un sacchetto di stoffa.
- Cara Costanza, meriti un sacco di grazie! - disse Peppino.- Ti restituisco la penna. Ora non mi serve più.
- Mi raccomando, ragazzo mio, non fare pazzie!
La salutò, lei l'abbracciò come se fosse suo figlio, e partì, leggendo più vol-te quello che aveva scritto sul foglietto, fino ad impararlo a memoria.
Arrivato al limite del bosco, ebbe l'impressione di non sentirsi tutto quel co-raggio che credeva di possedere e le ginocchia cominciarono a tremargli. Allora si disse con energia: "Peppino, ricordati che niente può fare paura, se uno la paura non ce l'ha dentro!" Rincuorato dalle sue stesse parole, s'inoltrò tra i primi alberi, ma del terribile orco neanche l'ombra. Girarava di qua e girava di là, con i rami bassi che gli sbattevano sulla faccia. Ad un certo punto, non riuscendo ad incontrarlo, cominciò a perdere la pazienza e si mise a gridare con quanto fiato aveva:
- Orco! Terribile orco gigante, dove sei? Vieni fuori che ti voglio sfidare!
Gridando a quel modo, camminò parecchio senza risultato, ma all'improvviso un vocione da dietro un cespuglio lo bloccò:
- Fermo lì o sei un uomo morto!
Colto alla sprovvista, Peppino fece un passo indietro, ma si riprese subito.
- Io sono un ragazzo, non sono un uomo - rispose ad alta voce.
Lo stesso vocione continuò:
- E allora fermo lì e alza le mani o sei un ragazzo morto!
Peppino alzò le mani e scrutò verso il cespuglio. Effettivamente gli parve di vedere una canna puntata contro di lui, ma più che una canna di fucile, sem-brava una canna di... canna, cioè la pianta. Infine anche l'orco uscì allo sco-perto. Era, a dire il vero, un uomo alto e robusto, però si capiva benissimo che cercava di sembrare più grosso di quanto non fosse in realtà. Teneva le braccia sollevate in avanti con le dita aperte e arcuate, come se fossero arti-gli, e avanzava dondolandosi verso Peppino, col suo solito vocione:
- Come hai osato entrare nel mio territorio? Te ne farò pentire amaramente! Ora ti ridurrò in tante polpette e ti mangerò a cena con le patate.
Sperava di vederlo fuggire a tutta velocità, invece Peppino, prima che si av-vicinasse troppo, iniziò la sua sceneggiata. Si piazzò sulle esili gambe che, contro la sua volontà, continuavano a tremare e, aiutandosi con i gesti per rendere più impressionanti le sue minacce, prese a declamare con voce forte e sicura quello che aveva scritto e imparato a memoria:

"Il mio nome è Peppino, io sono un duro.
Col mio pugno potente spacco un muro.
Allora con me, troppo non scherzare,
se qualche anno ancora vuoi campare!"

Terminata la prima parte della sua rappresentazione, con l'orco che intanto s'era fermato per ascoltarlo meglio, tirò fuori le due palle di ricotta, se le mise una per mano, con le dita piegate per non farle cadere. Allungò quindi le braccia in avanti e continuò:

"Osserva queste bocce attentamente.
Sono di un marmo molto resistente".

Nel dire così, digrignò i denti, gonfiò i sottili muscoli delle braccia, fece fin-ta di stringere con tutte le sue forze, poi aggiunse:

"Guarda qui ognuna come l'ho ridotta!
Come fossero palle di ricotta".

Infatti gli si erano spappolate tra le dita. L'orco, a tale spettacolo, riprese la posizione di uomo normale e si mise a ridere così forte, tanto che Peppino si dovette trattenere per non ridere anche lui.
- Non fare il furbo con me! - esclamò ancora ridendo. - Credi che non mi sia accorto che sono palle di ricotta?
- E tu non fare il furbo con me - rispose Peppino, succhiandosi tra le dita, prima che cadesse a terra. - Credi che non mi sia accorto che sei soltanto un ladro di galline?
- E bravo, Peppino! Così ti chiami, vero? Vedo che sei un ragazzo corag-gioso e intelligente.
- Tu invece non sei né coraggioso, né intelligente. Approfitti dell'ignoranza dei contadini per spaventarli e derubarli.
- Se ho fame, devo pur rubare qualcosa per mangiare. E per non farmi prendere, sono costretto a spaventare la gente.
- Perché, scusa, non lavori come fanno tutti? - intanto continuava a mordic-chiare la ricotta. Non voleva farla sprecare.
- Credi che qualcuno possa dare lavoro a chi ha la fama di essere un ladro?
Peppino stette un attimo in silenzio e fece le sue solite riflessioni:
- Tu non hai una casa, una moglie, dei figli?
- No! Non ho proprio niente e nessuno.
- Se avessi una casa e una moglie, smetteresti di rubare?
- Certo che smetterei! Ma dove la trovo una casa e una moglie?
- Tu un paio di settimane fa hai rubato una pecora ad una donna. L'hai già mangiata?
- Come ti viene in mente? La tengo là dentro nel recinto con gli altri anima-li. Mi ha fatto due agnellini. Tra poco comincerò a fare il formaggio.
- Molto bene! Allora stammi a sentire. In cambio di quella pecora e degli agnellini, ti offro una moglie e una casa.
- Ma tu stai scherzando!
- Non scherzo affatto.
- E chi sarebbe questa donna? Dove sarebbe questa casa?
- La donna è quella che hai derubato. La casa è la sua.
- Sì, poi mi riconosce e mi denuncia pure.
- Ha detto che non ti ha mai visto.
- Infatti lei non mi ha visto e nessuno mi conosce.
- E allora vai e portale la pecora con gli agnelli. Le dici: "Te li manda Pep-pino!" Poi per il resto ti arrangi da solo. Sei capace, spero, di corteggiare una donna, una vedova sola che ha bisogno di compagnia. O ti devo inse-gnare anche questo?
- No, no! Di donne un po' me ne intendo. Ma per gli altri animali come fac-cio?
- Dopo che sei entrato nelle sue simpatie e che ti ha accolto in casa, spargi in giro la voce, dicendo di aver sentito dire che il terribile orco gigante è sta-to catturato dalle forze dell'ordine, così ogni contadino, senza avere più pau-ra, verrà a riprendersi quello che hai portato via. E ora non fare altri scherzi! Voglio vederti io che vai davvero da lei.
- Dove vuoi che vada, Peppino? Quando mi si ripresenta l'occasione di uscirne senza guai e di trovare per di più una moglie e una casa? Ti ringra-zio fin da ora, comunque.
L'uomo tirò fuori dal recinto la pecora, le legò una cordicella intorno al col-lo e, seguito dagli agnelli che sgambettavano accanto alla madre, si avviò in su.
- Auguri a tutti e due! - gli gridò da lontano Peppino, che lo seguiva con lo sguardo. - Salutami la signora Costanza da parte mia.
- Si chiama Costanza? Te la saluterò volentieri, Peppino. Le dirò che un ra-gazzo coraggioso, intelligente e con un cuore grande così, mi ha dato la pe-cora da riportare a lei, come le aveva promesso.
Peppino, seguì per un po' l'uomo che saliva soddisfatto lungo la collina, poi riprese a camminare per quella lunga strada del mondo che non finiva mai.


La donna cannone

Peppino, cammina che ti cammina, era giunto nelle vicinanze di un paesello. La prima cosa che attirò la sua attenzione fu il suono di una musica allegra. La seconda, gruppi di persone che si dirigevano tutti, felici e a passo svelto, dalla stessa parte.
Non sapendo darsi una spiegazione, la chiese al primo che gli passò accanto:
- Dove correte tutti quanti? Che c'è una festa?
- C'è la donna cannone.
- Che cosa?
Quello aveva fretta.
- Vienimi dietro e lo vedi da te.
Peppino seguì lui e gli altri e alla fine si ritrovò in un prato dove era montato il tendone di un grande circo. Siccome vi entravano tutti, provò anche lui a fare la stessa cosa, ma si trovò davanti un ostacolo. Gli altri pagavano il bi-glietto ed egli non aveva di che pagare. Provò a chiedere all'incaricato:
- Non ho i soldi. Posso entrare lo stesso?
Ma quello gli rispose senza tante storie:
- Se non puoi pagare, stattene alla larga.
Fece due passi indietro, ma la voglia di assistere allo spettacolo era tanta, uno spettacolo che non aveva mai visto, quello della donna cannone.
Rimase un po' incerto, poi si decise. Piccoletto com'era, s'intrufolò tra quel-li più grossi e, in mezzo alla confusione, entrò lo stesso. Si sedette su uno dei pochi sedili rimasti vuoti, gettò lo sguardo verso l'arena e rimase sba-lordito. Al centro c'erano due persone, un uomo e una donna. O che la don-na fosse tanto grande o che l'uomo fosse tanto piccolo, fatto sta che costui le arrivava appena ai fianchi. La donna indossava un paio di stivali fin sotto alle ginocchia e già per la grossezza del piede erano tre volte le scarpe dell'uomo. Dagli stivali ai calzoni corti si ergevano due gambone così mas-sicce che sembravano due colonne. I calzoni poi coprivano un sederone tal-mente enorme, che uno simile non l'aveva mai visto. Di sopra la donnona indossava un giubbetto senza maniche. Se ne stava con le braccia conserte e anche le braccia erano tanto grosse, da sembrare due tronchi d'albero intrec-ciati. Il faccione paffuto dall'espressione sorridente era circondato da una capigliatura bionda, coperta appena da un cappello rosso con visiera.
Appena il pubblico tacque, dopo la prima meraviglia, l'omino, così sembra-va in confronto alla donna, parlò:
- Gentili signore, illustrissimi signori, ecco davanti a voi il più straordinario dei fenomeni viventi. Questa donna, questo gigante di donna, oserei dire, della grandezza di tre donne e della forza di tre uomini, è pronta a lanciare la sua sfida, a tre uomini alla volta, appunto. A tre uomini che vorranno sfi-darsi con lei alla lotta libera. Al trio che risulterà vincitore, come premio verrà data una bicicletta. Una ciascuno, naturalmente. Tuttavia sono ben cer-to che non ci sarà un trio vincitore. Allora, coraggio! Avanti con le prenota-zioni. Solo diecimila lire, con la possibilità di vincere una bicicletta. Mentre la donnona sorrideva sicura di sé, si alzò per tutta la platea un mor-morio generale, un chiamarsi, un accordarsi da una parte all'altra, un incita-re o un dissuadere da parte delle mogli. Alla fine si presentarono all'omino nove uomini che pagarono e si prenotarono per la lotta. Il primo gruppo si avvicinò alla donna per la sfida e la sfida ebbe inizio: chi l'afferrava per una gamba e cercava di farle perdere l'equilibrio, chi saltava verso le sue mani per fare altrettanto, chi le dava testate sulla pancia o contro il sedere per ri-uscire a farla cadere. Non ci fu niente da fare. Come la donnona ne afferrava uno, lo scaraventava lontano in mezzo alla gente tra una risata generale. Provò il secondo gruppo, poi provò il terzo, ma il risultato fu lo stesso. La donna gigante era sempre lì ben piantata a terra sui suoi smisurati piedoni. L'omino si rivolse trionfante alla folla:
- Sono spiacente per gli illustrissimi signori, ma erano stati avvertiti. C'è qualche altro gruppo che vuole sfidare la donna?
Tra gli spettatori un silenzio generale. Ma da un posticino nascosto si alzò un ragazzino.
- Voglio sfidarla io la donna gigante.
Dalla folla si alzò una risata così fragorosa che coprì perfino la domanda dell'omino il quale, appena tornò un po' di silenzio, chiese:
- Tu, ragazzino vuoi sfidare la donna gigante? E dove sono gli altri due sfi-danti.
- La sfido da solo - rispose il ragazzino.
Altra risata fragorosa, seguita questa volta da urla, da fischi e da motteggi: "Quella ti mangia vivo!", "Ti riduce in polpette!", " Non provarci! Sei an-cora piccolo per morire!"
- Le ho già sentite queste parole - rispose il ragazzo e s'avviò deciso verso l'arena.
- Tu vorresti sfidare quella donna lì, da solo? - gli chiese l'omino. - Come ti chiami?
- Mi chiamo Peppino - rispose il ragazzo.
- Senti, Peppino. Questo non è un gioco. Potresti farti male.
- Non si può mai dire prima - fu la risposta.
- Se sta bene a te... - concluse l'omino. - Vuol dire che in caso di vittoria ti daremo una sola bicicletta e il resto in denaro. Tira fuori i soldi per la preno-tazione e puoi cominciare .
- Non posso pagarla dopo la prenotazione? - chiese Peppino.
- Non hai diecimila lire?
- No!
A questo punto l'omino perse la pazienza:
- Ti prendi gioco di me, per caso? Vuoi sfidare la donna gigante da solo e non hai neanche diecimila lire per la prenotazione. Ma vattene al posto!
Però le persone lì presenti ormai avevano preso parte al gioco e non voleva-no perdersi lo spettacolo. Più di uno si fece avanti per pagare la prenotazio-ne al ragazzo. C'era da divertirsi un mondo.
- Come ti scaraventa per aria, ti riprendiamo a volo - gli dissero.
- Grazie! - fece il ragazzo, poi si rivolse all'omino. - Ora posso?
- Ora puoi.
- I patti sono questi, vero? - volle precisare Peppino. - Se vinco io, mi dai una bicicletta e il resto in denaro. Giusto?
- Giusto! - rispose l'omino. - Ora puoi cominciare.
- Ad una condizione.
- Poni anche una condizione? Sentiamola!
- La donna si deve togliere gli stivali e deve rimanere scalza. Secondo le regole della lotta libera, il combattimento deve avvenire a piedi scalzi. Anch'io mi tolgo scarpe e calze - e si denudò velocemente i piedi.
L'omino guardò la donna, che rispose con uno sguardo incerto. Gli stivali facevano parte della sua divisa e senza, sarebbe sembrata un'altra, ma dalla folla partirono diverse urla: "Ha ragione! La lotta libera si fa a piedi scalzi!"
- D'accordo! - fece l'omino, facendo cenni con le mani, perché la gente si calmasse. - La donna combatterà a piedi scalzi - e si fece da parte.
Peppino attese tranquillamente con le mani in tasca. La donnona si piegò in avanti con molta fatica e altrettanto faticosamente si tolse, dopo avere slega-to le lunghe stringhe, uno stivale, che è il caso di chiamare stivalone, alla volta. Poi fu la volta delle lunghe calze che le arrivavano fin sotto ai panta-loni corti. Peppino sembrava distratto, ma seguiva attentamente ogni movi-mento della donna e appena la vide piegata in avanti e sbilanciata a togliersi la seconda calza, con una rincorsa e con un salto le mollò un forte spintone con tutte le sue forze, che la mandò rotoloni per terra. Non le diede il tempo di rialzarsi. Attuò la sua tattica che aveva studiato con cura, quand'era sedu-to tra gli spettatori. Saltò in un piede e cominciò a solleticarlo, facendo at-tenzione a non essere afferrato dalle manone della donna, poi saltò all'altro piede, poi l'andò a solleticare sotto un'ascella, poi nell'altra, poi ritornò ad un piede, poi all'altro, veloce come uno scoiattolo. La donna aveva attaccato a ridere, a ridere, senza avere la forza di alzarsi e di reagire. Peppino solleti-cava e solleticava, la gente scrosciava con gli applausi e la donnona rideva e rideva che non ne poteva più, tanto che ad un certo punto gridò, implorò, tra un ridere sempre più sfrenato:
- Basta, basta! Mi arrendo, mi arrendo!
L'aveva detto così forte, che avevano sentito tutti. Peppino smise di solleti-care, ma voleva essere sicuro della sua vittoria:
- Ti arrendi?
- Sì, mi arrendo!
- Dillo forte. Voglio che sentano tutti gli spettatori, fino all'ultimo, quello più lontano.
- Mi arrendo, sì hai vinto. Mi arrendo! - gridò forte la donna gigante.
Solo allora Peppino le si avvicinò e le diede la mano per aiutarla ad alzarsi. L'applauso scoppiò ancora più forte. La donnona si alzò in piedi e così a piedi scalzi, abbracciò Peppino e lo portò in trionfo, facendo il giro dell'arena. Dopo che l'ebbe posato a terra, gli disse:
- Tu hai capito che l'intelligenza vale più della forza.
- È per dimostrare questo che sto girando il mondo - rispose Peppino.
Fu così che ebbe in premio la sua bicicletta e una tasca bella piena di banco-note, pari al valore delle altre due bicliclette. Ora con quei soldi e la biciclet-ta sotto, si sentiva più tranquillo e girava il mondo più volentieri e più in fretta.

La casa dei fantasmi

Pedalando e pedalando lungo una strada di campagna, Peppino era giunto vicino ad un gruppetto di case. Ad un certo punto vide un prete con la tuni-ca nera, la cotta bianca e la stola (una specie di sciarpa), che, seguito dal chierichetto con il secchiello dell'acqua santa e l'aspersorio, entrava in un'abitazione. Per rispetto, tirò i freni, si fermò e chiese ad un uomo.
- Sta portando l'olio santo a qualche malato grave?
- No! Va a benedire quella casa per allontanare i fantasmi.
- Ci sono i fantasmi?
- Sì, e di notte danno fastidio al proprietario, mentre dorme.
- E lui che giustamente di notte vuole dormire, sta facendo del tutto, perché i fantasmi se ne vadano.
- Il fatto è - spiegò l'uomo - che ha deciso di vendere la sua casa, ma quello che la compra vuole dargli poco, perché ci sono i fantasmi.
- Allora c'è uno che la vuole comprare?
- Sì! E siccome dentro ci sono i fantasmi, vuole pagarla poco.
Non so perché, ma a Peppino vennero in testa le sue solite idee.
- Chi è il proprietario della casa? - chiese ancora.
- Quello che ha aperto la porta quando è arrivato il prete.
- Grazie! - disse Peppino e si avvicinò alla casa, facendo finta di niente. At-tese che il prete se ne fosse andato, poi bussò.
- Avanti! - si sentì rispondere da dentro, con voce smorta. Entrò e vide un uomo seduto accanto al tavolino, un gomito appoggiato e la fronte che si reggeva con la mano, quasi che, senza quel sostegno, la testa gli cadesse per terra. Costui girò lo sguardo verso Peppino e sembrava così afflitto, che pa-reva gli fosse morta la persona più cara.
- Che cosa vuoi, ragazzo? - gli chiese. - Se vai cercando l'elemosina, stam-mi alla larga, perché oggi non è aria.
- Non mi serve affatto l'elemosina - rispose Peppino. - Volevo soltanto sa-pere se è vero che questa casa ci sono i fantasmi.
- Sì, è così. E adesso che lo sai?
- Io ho un potere magico contro i fantasmi e se mi ospiti per questa notte, posso scacciarli.
- Anche se il prete ha benedetto la casa per tenerli lontani, tu avresti il co-raggio di dormire qui?
- Sì! E, come ti ho detto, posso mandarli via. Ho l'impressione che si tratti di fantasmi particolari. Se è così, la benedizione del prete non serve.
- E tu, che non ti reggi in piedi per quanto sei esilino, avresti il coraggio di scacciare i fantasmi?
- A provare non ti costa niente. Si tratta di ospitarmi solo per questa notte.
- Senti ragazzo, mi divertirò a sentirti strillare per lo spavento e avrò meno paura anch'io.
- Allora mi ospiti?
- D'accordo! Affare fatto! Questa notte dormirai qui.
- Però, perché io possa intervenire nel modo più giusto, bisogna che mi rac-conti quello che succede.
- Te lo dico in due parole. Vado a letto ed è tutto normale, ma come mi ad-dormento, all'improvviso tutte le coperte mi scappano via. Le ritiro su e po-co dopo, pluf, sono di nuovo in fondo ai piedi. E come se ciò non bastasse, appena entrano i primi raggi di luna dalla finestra, mi vedo ai piedi del letto un fantasma che si dondola, come se ballasse al suono di una musica che io non sento.
- Ho capito! Intervengono quando cominci a russare. Ma poi questo fanta-sma che cosa fa? Si avvicina, ti dà un cazzotto, ti fa qualche scherzo?
- No! Niente violenza e niente scherzi. Si limita a ballare e basta. Qualche volta lo sento anche parlare.
- Ah sì? Che cosa dice?
- Dice con voce cavernosa, una voce che sembra provenire dal cielo: "Artu-ro!..." Arturo sono io. Dice: "Arturo, se non lascerai questa casa, presto mo-rirai fra atroci tormenti!" Io dunque, ragazzo, non me la sento di continuare a vivere qui dentro e sono costretto a venderla. Il guaio è che, siccome si è sparsa la voce dei fantasmi, un tizio me la vuole comprare, però mi ha offer-to la metà di quello che vale. Capisci qual è la mia tragedia?
- E come non la capisco? È per questo che voglio aiutarti.
- Ma tu non sarai uno dei soliti imbroglioni, che fa finta di scacciare i fanta-smi per chiedermi un sacco di soldi.
- Io veramente ti ho solo chiesto ospitalità per questa notte.
- Nient'altro?
- Nient'altro! Però vorrei almeno vederla questa stanza. A proposito, il fan-tasma compare solo in quella stanza o anche nelle altre?
- No, no! Soltanto in quella. Se la vuoi vedere, andiamo.
Entrarono in camera da letto. Era una camera normale, a pian terreno, con il soffitto sostenuto da travi e travicelli e ricoperto da pianelloni. Osservando bene però, ebbe l'impressione che uno di quei pianelloni, vicino alla parete verso il fondo del letto, fosse stato tolto e rimesso. Non disse niente, però chiese:
- Su di sopra chi c'è?
- Non c'è nessuno. Non è abitata da anni. I suoi proprietari sono in America da tanto tempo.
Diede un'occhiata anche alla finestra. Dava in un cortile malmesso dietro alla strada. Era mezza sgangherata e da fuori poteva aprirsi con la massima facilità. Infatti qualche segno di apertura forzata si notava.
- Allora questa notte posso dormire qui? - chiese Peppino.
- Se vuoi! - rispose l'uomo. - E se davvero riesci a mandare via i fantasmi, ti do anche un bel premio.
Peppino appena notte cenò con Arturo, poi si fece dare una candela e andò a dormire. Lì per lì, un po' di paura dentro, vuoi o non vuoi, ce l'aveva. Però si fece coraggio e studiò la situazione. E nello studiare la situazione, notò due fili sottili che uscivano dalle coperte in fondo al letto, uno da una parte e una dall'altra e, passando sotto il grosso armadio, finivano in un forellino della parete esterna. Notò pure che la finestra era stata aperta e richiusa. Si vede che qualcuno vi si era introdotto, mentre cenavano. Senza pensarci troppo, spezzò i fili con la fiamma della candela e serrò bene la finestra. S'infilò quindi dentro il letto, ma era così stanco che poco dopo si addor-mentò.
Dormiva da un'ora o forse da meno, quando venne svegliato da quella voce cavernosa che calava dall'alto, una voce che fece tremare Arturo disteso su un pagliericcio in cucina. Ma Peppino non se la prese più di tanto. Accese la candela con un fiammifero e si sedette sul letto. Effettivamente vide anche lui il fantasma che ballava, però più che un fantasma, sembrava un lenzuolo al quale erano state legate tre cordicelle, una per la testa e due per le mani. Le cordicelle venivano mosse dall'alto da dove scendeva la voce cavernosa: "Arturo, se non lascerai questa casa, presto morirai fra atroci tormenti!" Peppino non si scompose. Scese dal letto, s'avvicinò al lenzuolo, l'afferrò e tirò giù con un colpo secco. La voce, da cavernosa che era, si trasformò all'improvviso in tonfo e in un chiaro: "Aaah!", come se qualcuno avesse battuto la faccia contro il pavimento di sopra.
Dopo quest'operazione, spense la candela, si riaddormentò e non venne svegliato che dal sole con i suoi raggi contro i vetri della finestra.
Mentre faceva colazione, disse ad Arturo:
- D'ora in avanti, i fantasmi non ti daranno più fastidio e se vorrai ancora, potrai vendere la casa a prezzo reale.
Arturo fu così contento, che ad un certo punto gli disse:
- Senti, Peppino, per mostrarti la mia gratitudine, voglio che tu accetti un mio regalo.
- Va bene! Lo accetto volentieri.
- Vedo che vai in giro in bicicletta.
- Si, l'ho vinta in una gara al circo.
- Ebbene, io vorrei regalarti il mio motorino. Non dovrai pedalare. La bici-cletta tornerai a prenderla quando vorrai.
Peppino rimase un attimo sbalordito dallo straordinario regalo. Non ci pote-va credere. Era troppo bello.
- Sarebbe meraviglioso, Arturo! Ma sei sicuro di volermelo regalare?
- Ne sono sicurissimo! Anzi, meriteresti molto di più!
- Grazie, Arturo! È la più bella cosa che avrei potuto desiderare.
Peppino partì ancora, questa volta senza camminare e senza pedalare. Si go-deva l'aria fresca del mattino che gli accarezzava la faccia, mentre percorre-va quella lunga strada del mondo, che non finiva mai.

Uno spettacolo di comiche

Con il suo motorino scoppiettante, Peppino capitò in un paese nel bel mezzo della campagna elettorale, alla fine della quale i cittadini avrebbero dovuto eleggere il Sindaco e il Consiglio comunale.
Già fin dalle prime case notò le pareti tappezzate da grandi manifesti, alcuni con una serie di nomi elencati di seguito e altri che rappresentavano facce dalle espressioni diverse con il nome sotto. Dopo il nome, si leggeva a carat-teri grossi e colorati: "Vota".
Addentrandosi però nel il paese, dovette rallentare, perché le strade erano invase da tanta gente che si dirigeva tutta dalla stessa parte ed entrava nella piccola porta di un lungo palazzo.
Peppino, costretto a fermarsi, chiese ad una signora:
- Dove state andando tutti quanti?
- Andiamo in teatro - rispose la signora.
- C'è uno spettacolo di comiche?
- No, c'è il comizio del candidato per la lista: "Il paese verso il futuro". Non so se è uno spettacolo di comiche.
"Interessante!" - pensò Peppino tra sé. E, dato che era anche un po' stanco di guidare, posteggiò il motorino ed entrò anche lui in quel palazzo lungo che era il teatro. Lì dentro c'erano tante sedie tutte in fila in lungo e in largo, però la gente era così numerosa, che erano già tutte occupate. Non c'era più neanche un posto libero. Gli ultimi arrivati dovettero rimanere in piedi e la stessa sorte toccò anche a lui.
Appena il candidato apparve sul palcoscenico, sollevando le braccia per sa-lutare, come un vero attore, fu accolto da uno scroscio di applausi. Quando finalmente il battimani cessò, il candidato in piedi dietro al tavolo con il mi-crofono davanti alla bocca, si rivolse ai presenti con voce commossa:
- Cittadini, votate la nostra lista e questo paese cambierà completamente. Se io verrò eletto Sindaco, noi vi costruiremo ospedali, strade, scuole, ricoveri per anziani, perché questi nostri anziani possano trovare un luogo accoglien-te dove trascorrere serenamente la loro vecchiaia, a conclusione di lunghi anni di lavoro......
Il discorso continuò ancora a lungo, pieno di promesse per i cittadini e di cambiamenti che avrebbero trasformato il loro paese in un modello da imita-re. Ad ogni nuova promessa, un nuovo scroscio di applausi . Anche Peppino applaudì, meravigliandosi che da quelle parti ci fosse tanta ricchezza da po-tersi permettere la costruzione di così numerosi servizi.
Mentre usciva, notò un cartello vicino alla porta, che indicava per il giorno dopo, un altro comizio, quello della lista: "Gioventù, la forza del domani".
Prese la decisione lì per lì. Era curioso di sentire che cosa avrebbe promesso il candidato di quella lista. Aveva in tasca una discreta sommetta, quindi pensò di restare in albergo per qualche giorno. Però il dubbio gli rimuginava dentro, per cui se lo fece chiarire dal proprietario, mentre gli serviva il pri-mo:
- È così ricco questo paese?
- Perché me lo chiedi? - chiese l'uomo.
- A sentire le promesse fatte dal candidato sindaco, sembrerebbe che il co-mune disponga di chissà quanti miliardi.
- Si vede che sei giovane e inesperto, ragazzo mio - gli rispose. - Non lo sai che i politicanti fanno sempre grandi promesse, quando sanno benissimo di non poterle mantenere?
- Ma allora perché lo hanno applaudito tutti?
- Perché alla gente piace sentirsi fare le promesse.
- Allora era proprio uno spettacolo di comiche! - concluse Peppino.
Il giorno dopo, puntuale era in teatro con tutti gli altri, che non erano gli stessi del giorno prima. Anche in questa occasione, il candidato sindaco venne applaudito con un lungo battimani e anche qui egli si rivolse ai par-tecipanti con voce sonora, ben equilibrata, le pause al posto giusto, i bassi e gli alti al momento opportuno, da vero attore anche lui:
- Cittadini e cittadine, sapete che il nostro impegno è sempre stato il mondo giovanile, questo mondo giovanile che rappresenta il nostro domani, questo mondo giovanile, che sarà la forza del nostro domani. Allora ecco quello che garantiamo, se ci darete, come spero, anzi ne sono sicuro, il vostro vo-to. In questo paese ci sono giovani artigiani, giovani operai, giovani diplo-mati, giovani laureati. Ebbene, ciascuno di essi avrà un lavoro, ciascuno di essi raggiungerà quel traguardo che si è prefissato, ciascuno di loro potrà avere una casa, ciascuno di loro potrà mettere su famiglia e collaborare al progresso di questo nostro paese al quale siamo fieri di appartenere.
Gli applausi furono talmente tanti e talmente lunghi, che lo stesso oratore dovette intervenire con cenni delle mani per farli cessare. Applaudì anche Peppino, essendo anche lui un giovane e mentre applaudiva, la sua mente rimuginava le parole appena sentite. Si sfogò al solito con il titolare dell'albergo:
- Senti, scusa, tu che qui conosci tutti, mi devi spiegare alcune cose.
- Che cosa vuoi che ti spieghi?
- Oggi quel tizio ha parlato del lavoro per tutti i giovani. Che per caso in questo paese ci sono laboratori di artigianato, industrie, uffici dove trovare l'impiego, sia per i diplomati che per i laureati?
- Perché mi fai questa domanda? - chiese curioso il titolare dell'albergo.
- Perché è quello che ha promesso l'oratore della lista: "Gioventù, la forza del domani".
- Non te l'ho forse detto ieri? I politici, per ottenere voti, devono fare tante promesse.
- E la gente ci crede.
- Certo! La gente ci crede. Perché, se vuoi saperlo, in questo paese quasi tutti i giovani sono disoccupati e se qualcuno vuole trovare lavoro, deve la-sciare la propria casa e andarsene lontano.
- A proposito di case, in questo paese ce ne sono tante per chi le cerca, po-niamo, in affitto?
- Ma che cosa stai dicendo? Pensa che mio nipote, come tanti altri ragazzi, non può sposarsi perché non trova una casa, perché quelle, e sono poche, che si affittano, costano quasi uno stipendio.
- Allora quello lì ha fatto un'altra promessa che non può mantenere?
- Ragazzo, non lo vuoi ancora capire? I politici fanno sempre promesse che non possono mantenere.
- Ah! - concluse anche questa volta Peppino. - Si tratta proprio di uno spet-tacolo di comiche.
- Guarda! - gli disse ancora il titolare dell'albergo. - Se ne vuoi sentirne an-cora delle belle, aspettati fino a domani e assisterai al dibattito tra i due can-didati sindaci.
Peppino ci pensò un attimo, poi rispose:
- Hai ragione! Mi fermo fino a domani.
E si fermò. Il giorno dopo il teatro era veramente stracolmo, per le tante per-sone che c'erano, i simpatizzanti di tutte e due le liste. Erano state occupate tutte le sedie, erano pieni di gente in piedi i corridoi laterali, era pieno di gente in piedi il fondo del teatro.
I due aspiranti sindaci presentarono nuovamente i loro programmi con le so-lite promesse grandiose di rimodernamento, con i soliti scroscianti applausi ad ogni loro promessa. Ad un certo punto il conduttore del dibattito doman-dò se qualcuno tra il pubblico, prima del dibattito vero e proprio tra i due contendenti, avesse da fare qualche osservazione, da avanzare qualche ri-chiesta. Tra le tante persone che c'erano, neanche uno alzò la mano, come se tutti fossero soddisfatti. Allora Peppino, visto che nessuno si decideva di parlare, alzò la mano e chiese la parola. Il conduttore lo fece accomodare sul palcoscenico e gli consegnò il microfono. Tutti attesero con un sorriso mal-celato di sentire che cosa avesse da dire quel ragazzetto alto un palmo e mezzo ed esilino che sembrava facesse fatica a reggersi in piedi.
Peppino, senza tanti preamboli, cominciò il suo discorsetto:
- Io non sono di queste parti. Mi sono trovato qui di passaggio ed ho avuto modo di ascoltare le promesse dei due aspiranti sindaci. Così ho deciso di voler dire la mia. Questo signore della lista: "Il paese verso il futuro" vi ha promesso ospedali, strade, centri per anziani e voi avete applaudito. Prima domanda: "Dove prenderà tanti soldi per costruire tutte queste cose?" Non mi pare che il comune sia così ricco da permettersi certe spese. Poi, l'ospedale, a parte che non siete tutti malati, è nella vicina città ed è più che sufficiente. La strada c'è già. Invece non ci sono abbastanza servizi di auto-bus per raggiungerla e sono quelli che ci vogliono, ma nessuno se n'è ac-corto. Di ricoveri per anziani non ce n'è bisogno.Gli anziani stanno bene nelle loro famiglie, perché è nelle famiglie che possono trascorrere serena-mente la loro vecchiaia, come succede dalle mie parti. E allora, a che cosa servono tutte queste promesse inutili e irrealizzabili?
- Hai ragione! Bravo! Bravo! - fu uno scroscio di applausi dalla parte av-versaria. - È la nostra lista che si deve votare.
- Neanche per idea! - controbatté Peppino. - Che cosa promette la vostra li-sta? Lavoro per i giovani e una casa per mettere su famiglia. Dov'è il lavoro per questi giovani, se sono tutti disoccupati, se qui non ci sono industrie per occuparli e i pochi che vogliono lavorare, sono costretti ad abbandonare il proprio paese per andare in qualche lontana città? E le case promesse, dove sono? Con quali soldi volete costruirle, se i soldi non ci sono? Vi rendete conto che molti giovani non possono sposarsi per mancanza di una casa. E allora, non fate promesse inutili per abbindolare la gente e voi cittadini di questo paese, aprite gli occhi e non vi fate prendere in giro da promesse che non possono essere mantenute.
Ci fu dapprima un silenzio di tomba. Poi scrosciò un fragoroso applauso tut-to per lui, per Peppino. Più di una voce gridò:
- Quel ragazzo ha ragione. È un sindaco così che ci vuole, schietto e since-ro. Votiamo per lui, facciamo lui sindaco. Sì, facciamo lui sindaco!
Tornato il silenzio, Peppino disse chiaro:
- Vi ringrazio, ma io non sono preparato per la politica. Io devo girare il mondo perché ci sono tante altre cose che devo conoscere. Quindi vedeteve-la tra di voi - e se ne andò, convinto sempre di più che spesso la politica è uno spettacolo di comiche.


Modelli di comportamento

Peppino guidava da poco più di mezz'ora, quando, lungo un tratto di rettili-neo, vide in lontananza una persona che procedeva lungo il margine destro di quel nastro d'asfalto che non finiva mai e al passaggio di ogni macchina, alzava il braccio indicando con il pollice in avanti, come per chiedere l'autostop. Però nessuno si fermava.
Fece lo stesso segno anche al suo avvicinarsi, ma quando si accorse che si trattava di un motorino, abbassò il braccio e continuò a camminare. Era una ragazzina più o meno della sua età, pantaloni jeans, scarpe da tennis, giac-chettino colorato e zainetto alle spalle. Aveva i capelli castano scuri abba-stanza lunghi, che l'aria faceva svolazzare intorno ad un visino sudato, stan-co e dall'espressione triste.
- Hai bisogno di qualcosa? - le chiese Peppino accostando e fermandosi.
Lei lo guardò.
- No, grazie! Aspetto che mi dia un passaggio una macchina. Te ne puoi andare.
Peppino capì subito che quella signorinetta era in qualche guaio e aveva bi-sogno di aiuto.
- Va bene, ma se poi la macchina il passaggio non te lo dà, come ho visto arrivando, che fai, continui a piedi? Se vuoi, puoi salire con me.
- Ma che vai cercando? Io non salgo su un motorino.
- Non importa! Vuol dire che andrò a piedi anch'io.
Scese e si mise a camminare accanto a lei. Lei però era infastidita.
- Insomma, si può sapere che cosa vai cercando? Guarda che con me non attacca! Vattene per conto tuo. Mi fai perdere l'occasione di qualcuno che mi dia un passaggio.
- E se poi chi ti dà un passaggio ti fa del male? Che ne sai chi c'è dentro? Se poi ti rapisce? Se poi ti violenta? Non la guardi mai tu la televisione?
- Non ci avevo pensato - rispose la ragazzina. - Tuttavia mi saprò difendere da sola. Io però devo andare lo stesso in città.
- Perché non hai preso l'autobus, scusa?
- Che scoperta! Perché non ho i soldi.
- Beh ma, potevi farteli dare da... ho capito, sei fuggita da casa.
- E allora? Che te ne importa?
- Niente! Così, tanto per sapere. Quindi non hai neanche i soldi per mangia-re.
- Vuoi che chi mi dà un passaggio, non li abbia per offrirmi un pranzo?
- E, secondo te, in cambio di che cosa?
- Di niente! Così!
- Ho l'impressione, bella mia, che tu non conosci il mondo.
- Perché, tu lo conosci?
- Poco. Ma lo sto girando per conoscerlo. Senti, ti va se ti offro un panino?
- E tu il panino me lo offri in cambio di che cosa?
- In cambio di niente. Anzi, in cambio di qualcosa. Siccome sono partito da lassù vicino alle montagne perché ho deciso di conoscere il mondo, in cam-bio del panino mi racconti che cosa c'è nel tuo mondo che non va.
- Insomma, ti dovrei raccontare gli affari miei.
- A confidarti con una persona che non conosci, può anche servire. Dunque accetti? È arrivata fame anche a me.
- E va bene. Se è per così poco...
- Come ti chiami?
- Io Tizy. E tu?
- Io Peppino. Ma che nome è questo Tizy?
- Tiziana, no? Oggi ci piace chiamarci così.
- Ah, sì? Io allora come dovrei chiamarmi: Pepy? - e a quell'uscita gli venne da ridere e fece ridere pure la ragazzina, la quale mostrò finalmente un visino dolce, da abbronciato che era. - Senti, Tizy, monta dietro a me e stringiti forte, perché il sellino non ha lo spazio per due persone.
Seduto su metà sellino, anzi proprio sulla punta, Peppino guidava piuttosto scomodo. Tuttavia aveva qualcos'altro da imparare, girando il mondo. Vo-leva conoscere i pensieri di una signorinetta insoddisfatta della vita, quando la vita è proprio nel suo primo fiorire.
Guidando a quel modo, arrivò alla periferia di un paese e appena scorse un negozio di alimentari, si fermò all'ombra di un platano.
- Aspettami qui, Tizy. Vado a prendere due o tre panini e qualche bibita - e abbassò il cavalletto, ma fatti pochi passi, si voltò, preso da un sospetto, da vero contadino. - Non è che nel frattempo salti sul motorino e te la squagli? - Che stupidate dici, Peppino! Non lo so neanche guidare. Poi quando è fini-ta la benzina, che faccio?
Poco dopo il giovane tornò con quattro panini e due barattoli di aranciata.
- Io sono un campagnolo. Mi piace stare all'aperto - le disse. - Ti va se ci sediamo in qualche posto?
- Sì, sì, va bene! Purché possa mangiare.
Sedettero su una panchina di un piccolo spazio verde, che doveva rappresentare "i giardini pubblici" di quel paese.
- Ho una fame! - esclamò la ragazzina. - È da ieri sera che non mangio e dopo tutta questa camminata...
Si tuffò avidamente su un panino poi sull'altro, intercalando i bocconi con qualche sorsata di aranciata. Anche Peppino aveva fame e anche lui divorò i suoi panini con vero piacere.
- Ci vorrebbe un caffè - disse la ragazza, sorridendo.
- Vuoi che vada a prenderlo?
- No, stavo scherzando. Va bene anche così.
Finito di mangiare e scrollate le briciole di dosso, adocchiate subito da alcu-ni passeretti che svolazzavano nei dintorni, Peppino disse:
- Allora, Tizy, è ora di pagare il conto.
- Cioè? Ah, sì! Ti devo raccontare la storia della mia vita. Chissà poi che cosa ci troverai di tanto importante... - però, a dire la verità, anche lei aveva voglia di sfogarsi, con quel ragazzo sconosciuto, tanto piccolo e magrolino, ma anche tanto gentile.
- Te l'ho già detto, Tizy. Io vivo lassù sotto i monti e conosco ben poco del mondo. Così ho deciso di conoscerlo. Siccome anche tu ne fai parte con i tuoi problemi, vorrei conoscere anche quelli. Forse ti chiedo troppo?
- No, affatto. Allora comincio subito: i miei genitori sono operai e lavorano tutto il giorno per pagare la casa che si sono comprata. Hanno voluto farmi studiare, perché dicono che se una ragazza non studia, non è nessuno e un domani sarà costretta a fare l'operaia come loro.
- Che scuola frequenti?
- La prima liceo.
- Vedi un po'. Io ho fatto solo le elementari. Di fronte a me sei una dotto-ressa.
- Ma va' là! Sono soltanto quattro anni in più. E tu perché non hai studiato? Non te lo hanno imposto?
- No, anche se a me piace leggere e conoscere tante cose. Non me l'hanno imposto per due motivi: primo, perché a me piace fare il contadino, stare a contatto con la natura e vedermi crescere intorno animali e piante. Secondo, perché queste braccia sono indispensabili per mandare avanti il terreno.
- Ecco, vedi? - esclamò subito la ragazzina. - Tu hai potuto scegliere, io no.
- Non è vero, Tizy. Anche se a me piace fare il contadino, non avrei potuto comunque abbandonare i miei campi. Tu invece avresti preferito fare l'operaia, chiusa tutto il giorno dentro una fabbrica puzzolente, a lavorare come una macchina dalla mattina alla sera?
- Questo no, però...
- Allora, vedi? Va' avanti con il tuo racconto.
- Sarà perché non mi piace andare a scuola, sarà perché i professori ce l'hanno con me, sta il fatto che mi rimproverano sempre ed io a fare conti-nue figuracce di fronte ai compagni e alle compagne, non me la sento più. Come se questo non bastasse, i professori riferiscono a papà e mamma e an-che con loro è un continuo rimproverarmi e sgridarmi per quel poco tempo che sono in casa. Tutte le sere la stessa musica: "Sei una grande somara! Noi facciamo tanti sacrifici per te e tu ci ricompensi in questo modo. Ci fai vergognare di avere una figlia così..." e via di questo passo. Poi non mi permettono di uscire la domenica con le amiche, non mi vogliono comprare vestiti firmati come i loro...
- Come hai detto, scusa?
- Che cosa ho detto?
- Hai parlato di vestiti firmati. Che cosa sono?
- Si vede che su in montagna dalle tue parti non si segue la moda. I vestiti firmati sono quelli creati da un grande stilista. Li fanno vedere sempre alla televisione.
- E costano molto cari?
- Certo che costano cari! Altrimenti che vestiti firmati sarebbero?
- Che differenza c'è con gli altri vestiti? Sono più belli, più colorati, più ro-busti? Come sono?
- Sono come tutti gli atri. Solo che sono firmati, fanno sentire importanti.
- E tu sei fuggita da casa per questo?
- Si! Voglio andare in città. Voglio fare la cantante. Sai che ho una bella voce? Voglio guadagnare tanti soldi, fare quello che mi pare e vestirmi co-me mi pare. Non le vedi alla televisione tutte quelle cantanti giovanissime, ricche, famose e applaudite da tutti?
- Vedo che questa televisione ti ha insegnato molte cose. Ma tu, Tizy, quando sei arrivata in città, da chi pensi di andare? Conosci qualcuno? Hai qualche parente?
- No, Peppino! Non ho nessuno e non conosco nessuno. Mi rivolgerò ad una casa discografica, farò ascoltare la mia voce e verrò sicuramente intro-dotta nel mondo della canzone. Così un giorno anch'io potrò cantare in tele-visione, come tante altre ragazze della mia età.
- Te lo auguro, Tizy! Però mi devi spiegare una cosa. Nel frattempo, mentre passano i giorni o i mesi in attesa di poter cantare e quindi di essere pagata, che cosa farai, come mangerai, dove andrai a dormire? Non crederai che ti paghino prima di vendere qualche tua registrazione!
- Non ci ho pensato. Mi arrangerò in qualche modo.
- Non ti viene in mente, Tizy, che per ogni cantante giovane diventata fa-mosa, cento sono state scartate e una di queste potresti essere tu? Non ti vie-ne in mente che invece potresti rischiare di incontrare persone senza scrupo-li le quali, con la scusa di introdurti nel mondo della canzone, come dici tu, ti possano condurre su una strada sbagliata? Te lo dico perché una ragazza delle mie parti che s'era messa in testa di fare l'attrice, andò in una grande città con la testa piena di sogni, poi invece molto tempo dopo fu vista ferma lungo una strada di notte. Mi capisci che cosa voglio dire?
- Non ci avevo pensato - ripeté la ragazza per la terza volta. - A questo davvero non ci avevo pensato. Allora, che cosa dovrei fare?
- Questo, Tizy, lo devi decidere tu. Fossi con te, continuerei a studiare. Tut-te le giovani cantanti hanno un titolo di studio. Si sente da come parlano.
- E quando potrei farmi notare? Mai più!
- Non è detto. Dimostrando di studiare con impegno, potresti convincere i genitori a farti iscrivere ad una scuola di canto. Inoltre, tutte le volte che ti capita, fatti sentire! Canta per gli amici, canta in chiesa, canta in ogni festa dove sei invitata. Partecipa ai concorsi di canto, manda una tua canzone re-gistrata a qualche casa discografica. Insomma, tenta, tenta e ritenta, senza stancarti. Prima o poi ti si presenterà l'occasione buona.
- E poi tu dici di non conoscere il mondo. Lo conosci e come!
- Lo conoscevo per sentito dire. Ora ho deciso di conoscerlo di persona.
Allora, Tizy, che cosa decidi di fare?
- Forse è meglio che torno a casa. Tu che cosa dici?
- Fossi in te, lo farei!
- Sì, però, ora come faccio?
- Tuo padre e tua madre se ne sono accorti che sei fuggita?
- No! Sono andati a lavorare questa mattina presto. Io ho detto che andavo a scuola.
- Abiti lontano da qui?
- Non molto. Saranno sette o otto chilometri.
- E la scuola?
- È lì in paese.
- Sono le dieci. Non puoi mettere una scusa con i professori?
- Potrei dire che mi sono svegliata tardi. Anche i miei ci crederanno.
- Allora monta. Ti riaccompagno a scuola.
Quando furono nelle vicinanze, Tizy batté una mano sulla spalla di Peppino.
- Fammi scendere qui - gli disse. - Non vorrei che qualcuno mi vedesse con un ragazzo in motorino.
Si fermò e la fece scendere.
- Senti, Tizy, se durante le vacanze o qualche domenica ti venisse voglia di venirmi a trovare, mi farebbe molto piacere - le disse e le diede il suo indi-rizzo.
- Appena potrò, Peppino, lo farò molto volentieri. Grazie di tutto! Si avvicinò, gli diede un bacino sulla guancia e corse via. Peppino, a caval-cioni del suo motorino, la seguì con lo sguardo, finché non sparve dietro l'angolo del caseggiato.

La strada per la città


Peppino ripartì e questa volta sapeva da quale parte doveva andare: in una grande città dove c'erano molte cose da conoscere e molte cose da imparare. La prima che imparò fu che, man mano che si avvicinava, aumentava smisu-ratamente il traffico. Macchine in su, macchine in giù, macchine che usci-vano da destra, macchine che uscivano da sinistra, una continua baraonda. Tanto che ad un certo punto si trovò completamente bloccato. S'era formata una lunga fila di automobili ferme e non c'era verso che ripartissero. Pen-sando ad un incidente, sgattaiolò in su col motorino e raggiunse il punto cruciale.
Il punto cruciale era un incrocio, dove s'era fatta una fila altrettanto lunga proveniente da destra. C'erano, all'inizio della coda, due auto ferme col mu-so vicino che quasi si toccavano e i due autisti che discutevano animatamen-te, insultandosi di tanto in tanto. Dal loro gridare Peppino capì che si tratta-va di precedenza. Quello che proveniva dalla sua direzione sosteneva di avere la precedenza, perché giungeva da una strada principale. L'altro asse-riva, gridando più di lui, che aveva la precedenza, perché usciva da destra. Peppino, seccato, si intrufolò tra i curiosi fino ai due contendenti.
- Signori, - disse loro - guardate quante auto avete bloccato, perché non ri-uscite a mettervi d'accordo. Tutta questa gente non ha mica da perdere tem-po!
- Ma che cosa vuoi tu? Fatti gli affari tuoi! - gli rispose uno dei due. - Ades-so arrivano i vigili e vediamo chi ha ragione.
- I vigili - continuò Peppino - faranno la multa a tutti e due, perché uno ha torto e l'altro ha bloccato il traffico.
- Ma che cosa ne sai tu? - intervenne il secondo. - Ho ragione io. Vengo da destra e la precedenza è mia.
- Mi date cento lire, per favore! - chiese Peppino allungando la mano aper-ta.
- Ma levati da qui, altrimenti ti do un ceffone, altro che cento lire! - lo mi-nacciò il primo. - Non è il momento di chiedere elemosina.
- Non mi serve l'elemosina! - rispose Peppino risentito. - Dammi cento lire, poi te le ridò.
Uno tra i presenti tirò fuori cento lire.
- Tieni ragazzo. Sono curioso di sapere quello che vuoi combinare.
Peppino, prese le cento lire, si rivolse gridando anche lui ai due che conti-nuavano a gridare.
- Zitti un momento! Dato per scontato che i vigili faranno la multa a tutti e due, dato che non potete permettervi il lusso di bloccare tanta gente per la vostra presunzione, facciamo testa o croce. Tu testa, tu figura intera. Chi esce parte per primo. Chiaro?
Quei due non se ne davano per inteso, ma qualcuno dietro cominciava a ri-sentirsi e a dire:
- Il ragazzo ha ragione. Decidetevi, altrimenti vi facciamo decidere noi.
- Chiaro? - ripeté Peppino, gridando di nuovo.
Buttò in aria le cento lire, se le fece ricadere sulla mano e ci batté sopra l'altra.
- Chi esce, parte per primo.
Sollevò la mano. Era uscita la figura intera. Aveva vinto l'autista che veni-va da destra.
- Tu, fatti indietro di un pezzetto - disse all'altro.
Quello, a malincuore, perché era convinto di aver ragione, indietreggiò di mezzo metro, sufficiente per lasciar passare la prima macchina e, di seguito, tutte le altre.
Non ci vollero neanche cinque minuti e il traffico riprese scorrevole rego-larmente. Per quando arrivarono i vigili, suonando la sirena a tutto spiano, come se fosse successo chissà che cosa, lì ormai non c'era più nessuno e le auto filavano su e giù alla velocità di sempre.
In cinque minuti Peppino aveva risolto ciò che non si era riusciti a risolvere in mezz'ora di traffico bloccato.


Un uomo disperato



Peppino filava col suo ciclomotore per quella lunga e trafficata strada verso la città, quando fu preso da un bisogno urgente. Non sembrandogli opportu-no fermarsi lì lungo la strada con tanta gente che passava in su e in giù, de-viò alla prima stradina laterale che vide e puntò deciso verso un punto dove c'era una siepe.
Aveva appena soddisfatto la sua necessità, quando vide venire per la stessa stradina una macchina con un uomo al volante. Rimase nascosto, quasi ver-gognandosi di farsi trovare lì e attese che l'auto andasse più lontano. Invece l'uomo si fermò pochi metri più avanti, scese dalla macchina con una corda e uno sgabello nelle mani e si diresse verso un albero in mezzo al campo d'erba appena falciata. Peppino lì per lì non sapeva che cosa pensare e atte-se. Dalla sua postazione poté vedere l'uomo che gettava un capo della corda in alto verso un ramo, la riprendeva, la annodava e faceva scorrere il nodo fino al ramo. Quindi diede uno strattone per sentirne la consistenza, poi salì sullo sgabello che aveva preparato sotto e cominciava a legarsi la corda in-torno al collo. Solo allora Peppino si rese conto di quanto stesse succeden-do: quell'uomo voleva impiccarsi. Gli si drizzarono i capelli in testa e fece la prima cosa che gli venne in mente. Saltò sul motorino, lo accese di corsa e si precipitò come un fulmine verso l'uomo nel momento in cui stava dan-do un colpo di piede allo sgabello. Peppino gli piombò tra le gambe con tut-to il motorino, tanto che l'uomo si ritrovò seduto sul manubrio e si aggrappò istintivamente alla corda, evitando così che stringesse.
- Ma che sei scemo? - gli disse quello. - A momenti mi ammazzi!
- Perché, tu che cosa stavi facendo? - sorrise Peppino, contento di essere ar-rivato appena in tempo. Se fosse corso a piedi, non ci sarebbe riuscito.
- Uno non può neanche mandarsi in pace all'altro mondo! - brontolò l'uomo, slegandosi la corda dal collo e rimettendosi con i piedi per terra.
- Scusa tanto se ti ho interrotto! - esclamò Peppino. - Ma, se posso saperlo, mi dici perché volevi toglierti la vita?
L'uomo si sedette per terra con le mani sulle ginocchia e rimase per qualche momento in silenzio a testa bassa. Peppino sedette accanto a lui.
- Ragazzo, ti ringrazio che mi hai impedito di fare questa pazzia - disse
poi, alzando gli occhi verso di lui.
- Che cosa ti è successo di tanto grave? - gli chiese Peppino per farlo parla-re, perché sapeva che un uomo disperato ha bisogno di sfogare i suoi pro-blemi con qualcuno.
- Sono un fallito e volevo farla finita.
- Fallito in che senso?
- Nel senso che avevo messo su una fabbrichetta, ho firmato un mucchio di cambiali alto così e la fabbrichetta non mi ha dato il risultato che mi sarei aspettato. Sono arrivate le cambiali da pagare e io non ho una lira e non ho niente da vendere di mio per poterle pagare.
- Beh, ma se non hai una lira, di che cosa ti preoccupi? Nessuno t'ammazzerà e nessuno ti metterà in galera.
- Il disonore, lo capisci? Il disonore! Nessuno avrà più fiducia in me. Nes-suna banca mi farà più credito.
- Il disonore è come la paura. Uno ce l'ha perché se lo porta dentro. In fon-do non hai rubato niente a nessuno. Hai fatto una prova e ti è andata male. Puoi sempre ricominciare da capo.
- No...come ti chiami?
- Peppino.
- No, Peppino! Non avrò più la possibilità di realizzare il mio sogno. Non potrò più mettere su una fabbrichetta.
- Scusa eh.....come ti chiami?
- Gerardo.
- Scusa eh, Gerardo, non si campa mica solo con la fabbrichetta! Sei ancora giovane, le mani ce l'hai, puoi lavorare. Non potrai fare il titolare, farai l'operaio. L'importante è lavorare, guadagnare e avere di che vivere tran-quillamente.
- Forse hai ragione, Peppino. Stavo combinando una pazzia irreparabile. Andiamo a bere qualcosa. Il pensiero di quello che stavo per fare mi ha la-sciato lo stomaco di traverso.
- Andiamo! Ti seguo col motorino.
Gerardo si fermò vicino ad un palazzo dove c'era scritto: Caffè Sport.
- Abiti qui? - gli chiese Peppino
- No, abito più avanti. Qui c'è un bar. Andiamo a bere.
Quella fu la prima stranezza della città che Peppino notò. Quando in campa-gna invitava qualcuno a bere, lo portava a casa sua, non a casa d'altri. Co-munque, quella era la città.
Nel bar c'era un sacco di gente e il barista non riusciva a tirare il fiato per servire tutti.
- Dottore, questo caffè è suo. Avvocato, questa è la sua brioche. Geometra, grazie! Mi saluti la sua signora. Ragioniere, beva il suo cappuccino!
Peppino ascoltava strabiliato e non ci capiva niente.
Quando uscirono dal bar, Gerardo gli disse:
- Io, Peppino, ti sarò riconoscente per tutta la vita. Non so come ringraziar-ti. Non ho soldi per poterti pagare. Vorrei però offrirti un pranzo a casa mia.
- Va bene! Ti ringrazio - rispose Peppino. - C'è tua moglie?
- No, vivo solo. Cucino io, se ti fidi - aggiunse con un sorriso.
- So cucinare anch'io, quindi mi fido - rispose Peppino.
Mentre mangiavano un piatto di pastasciutta, Peppino rimuginava dentro i suoi pensieri. Alla fine non ne poté più e sbottò:
- Senti, Gerardo, io non sono pratico della vita di città e di come si parla in città, quindi ti devo chiedere alcune cose.
- Dimmi tutto, Peppino! Se posso aiutarti, eccomi qua.
- Tanto per cominciare, perché la gente, anziché chiamarsi per nome, si chiama con il mestiere che fa?
- Spiegati bene, perché non ho capito.
- Non hai sentito al bar? Dottore, avvocato, geometra, ragioniere... Quelli lì non ce l'hanno un nome? Ci mancherebbe che io dalle mie parti chiamassi uno: boscaiolo, pastore, contadino....."Boscaiolo, senti, mi vendi tre quintali di legna?" Quello mi darebbe una bastonata in testa, dicendomi: "Guarda che io mi chiamo Teodoro!"
Gerardo a sentire questi discorsi, si fece una bella risata, una risata che gli fece dimenticare la brutta decisione che aveva preso il mattino.
- Il fatto è, Peppino, che quelli che hai sentito al bar non sono mestieri, ma titoli di studio e le persone ci tengono a farsi chiamare per titolo di studio. Si offenderebbero, al contrario, se uno le chiamasse per nome, perché il titolo di studio per quelle persone è qualcosa che le fa sentire importanti.
- Ah sì? Questo non lo sapevo. Non sapevo che un titolo di studio ti fa sen-tire importante, mentre un mestiere ti dà fastidio a sentirtelo ricordare. Poi un'altra cosa, Gerardo.
- Dimmi!
- Ho sentito il barista che parlava con uno e si riferiva ad un altro.
- Cioè, cioè? Com'è questa?
- Eh sì, Gerardo. Diceva: "Dottore, questo caffè è suo", cioè diceva al dot-tore che il caffè era di un'altra persona. Oppure: "Geometra mi saluti la sua signora", cioè diceva al geometra di salutargli la moglie di un altro. Ma che modo di parlare è questo, Gerardo?
- Sei forte, Peppino, sei proprio forte! - rispose Gerardo con un'altra sonora risata.
- Perché, scusa?
- Non so come voi parliate lassù nella tua campagna, ma qui in città si dà del lei.
- Si dà del lei a lei, cioè ad una donna?
- No, Peppino, si dà del lei anche ad un uomo.
- Si chiama un uomo come se fosse una donna? - adesso era Peppino che rideva di gusto. - Mi vuoi dire come parlate voi della città?
- Dai, Peppino, è così che si parla oggi. Tu ad un avvocato dici: "Avvocato, lei mi deve fare un favore".
- E l'avvocato capisce che stai parlando con lui?
- Ma certo, Peppino! È così che si parla.
- Siete proprio buffi, eh! Quando a casa litigavo con mia sorella, dicevo alla mamma: "Mamma, è stata lei". Io volevo dire mia sorella, mica mia madre.
- Che cosa c'entra, Peppino! Tra parenti, tra amici ci si dà del tu. È tra per-sone che non si conoscono o che non sono amici che ci si dà del lei.
- Quindi io dovrei dirti lei. " Gerardo, lo sai che lei hai cucinato una buona pastasciutta?" A me, scusa, a parlare così, viene da ridere.
- Infatti non è così che si parla. Dovresti dire: "Gerardo, lo sa che lei ha cu-cinato una buona pastasciutta?". Comunque, mi hai salvato la vita e ci dia-mo del tu.
- Ma scusa, Gerardo! Se io dico: "Lei ha cucinato...." e parlo con te, signifi-ca lei, tua moglie, tua madre, una donna insomma.
- Senti, Peppino, lo so che per te è difficile, ma ora si parla così e se vuoi restare in città, bisogna che ti abitui a dare del lei.
- Ci proverò, Gerardo. Ma mi viene da ridere. Io domando a un signore: "Lei mi dice che ora è?" Lui mi risponde: "Perché lo domandi a me, allora. Fattelo dire da lei". Potevate almeno dare del lui ad un uomo e del lei ad una donna. Io mi ci sbaglio, Gerardo, lo vuoi capire?
- Comunque, Peppino, non fartene un problema. Se ti sbagli, non ti picchia nessuno.
Quando Peppino, tra mille ringraziamenti, salutò Gerardo e se ne andò, gli rimase in testa quel problema: dover chiamare lei sia un uomo che una don-na.


La città degli sconosciuti

Cominciò la grande città. Dapprima era una fila di tante case a destra e a si-nistra come un paese lungo lungo che non finiva mai, come non finiva mai l'andare su e giù frenetico e assordante delle auto, che correvano tutte ad una velocità pazza. Sembrava che quelle di dietro inseguissero quelle da-vanti senza badare agli altri, a quelli che andavano a piedi, a quelli che era-no costretti ad attraversare: dovevano farlo di corsa per non essere investiti, perché le auto non davano segno neanche di voler rallentare. Peppino stesso era costretto a tenersi quasi appiccicato al marciapiede col motorino per paura di essere trascinato via. Lì incontrò la sua prima delusione, capì che in città doveva rinunciare alle sue idee, perché quella paura, la paura di essere investiti da un'automobile in corsa sfrenata, non si poteva vincere.
Quando poi cominciarono incroci con semafori, sembrava il finimondo. Col rosso era una lunghissima fila di auto bloccate, tutte con il motore acceso, con qualche accelerata frenetica di tanto in tanto, come tanti cavalli tenuti a freno a fatica prima della partenza. Appena scattava il verde, quella fiumara assordante si metteva in movimento, chi diritto, chi a destra, chi a sinistra e altrettanto dalla parte opposta, tanto che Peppino si trovò stordito, spaventa-to, quasi terrorizzato col suo minuscolo motorino in mezzo a tanti giganti della strada, per cui si disse: "Basta!!"
Si fermò da un lato, saltò dalla sella e spinse in basso il cavalletto con la scarpa. "È meglio camminare a piedi" - si disse ancora. Ma, infilate le mani in tasca, aveva fatto appena pochi passi, quando si sentì richiamare:
- Ehi, tu!
Si voltò. Era un vigile. Peppino lo guardò e indicò con il dito se stesso:
- Dici a me?
Sì, dico a te! Qui non ti puoi fermare.
- Perché? - chiese incredulo.
- Non hai visto il segnale?
- Il segnale! Quale segnale?
- Quello! - e gli fece notare un cerchio di lamiera fissato ad un palo con il bordo rosso e una striscia di traverso sempre rossa, tra due mezze lune blu. - Divieto di sosta.
Peppino ci gettò uno sguardo e pensò: "In questa città hanno inventato an-che i segnali per non farti fermare".
- Dove c'è un posto per fermarsi?
- Dove ti pare, ma non qui - e gli voltò le spalle.
Rimontò a cavallo del suo motorino, lo rimise in moto e partì alla ricerca di un posto dove non c'era quel segnale. Più avanti vide una piazzetta isolata, vi si diresse, occhiò in giro se per caso vi fosse il segnale maledetto: no, non c'era. Stessa operazione, però prima di avviarsi, voleva essere sicuro. Vide un uomo e glielo chiese:
- Che si può lasciare qui il motorino?
- Sta' attento però che te lo fregano - rispose l'uomo.
- Me lo fregano! E chi?
- Quelli che rubano i motorini.
- Perché li rubano.
- Domandalo a loro. Che vuoi che ne sappia io!
- E dove c'è un posto dove non lo fregano?
- Laggiù c'è un posteggio custodito.
Rimontò a cavalcioni e ripartì. Ma laggiù, per lasciare il motorino custodito, dovette pagare. Se ne andò in giro un po' deluso, intanto rifletteva per conto suo: "Quant'è complicata questa città! In un posto non lo puoi lasciare, in un altro te lo fregano e in un altro ancora devi pagare". Intanto che pensava tra sé, si guardava anche in giro. C'erano tante macchine che andavano su e giù, ma c'erano anche tante persone che camminavano a piedi. Quello che lo meravigliò fu il fatto che queste persone andavano tutte a passo svelto, a testa bassa, non sorridevano e non salutavano nessuno, come se ciascuno si sentisse solo, come se ciascuno non vedesse tutti gli altri, come se per cia-scuno gli altri non esistessero. Per cui gli venne da pensare: "Questa mi pare la città degli sconosciuti": Sì, perché dalle sue parti era tutt'altra cosa. Tutti si conoscevano, tutti si sorridevano, tutti si salutavano.
Ma successe che, cammina che ti cammina, osserva di qua e osserva di là, ad un certo punto provò lo stesso stimolo come era gli successo per la stra-da, uno stimolo che si faceva sempre più urgente. In poche parole gli scap-pava di fare la pipì. E allora si guardò intorno e si domandò spaventato dav-vero: "Dove vado adesso?" In mezzo a tante case, tra tutte quelle automobi-li, tra tutte quella gente non se la sentiva davvero di farla. Se fosse stato dal-le sue parti, era un attimo: andava dietro una siepe o in mezzo ad un bo-schetto, oppure lì tra i campi, tanto non passava nessuno. Ma in città, ad uno che gli scappa, come deve fare? Poi si rassicurò: "Anche a quelli di città scapperà qualche volta. Essi lo sapranno dove si deve andare". Si stava av-vicinando una signora, ma a chiederlo ad una donna si vergognava, così aspettò che gli passasse vicino un uomo.
- Signore, scusa, lei lo sai dove si fa la pipì?
Quello lo guardò serio, quasi offeso, poi gli rispose a tirar via:
- Ai gabinetti pubblici. Cento metri a destra.
- Grazie! - rispose. Intanto si avvide che le ginocchia, per l'urgenza pres-sante, cominciavano ad agitarsi per conto loro. Cento metri a destra, aveva risposto quello. Doveva fare cento metri, poi girare a destra, o girare a de-stra, poi fare cento metri? Vedendo una via laterale a pochi metri, decise e di corsa, per la seconda soluzione. Infatti gli apparve una bella scritta in grosso: "Gabinetti" e una scala che scendeva. "Meno male che si va sotto terra, così non mi vede nessuno!" - pensò. Ma in fondo alle scale c'erano due donne. "Perché mettono due donne a vedere che uno va a fare la pipì?" - si chiese sconsolato. Tentò di passare a testa bassa, nascondendo il suo ros-sore, ma la voce di una lo bloccò:
- Giovanotto, si paga!
- Eh?
- Si paga. Con la carta o senza carta?
Che cosa ne sapeva lui se in città la pipì si faceva con la carta o senza la car-ta? Ci pensò un attimo e rispose:
- Senza.
- Cinquecento lire.
Si fece ardito e, nel tirar fuori le cinquecento lire, domandò:
- E a fare la pipì con la carta, quanto si paga?
Quelle due si misero a ridere forte, poi una rispose, sempre ridendo:
- Con la carta, mille lire.
Andò di fretta lungo il corridoio sotterraneo, perché lo timolo premeva sem-pre più forte. In fondo c'era una porticina chiusa con disegnato un pupaz-zetto e accanto un'altra con disegnata una specie di donna. Entrò nella porti-cina con disegnato il pupazzetto. Si sentì rinascere dopo essersi liberato del liquido superfluo. Uscì e, da ragazzo educato, voleva anche lavarsi le mani. Guardò lungo la parete di mattonelle bianche smaltare: c'era sì un lavabo con la cannella curvata in giù, ma senza rubinetto e l'acqua non veniva. No-tò pure lì accanto una specie di scatola rovesciata con il buco sotto, senza capire che ci stesse a fare. Inoltre non vide né l'asciugamano, né quella carta che si usa adesso. "Ora mi sentono!" - si disse innervosito e andò dritto dalle donne:
- Signore, scusare, eh! Fate pagare per andare a gabinetto, ma se uno vuole lavarsi le mani, come fa, se c'è la cannella senza rubinetto e l'acqua non viene? E non c'è neanche l'asciugamano.
Quelle due si misero a ridere ancora forte, che lo fecero rimanere male. Poi una smise di ridere.
- Tu certamente non sei di città - disse. - Se metti le mani sotto la cannella, l'acqua esce da sola, poi le tieni aperte sotto l'erogatore e te le asciughi con l'aria calda.
Provò a fare come la donna aveva suggerito: poté lavarsele, poi asciugarle con l'aria calda, ma non era la stessa cosa che usare l'asciugamano. Gli sembrava di averle sempre bagnate, tanto che finì per passarsele giù per i pantaloni.
- Allora sei riuscito a lavartele? - chiese la donna ridendo.
- Sì, grazie! Buongiorno!
Peppino risalì le scale ancora tutto rosso e intanto si chiedeva: "Che li hanno inventati a fare tutti questi trucchi? Uno il rubinetto non se lo può aprire da solo? O forse è così per chi non ha le mani per aprirlo. Ma allora sono pro-prio scemo! Se uno non ha le mani per aprire il rubinetto, non ha neanche le mani per lavarsele". Gli rimase dentro quel dubbio, mentre continuava il suo giro della città, nella quale si sentiva sperduto e spaventato. Tuttavia voleva vincere anche quella paura.



La città degli affamati

Quello che meravigliò maggiormente Peppino, continuando il suo giro a piedi per la città, fu il vedere la tanta gente che chiedeva l'elemosina.
Ad un semaforo ragazzetti che stendevano la mano a tutte le macchine fer-me nell'intervallo del rosso. Più avanti una zingaretta con un neonato tra le braccia, faceva altrettanto. Poi una vecchia seduta sul marciapiede con un cartello: "Non ho da mangiare. Sono senza casa. Aiutatemi!" e il piattino lì accanto. E ancora un ragazzetto seduto vicino al supermercato con un ca-gnolino per intenerire i passanti e il piatto di plastica in terra con qualche moneta, tanto che a Peppino venne da pensare: "Questa mi sembra la città degli affamati!" Come se ciò non bastasse, ad ogni incrocio e in ogni vico-letto erano appostati giovani tutti neri con la loro cassetta di legno ricoperta di nastro adesivo marrone, piena delle loro cianfrusaglie, che insistevano nell'offrire la loro mercanzia a tutti quelli che passavano nelle vicinanze. Però alcuni facevano finta di non aver sentito, altri si limitavano a risponde-re con un cenno negativo di mano, raramente qualcuno si fermava per con-trattare.
Uno di questi venditori si rivolse anche a Peppino:
- Capo, prendi qualcosa!
Non poteva essere lui il capo. Si voltò infatti per vedere se per caso ci fosse un uomo dietro. Non c'era nessuno.
- Capo, prendi qualcosa! - ripete quello.
- Dici a me? - chiese Peppino.
- Sì! Prendi qualcosa. Devo mangiare.
- Tutti dobbiamo mangiare, amico mio.
- Tieni, prendi questa cassetta. Molto bella, di cantante famoso.
- Che me ne faccio? Io a casa non ce l'ho neanche quell'affare, come si chiama, il registratore. E se non ho il registratore, che la compro a fare?
- Prendi quest'accendino, allora!
- Non mi serve. Io non fumo.
- Dai a me almeno mille lire!
- E tu in cambio di mille lire, che cosa mi dai?
- Per mille lire io a te non dà niente.
Peppino ci pensò un po'. Come era successo per la strada con la ragazzina fuggita da casa, anche quel giovane lì tutto nero era un mondo che voleva scoprire, un mondo che voleva conoscere.
- Senti, amico, sai che cosa facciamo? Dato che ho fame anch'io, vieni con me. Ti offro una pizza e parliamo un po'.
Sedettero al tavolino davanti ad una pizzeria. Si avvicinò il proprietario e li guardò con espressione poco cordiale, vedendo di fronte a sé un negro e un ragazzetto tutto pelle e ossa.
- Che cosa volete? - chiese serio.
- Due belle fette di pizza - rispose Peppino sorridente.
- Che tipo di pizza? - chiese di nuovo allo stesso modo.
Per Peppino risultava una domanda strana.
- Una pizza che uno mangia quando ha fame - rispose tranquillamente.
- Non faccia lo spiritoso. La vuole al prosciutto, margherita, quattro stagio-ni?... Come la vuole?
Anche qui Peppino dovette riflettere. Il prosciutto sapeva che cos'era. Mar-gherita! In una città, non si poteva mai sapere. Poteva essere con le marghe-rite sopra e lui le margherite non le aveva mai mangiate. Quattro stagioni! Sapeva benissimo che le stagioni sono quattro, ma non gli andava che ci fossero sopra i fiori di tutte e quattro le stagioni messe insieme. Volle stare sul sicuro.
- Al prosciutto - rispose.
- Si paga subito - precisò il proprietario.
Peppino chiese il costo, quello glielo disse e pagò, senza mancare di ag-giungere:
- Che sia subito anche il servizio!
- Lo sai perché a te ha fatto pagare prima? - gli chiese il giovane nero.
- L'ho capito, l'ho capito! Credi che non l'abbia capito? - rispose subito.
- Perché tu sei con me negro - volle spiegare.
- A proposito, come ti chiami? Io mi chiamo Peppino.
- Il mio nome è Fransuà.
- Fransuà? E che nome sarebbe?
- È un nome francese. Si dice Fransuà, ma è scritto così.
Prese un foglietto e scrisse: "François".
- Francois? - fece Peppino. - E perché si dice Fransuà?
- Perché in francese è così. Tu non hai studiato?
- Io no. Ho fatto solo le elementari. Che cosa significa quel nome?
- In italiano è Francesco.
- E allora chiamati Francesco, no? Non sei in Italia?
- Se a te va bene, chiama pure me Francesco.
Intanto erano arrivate le pizze, calde, fumanti e gustose già ai primi morsi.
- Buon appetito, Francesco! - disse Peppino.
- Buon appetito a te anche, Peppino! - rispose François.
- Tu sei francese? - chiese il giovane montanaro, dopo aver ingoiato il pri-mo boccone.
- No! Vengo dallo Zaire.
- Che paese è? Dove si trova? - chiese ancora curioso.
- Africa centrale - rispose il ragazzo nero.
- Vieni da così lontano! E come mai sei venuto in Italia?
- Perché lo vuoi tu sapere?
- Perché a me piace conoscere la vita delle altre persone. Ti ho offerto la pizza, perché mi devi raccontare di te. Allora: come vivevi prima? Quando, come e perché sei venuto in Italia?
- Per favore tu fai una domanda alla volta.
- Benissimo! Prima domanda: come vivevi dov'eri prima?
- Ti ho detto che vivevo in Zaire. È terra molto grande, molto calda, con tante foreste, tanti animali feroci, tanti fiumi. La fiume più grande...
- Il fiume...
- Tu hai ragione. Il fiume più grande è il Congo. Io facevo il paisano...
- Il paisano? Che cosa significa?
- Come si dice: coltivare terra.
- Contadino. Facevi il contadino? Anch'io faccio il contadino. Allora siamo colleghi.
- Anche tu lavori terra? Bene! Allora colleghi.
- A me piace fare il contadino - precisò il ragazzo di campagna. - A te non piace?
- Contadino da noi non come qui. Qui vivere bella casa, lavorare con tratto-ri. Da noi vivere capanne, lavorare con zappa. Molto caldo. Molto pericolo animali feroci.
- Beh, certo! Se è così, hai ragione! - confermò Peppino. - E poi?
- Poi cose brutte. Maggio 1990 nostro presidente Mobutu fatti uccidere molti studenti da esercito a città Lubumbashi, perché volevano scuola più buona. Anche mio fratello ucciso. Dopo, iniziata fame, dopo ancora, fine 1991 militari ribellati, guerra in Zaire, io fuggito in Congo. Allora pagato molto e imbarcato su nave con promessa lavoro in Francia, ma da Francia fuori. Così io arrivato in Italia.
- E adesso come vivi?
- Vendo questo, ma vendo poco. Italiani comprare poco. A Italiani non pia-cere negri.
Peppino ci rifletté un po' prima di rispondere.
- Tu, Francesco, forse hai ragione. Ma devi anche capire. Specialmente in città ci sono tanti negozi che vendono le stese cose. Per esempio, uno ti compera una cassetta di musica. Va a casa e non funziona. Dove ti viene a cercare? Deve buttarla via. Invece, se la compra in un negozio e non funzio-na, ritorna e se la fa cambiare. Capisci la differenza? Poi dici che agli Italia-ni non piacciono i negri. Anche qui puoi avere anche ragione. Ma devi capi-re che ci vuole un po' di tempo per abituarsi al diverso colore della pelle. Se un bianco facesse al tuo paese quello che voi fate qui, credo che sarebbe la stessa cosa. Ci vuote tempo e pazienza per abituarsi a tutte le cose diverse. Invece il problema è un altro. Se tu vendi poco, come riesci a vivere? Ti ba-sta per mangiare quello che guadagni?
- Poco, Peppino. Poco! Mangiare quando e come capita. Un giorno due vol-te, un giorno una volta sola, un giorno niente.
- Capirai che bella vita! E per dormire? Dormi in una pensione, in un alber-go?
- Pensione, albergo, dici? Vuoi tu vedere?
- Va bene! Se vuoi, fammi vedere dove dormi.
Avevano finito di mangiare la pizza. François prese sotto braccio la sua cas-setta e s'avviò, seguito da Peppino. Percorsero una via principale, poi ne imboccarono una laterale e infine una viuzza tra case vecchie e cadenti. En-trarono quindi in un cancello mezzo aperto e sgangherato, rimasto lì così da chissà quanto tempo con tutta l'erbaccia che era cresciuta intorno e si trova-rono in un cortile abbandonato con ammucchiati qua e là tavole e macchina-ri di ferro arrugginito, quasi completamente ricoperti da rovi e da ortiche. In fondo al cortile si alzava un caseggiato ormai in rovina, che doveva essere stato una fabbrica, non si capiva di che cosa. Tutti i vetri erano rotti, le fine-stre scardinate, il tetto in parte sfondato.
- Qui si entra - disse François, scavalcando l'apertura di una bassa finestra che non esisteva più, invitando Peppino a fare altrettanto.
Si trovarono in un corridoio buio e puzzolente pieno di calcinacci e immon-dizie varie, e infine sbucarono in uno stanzone.
- Questo è nostro albergo - disse il giovane negro, fissando Peppino. - Ci abitiamo in cinque.
A terra, lungo le pareti, erano ammucchiati coperte e indumenti vari. Le pa-reti nude, mostravano le ferite del tempo: scrostate in più parti, solo qua e là resisteva qualche macchia di intonaco annerito dal fumo. Sì, perché lo stesso stanzone era adibito anche a cucina. Su alcune cassette infatti, un fornelletto a gas, lurido e unto di grasso, indicava che era stato usato di tanto in tanto. Per il resto del pavimento sporcizie, cartacce, rifiuti di verdure e altro mate-riale in decomposizione. Peppino rimase allibito e sconcertato, tanto che non poté fare a meno di esclamare:
- Dormite qui in questo schifo? Non è possibile! La stalla delle mie mucche è molto più pulita e molto più confortevole. Ma d'inverno, quando fa fred-do, come fate?
- Qualche volta noi andiamo alla stazione. Ma anche lì in troppi. Non c'è posto per tutti. Se poi arriva polizia, manda noi fuori.
- Anche se nevica?
- Anche se nevica.
- Andiamo via, Francesco. Questo posto mi fa impressione - disse Peppino e uscì, perché quell'ambiente così come si presentava e con il fetore che c'era, gli dava la nausea.
Mentre abbandonava quel luogo di desolazione, nella sua mente i pensieri si accavallavano ai pensieri: "Com'è possibile che una grande città, piena di palazzi, di belle case, di negozi eleganti, con tanta gente ricca, con tante macchine lussuose, possa nascondere dentro di sé una miseria così penosa? Com'è possibile che persone straniere venute da fuori con la speranza di un lavoro, non abbiano di che mangiare e dormano peggio delle bestie?" Si ri-volse allora al giovane africano:
- Senti, Francesco, vendimi una cassetta! Può darsi che uno di questi giorni mi comperi il registratore.
- Quale vuoi, Peppino?
- Una qualsiasi. Non ha importanza.
Il giovane zairese gliene diede una e Peppino pagò con diecimila lire.
- Non ho da darti resto, Peppino.
- Non importa, Francesco. Me lo darai la prossima volta che c'incontriamo.
- Grazie, amico! È la cena per questa sera.
Si strinsero la mano e Peppino andò per la sua strada, ma fatti pochi passi si voltò:
- Francesco!
- Che c'è, Peppino, vuoi il resto?
- No! Volevo dirti. Sicuramente sei un bravo contadino o un paisano, come dici tu. Se ti stufi di questo mestiere, vieni su dalle mie parti, verso la mon-tagna. Lassù da fare il contadino lo trovi di sicuro e il mangiare c'è tutti i giorni. Per dormire troverai molto meglio di quello schifo dove passi la not-te.
- Ci penserò, Peppino. Ci penserò!
Un cenno con la mano e il ragazzo montanaro continuò a camminare, con la testa piena di pensieri.


La paura di invecchiare

I pensieri di Peppino vennero interrotti dal primo attraversamento pedonale, un attraversamento che veniva comandato da un semaforo. Ma si vede che si era imbattuto nel semaforo sbagliato perché, mentre dava il verde per i pe-doni, dava anche il verde per le auto che provenivano da una via laterale, di modo che tentava, arrivava a mezza carreggiata, poi era costretto a retroce-dere per paura di essere investito. Si accorse però che non era il solo in quel-la scomoda posizione. C'era un vecchietto accanto a lui, curvo, malfermo sulle gambe con il bastone in una nano e la borsa della spesa nell'altra, che era letteralmente disperato. I suoi passi incerti non erano in grado di compe-tere con le auto e rimaneva lì, lasciando che più volte il verde si alternasse al rosso. Ma nessuno si curava di lui. Ognuno, appena intravedeva la possibili-tà di attraversare, calcolando la velocità dei suoi passi con la distanza dell'auto successiva, sgambettava veloce sulle striscie ed era dall'altra parte. Il vecchietto no. Non era in grado di sgambettare veloce come gli altri e le auto gli passavano davanti inesorabilmente.
Ad un certo punto a Peppino fece pena, una pena che superò la sua stessa paura.
- Ti posso aiutare? - domandò.
Il vecchio dapprima lo guardò con sospetto, poi accettò l'offerta con un filo di speranza.
- Dammi la borsa e aggrappati a me - gli disse Peppino.
Altro sguardo sospettoso e infine gliela diede. Era una borsa anche abba-stanza pesante.
- Andiamo! - disse ancora Peppino.
L'anziano signore gli mise una mano sulla spalla e si affidò a lui. Peppino, allungando la borsa come una paletta rossa, attraversò deciso, pur seguendo i passi lenti del vecchietto e indusse l'auto che proveniva a fermarsi per la-sciarli passare. Come furono dall'altra parte, l'anziano fece un sospiro di sollievo.
- Te ne sono veramente grato - gli disse e tirò fuori con la mano che gli tremolava il portafogli dalla giacca. Sfilò una banconota e la porse a Peppi-no, il quale era convinto che la volesse cambiare.
- Mi dispiace, ma non ho spicci. Con quelli che avevo - sorrise - ho pagato il posteggio per il motorino.
- Non devo cambiarla. È per te - precisò il vecchio.
- In che senso? - chiese Peppino meravigliato.
- Per avermi aiutato ad attraversare. Te la meriti.
Peppino si fece una risata:
- Perché, in questa città si paga anche per attraversare la strada?
- Prendila! È per te - insistette il vecchio.
Peppino si alterò un po':
- Senti, buon uomo, che mi vuoi offendere? Pensi che io mi faccia pagare per aiutare una persona anziana ad attraversare la strada? Ma che scherzia-mo? Anzi, se vuoi, ti accompagno a casa. Abiti lontano?
- No, lungo questa via - gli rispose, riponendo la banconota e guardandolo ancora con maggiore sospetto, per la proposta di volerlo accompagnare a casa. Peppino se ne accorse, camminandogli a fianco:
- Vedo che mi guardi in modo un po' strano. Mi spieghi perché?
- No, niente!
- Come niente! Ti vedo, sai? Mica sono scemo!
- Niente, non farci caso! - ripeté il vecchietto.
Salirono al terzo piano con l'ascensore. Il signore anziano non era del tutto tranquillo e rispondeva al sorriso di Peppino con un sorriso forzato. Entra-rono nel piccolo appartamento. Peppino depose la borsa della spesa sul tavolo, ma volle precisare:
- Intanto mi devi scusare perché dovrei dirti lei, ma io non ne sono capace. Dalle mie parti, su verso le montagne, ci diciamo tutti tu e dire lei non mi viene. Però mi devi pure spiegare perché mi guardi in quel modo strano, come se io fossi un ladro o un delinquente.
- Allora....come ti chiami?
- Peppino.
- Allora, stammi a sentire, Peppino. Per il fatto di darmi del tu, non ti preoccupare. Mi fa anche piacere. Mi sembra di parlare con un nipote. Che ho avuto un po' di sospetto, è vero e mi devi scusare. Forse noi di città ab-biamo una mentalità sbagliata, ma quando uno fa qualcosa per niente, si ha sempre paura che ti voglia fregare. Sai, ne succedono tanti di fatti. Qualcu-no, con la scusa di aiutarti a portare la borsa della spesa, se la dà a gambe e rimani senza niente. C'è gente che fa finta di aiutare qualche anziano, lo ac-compagna a casa, poi gli ruba la pensione e tutto quello che ha. Viviamo in un mondo cattivo, purtroppo!
- Ah! Pure questo succede?
- Succede pure questo. Ma ho capito che tu sei un bravo ragazzo.
- Certo....come ti chiami tu?
- Fausto.
- Certo, Fausto, che in città di paure ce ne sono tante. Paura del traffico, paura dei ladri e chissà quante altre.
- Tante altre, Peppino! Ma, ascolta: almeno mi puoi fare compagnia e cena-re con me? O ti offendi anche di questo?
- No, no! Anzi, mi fa piacere.
- Non sarò un gran cuoco....
- Ah, se vuoi, posso cucinare io. Un pochino me ne intendo.
- Sai anche cucinare?
- Eh sì! Fin da quand'ero piccolo. I miei genitori andavano a lavorare nei campi e mi affidavano il compito di preparare il pranzo.
- Allora, caro Peppino, la cucina è tua! Guarda in giro quello che c'è e pre-para quello che vuoi. Ti dispiace se intanto mi distendo un po' sul letto? Sai, queste mie gambe che di strada ne hanno fatta tanta, cominciano ad essere stanche di portarmi a spasso.
- Riposa tranquillo, Fausto. Quando è pronto ti chiamo.
Peppino, rimasto solo, trafficò nel frigorifero, guardò nel mobile e trovò tut-to il necessario. Trattandosi della cena e per una persona anziana, volle stare leggero, così preparò una minestrina, un po' d'insalata e due fettine al san-gue. Apparecchiò ben bene la tavola, poi bussò alla porta della camera ed esclamò sorridente:
- Fausto, la cena è servita.
L'anziano signore fu contento di trovare tutto bell'e preparato, con il piatto della minestra fumante sul tavolo.
Mentre mangiavano, Peppino tornò alla carica:
- Quali sono, Fausto, le altre paure di questa città?
- Una, ragazzo mio, è la paura di invecchiare.
- Paura di invecchiare? Perché? Forse perché temi la morte che si avvicina? Ma la morte può capitare a tutte le età.
- No, Peppino! Non è la paura della morte. Anzi, alle volte, presi dalla di-sperazione, ci si augura che arrivi prima possibile.
- Questo no, Fausto! Non bisogna mai augurarselo. Perché si arriva a tanto?
- Perché quando si è raggiunta una certa età, quando non si è più utili a nes-suno, nessuno ti considera più.
- Non è possibile!
- È così, purtroppo! Finché si hanno forze sufficienti, i figli ti considerano ancora e ti affidano i nipoti da curare. Poi anche i nipoti crescono, i figli so-no presi dalle loro necessità quotidiane e il vecchio rimane solo. Rimane so-lo per tutto il tempo che può tirare avanti e quando non è più in grado di far-lo, finisce a vegetare in un ricovero, tra tanti altri anziani, ad aspettare la morte tutti insieme. Perché il ricovero, caro Peppino, è come una sala d'aspetto, in attesa di chiudere gli occhi per sempre.
- Mi dispiace, Fausto, che in città le persone anziane vengano lasciate sole. Da noi, lassù verso la montagna, il nonno vive in casa, sta assieme ai figli e ai nipoti, dove tutti gli vogliono bene, dove tutti si preoccupano di lui.
- Non è più come una volta, ragazzo mio! Anche in città prima era così. Ora le esigenze sono diverse, le cose sono cambiate e presto cambieranno anche dalle tue parti.
- Spero proprio di no! Spero che quando sarò vecchio io, non succederà co-sì. È questa dunque la paura di invecchiare?
- È questa, Peppino! Noi anziani abbiamo paura, perché se ci capita qualco-sa, se ci sentiamo male all'improvviso, non c'è nessuno a darci una mano. Non lo senti alla televisione? Anziani ritrovati morti dopo due mesi. Che dobbiamo morire, lo sappiamo, ma sapere di dover morire senza nessuno vi-cino, magari tra atroci dolori, perché uno, poniamo, si rompe una gamba e non riesce neanche ad alzarsi per raggiungere il telefono, caro Peppino, è un pensiero che picchia continuamente qui, nella mente.
- Ma tu, Fausto, sei sempre solo? Non c'è mai nessuno che viene a farti compagnia, che viene a darti una mano?
- Sì, tre volte alla settimana il Comune mi manda una signora, molto gentile del resto, che mi cucina, mi lava, mi stira, mi va anche a fare la spesa, ma di notte sono sempre solo. Un'altra sofferenza, Peppino, è il vuoto che ci sen-tiamo dentro. Anche noi anziani abbiamo bisogno di un po' di affetto. Sia-mo come i bambini, che vogliono sentirsi amati, coccolati, considerati. Non ci crederai, ma il fatto che tu questa sera sei con me, che ti sei interessato a me, che mi hai fatto compagnia, oltre ad aver preparato questa squisita ce-netta, mi ha reso felice. Sì, Peppino, mi ha reso proprio felice!
- Senti, Fausto, io non ho fretta. Anzi, ho intenzione di fermarmi qualche giorno in questa città, perché voglio studiarmela bene. Se vuoi, resto a dor-mire e domani ti vado anche a fare la spesa. Naturalmente con i miei soldi. Mangio anch'io e non è giusto che tu debba pagare tutto.
- Resteresti davvero, Peppino, qualche giorno con me?
- Certo, Fausto! Se vuoi, resto qualche giorno.
- Guarda, sono così contento, che ti lascio il mio letto. Dormo io sul divano.
- Di questo non se ne parla neanche. Sono così piccolo, che mi è sufficiente anche una poltrona.
Quella notte l'anziano Fausto dormì molto rilassato, senza dover ricorrere ai tranquillanti come era solito fare tutte le sere.

Giovani senza futuro

Il mattino dopo Peppino andò a fare la spesa come aveva promesso al vec-chio Fausto poi, saputo che quello era il giorno in cui il Comune mandava la signora ad accudirlo, gli disse:
- Senti, visto che oggi hai compagnia, vorrei approfittare per conoscere me-glio questa città.
- Ritorni per il pranzo?
- No, non importa. Dato che hai chi ti cucina, me ne sto un po' in giro.
- Però questa sera ritorni?
- Certo che ritorno! Se ti fa piacere, ritorno.
- Si capisce che mi fa piacere. Non immagini quanto!
- Ah! Senti, Fausto, non c'è da queste parti un posto senza traffico, un posto dove possa godermi un po' di quel verde che ho lasciato lassù vicino alle montagne?
- Certo, Peppino! C'è il parco pubblico.
- È lontano da qui?
- Eh, un pochino sì! Saranno un paio di chilometri.
- Allora mi conviene andare a prendere il motorino. A questa sera, Fausto!
- A questa sera, Peppino! E grazie ancora!
Quando Peppino andò a ritirare il suo scooter, trovò una sorpresa. Il posteg-giatore gli fece pagare quattro volte quello che aveva pagato il pomeriggio.
- Che ha consumato il terreno? - chiese Peppino ridendo di rabbia.
- Non sai leggere? - gli rispose freddamente il posteggiatore. - Guarda lì la tariffa. Hai pagato per tre ore. È passato tutto il pomeriggio e tutta la notte. Che cos'è che vai cercando?
Chissà perché, in quella città tutti si rivolgevano a lui in modo sgarbato!
- Niente! - rispose. - Era tanto per sapere. Mi sai dire almeno dov'è il parco pubblico?
- La seconda traversa a destra. Vai diritto per circa un chilometro e mezzo. Quando vedi la freccia, la segui e dopo tre o quattrocento metri trovi il par-co.
Almeno era stato cortese nel dargli l'indicazione.
- Grazie! - rispose Peppino. Un colpo di pedale e partì scoppiettando.
Seguendo le indicazioni della freccia, si trovò davanti un grande spazio ver-de, tutto pieno di alberi, ma circondato da un'alta rete. Cercò il cancello e trovò pure un'altra sorpresa: dovette pagare ancora per posteggiare il moto-rino. "In questa città - sbottò tra sé - si paga anche l'aria per respirare. Ecco perché le automobili corrono sempre. Se si fermano, devono pagare".
Varcò il cancello del parco. Era veramente un posto magnifico: panchine da per tutto, all'ombra degli alberi, un bel laghetto protetto intorno da una rete, sicuramente perché qualche bambino non cadesse dentro. In mezzo al la-ghetto, tra cascate di salici piangenti, scivolavano silenziosi bellissimi cigni bianchi e anatre di diversa forma e di diverso colore. Ma quello che lo me-ravigliò maggiormente fu il vedere la gran tanta gente che c'era, gente di tutte le età, dai bimbetti appena nati in carrozzella con le loro mamme, ad anziani signori che passeggiavano conversando o leggevano il giornale se-duti su qualche panchina. Là in fondo si vedeva un campo di pallavolo con due squadre che si sfidavano e intorno altra gente che assisteva, facendo il tifo per l'una o per l'altra squadra. C'erano pochi bambini a quell'ora, im-pegnati sicuramente a scuola, ma molti giovani, chi da soli, chi in gruppo che chiacchieravano o che scherzavano tra di loro. Anche Peppino si sedette su una panchina: "Finalmente posso godermi un po' di tranquillità, senza il frastuono delle auto! " sospirò.
Mentre era lì seduto, gli passò davanti un giovanotto in tuta che andava di corsa. "Avrà fatto tardi. Forse deve prendere l'autobus" - pensò Peppino.
Poco dopo gliene passò davanti un altro, sempre di corsa. Costui si fermò un attimo, tirò due o tre forti respiri, sventolando le braccia su e giù, poi riprese a correre. "Avrà fatto tardi anche questo" - pensò ancora Peppino.
Lì e poco, eccoti un altro giovanotto che correva anche lui, quattro respiri, su e giù con le braccia e via a correre. "Che cosa è successo stamattina, che hanno tutti fretta? - si domandò ancora una volta Peppino.
Ma la sua meraviglia non era finita. Ti vide un altro giovanotto che correva, ma dal colore e dalla forma strana della tuta, riconobbe in lui quello che era passato per primo. "Ma come, ancora corre? - si chiese - È passato qui poco fa e ripassa di nuovo? Dov'è andato così di corsa e dove sta andando di nuovo?"
Aveva una voglia pazza di spiegarsi questo mistero. Finalmente uno di quei corridori si sedette su una panchina poco lontano da lui. "Adesso glielo chiedo" - si disse. Si alzò e si avvicinò a lui.
- Che mi posso sedere?
- Siediti! Che m'interessa. Mica mi fai ombra.
Peppino lo guardò. Era tutto sudato e ansante, come se avesse falciato mez-zo campo.
- Senti, scusa. Mi chiamo Peppino.
- E io Giorgio. Che cosa vuoi?
- Io non sono di questa città. Vengo da lassù vicino ai monti e molte cose di qui non le capisco. Ti dispiace se ti chiedo qualcosa?
- Chiedimi quello che ti pare! Che m'importa! Se lo so, ti rispondo, se non lo so, non ti rispondo.
- Per esempio, ho visto che correte tutti così tanto. Dov'è che andate con tanta fretta?
- Ma quanto sei scemo! Non andiamo da nessuna parte. Facciamo footing.
- Che lavoro è?
Quello, prima lo guardò storto, poi si fece una grande risata:
- Si vede che vieni dalla montagna.
- Scusa, se non l'ho mai sentito!
- Footing significa correre. Noi dunque corriamo.
- Questo l'ho capito. Non ho invece capito perché correte. Dalle mie parti si corre quando si deve andare in fretta in qualche posto, quando uno deve sbrigarsi a prendere la corriera, o se ti ha chiamato qualcuno, perché sta par-torendo una vacca.
- Noi invece corriamo solo per correre, per fare allenamento.
- Allora c'è un motivo. Vi allenate per fare che cosa?
Si capiva che stava per perdere la pazienza:
- Ma per fare niente. Per tenerci in forma, per essere più atletici.
- Per fare che cosa? - insistette Peppino.
- Insomma, corriamo e basta! - aveva perso la pazienza. Però Peppino non aveva perso la curiosità.
- Questo è il vostro lavoro? Siete pagati bene?
- Ma smettila di dire scemate! Non è un lavoro. Lo facciamo proprio perché non abbiamo un lavoro.
- Così grandi e grossi non lavorate?
- Come facciamo a lavorare, se il lavoro non c'è. Perché, dalle tue parti c'è il lavoro?
- Dalle mie parti ce n'è fin troppo. Ci sono le bestie da custodire, ci sono i campi da coltivare e dentro casa c'è sempre qualcosa da aggiustare.
- Beati voi! Qui il lavoro non si trova.
- Perché, tu che cosa vorresti fare?
- Che ne so!
- Come, che ne so? Saprai, no, quello che vuoi fare?
- Non lo so. Ho studiato da ragioniere, ma non so quale lavoro potrò fare.
- Beh, ma almeno puoi immaginartelo.
- Come faccio ad immaginarmelo, se non l'ho mai fatto. Perché, tu riesci ad immaginare il tuo lavoro?
- Altro che! Stando seduto qui, so quello che dovrei fare domani, tra un me-se o tra un anno.
- Io invece no. Ho davanti a me il buio, il buio completo. E ora, se non ti dispiace, vado ancora a correre.
- Per me…
Peppino si spaventò al pensiero che i giovani di città, non solo non lavora-vano, ma neanche riuscivano ad immaginarsi il loro futuro. E non riuscendo ad immaginare il loro futuro, continuano a giocare come i bambini, a correre senza motivo proprio come fanno i bambini.
" Non riuscire ad immaginare il proprio futuro, è la morte della mente!" - concluse Peppino.

Il carcere dei bambini

Peppino, uscendo, decise che sarebbe ritornato al parco anche nel pomerig-gio, visto che pure lì c'erano molte cose da imparare. Così cercò un posto per pranzare, non dovendo ritornare dall'amico anziano, che quel giorno aveva la signora del Comune. Gironzolò un po' con il suo motorino ed entrò nella prima trattoria che gli capitò davanti. Niente da dire sulla qualità del cibo, invece fu colpito dalla solitudine di tutti quelli che mangiavano. Come le persone che camminavano per la città, ognuno se ne stava per conto suo, come se stesse solo, come se gli altri non ci fossero. Provò a rivolgere la pa-rola ad uno che gli stava vicino, ma quello rispose a mezza bocca, quasi in-fastidito di essere stato disturbato. Allora anche Peppino finì con l'immaginare di essere solo. Consumò la sua razione con calma, pagò e se ne ritornò al parco, dove sapeva bene che avrebbe dovuto pagare di nuovo per lasciare il motorino. Ormai ci era abituato. In città si doveva pagare tut-to.
Mentre lo stava posteggiando vide molte mamme lungo il marciapiede che si recavano al parco con i bambini, ma notò anche una cosa che gli fece im-pressione. Ogni bambino veniva tenuto stretto stretto per mano, come un cane a catena e come tentava di divincolarsi per giocherellare con l'amichetto davanti o dietro, la mano si serrava ancora di più e arrivava l'ordine categorico:
- No! Ci sono le macchine.
Quant'era stato diverso il suo andare in giro con la mamma, quand'era bam-bino lui! Poteva correre, sgambettare davanti a lei per rincorrere una lucertola o le farfalle tra i fiori. Ma lì tra i campi non c'erano automobili pericolose.
Neanche all'interno del parco i bambini si sentivano del tutto liberi. Le mamme, sedute sulle panchine, conversavano, leggevano o ricamavano, ma l'occhio vigile era come una catena invisibile che li condizionava.
- Non correre che poi sudi, non sederti per terra che c'è sporco, non strap-pare l'erba che ti insudici le mani, non fare questo, non fare quello. Insom-ma a quei bambini lì non era consentito di fare niente: potevano solo gingil-larsi fino alla noia con qualche giocattolo portato da casa, bello, ma senz'anima, che presto si sarebbero stufati di usare. Sì, perché un giocattolo bell'e fatto non fa correre la fantasia, non fa immaginare nulla al di fuori di quello che è. Peppino ricordò di nuovo quand'era stato bambino, non molti anni fa, del resto, che si costruiva pupazzetti di terra e li rendeva vivi con l'immaginazione, li faceva parlare, li faceva dialogare, diventavano perso-naggi. Era poi capace di osservare le farfalle o le api sui fiori, le formiche che trasportavano un chicco più grande di loro o quando si litigavano un verme. Essi no. Limitati da tanti divieti, sembravano incapaci di guardare, toccare, manipolare, scoprire la natura intorno e addirittura quella che vive-va accanto ai propri piedi.
"Poveri bambini!", gli venne da pensare e si avvicinò ad uno di essi che sta-va giocando con un trattorino di plastica giallo. "Dove s'è mai visto un trat-tore giallo!" - disse tra sé.
- Ciao! Ti piace il trattore? Lo sai che io ce n'ho uno vero e lo so anche guidare.
- Come si guida? - chiese il bambino curioso.
- Come una macchina - rispose Peppino. - Immagina che sia come questo, ma molto più grande. Ti siedi qui... - non riuscì a terminare la sua spiega-zione. Fu raggiunto da una voce stridula alle spalle:
- Che cosa fa lei lì? Lasci stare il mio bambino! Se ne vada, altrimenti chiamo un vigile!
Peppino si girò e la guardò. Anche il bambino la guardò. Nessuno dei due capì quella strana reazione.
- Lasci stare il bambino! - insistette la mamma con la sua voce stridula.
- Non gli voglio mica portare via il trattore. Io stavo solo...
- Se ne vada, altrimenti chiamo un vigile! - ripeté.
Peppino non disse altro. Si tirò su da accosciato che era e se ne andò, la-sciando uno sguardo di commiserazione al bambino sbalordito.
"In questa città anche le mamme sono impazzite!" - pensò con rammarico. Uscì dal parco, pagò il posteggio del motorino, montò a cavallo, lo mise in moto e partì. Voleva tornarsene direttamente a casa sua, ma poi si ricordò che doveva salutare il vecchio Fausto. Mentre guidava lungo le vie intasate di traffico, gli veniva da pensare che quel mondo lì era troppo artificiale. Perfino i bambini vivevano in modo artificiale, con le loro mamme pazze e carceriere. Questi bambini poi diventavano ragazzi e si davano alle corse, per non saper fare altro. Da grandi che cosa sarebbero diventati? Esseri umani soli per la città piena di automobili sfreccianti e rumorose, ognuno per conto suo, ognuno a pensare a se stesso, senza interessarsi degli altri, con vecchi abbandonati e soli che non erano più in grado di attraversare la strada.
Quando giunse da Fausto, l'anziano signore fu contento di rivederlo e fu di-spiaciuto nel sentire che voleva andare via.
- Almeno fermati per questa notte. Ripartirai domani mattina presto - gli disse.
Peppino accettò e durante la cena che aveva preparato lui, volle farsi spiega-re molte cose che non aveva capito.
- Lo sai, Fausto, che tra la campagna e la città c'è una differenza enorme?
- Lo credo bene. La città è fatta di tanti palazzi, tanto traffico, tanto rumore, invece in campagna, è tutto più tranquillo, tutto molto più calmo.
- No, no! Non intendevo dire solo questo. Le persone sono diverse, a co-minciare dai bambini. Anch'essi sono prigionieri della città. Per la strada sono aggrappati alla mamma e non possono muoversi per la paura di andare sotto una macchina. Perfino nel parco non sono liberi di fare quello che vo-gliono, poi mi sono imbattuto in una mamma pazza.
- Come pazza? - sorrise il vecchio.
- Pensa, Fausto. Mi sono avvicinato ad un bambino che stava giocando con un trattore finto. A parte che il trattore era giallo e io non ho mai visto un trattore giallo. Gli stavo spiegando come si guida, quando questa mamma mi si è rivoltata come una vipera e si è messa a gridare. Voleva perfino chiama-re un vigile. È proprio scema! Pensava che io volessi portare via il trattore al bambino.
- No, non era quello il motivo, Peppino. E adesso ascoltami bene! Tu sei un bravo ragazzo. Io lo so che sei un bravo ragazzo, ma non ce l'hai mica scrit-to sulla fronte. Devi sapere che, specialmente in città, siamo tutti molto dif-fidenti verso gli sconosciuti. Io stesso lo ero di te, quando mi hai aiutato ad attraversare la strada.
- E va bene, diffidenti quanto si vuole! Ma quella, a pensare che io volessi portare via il trattorino a suo figlio, mi sembra proprio una grande stupidata.
- Ti stavo dicendo infatti che non è di quello che temeva.
- Ah no? E di che cosa aveva paura allora?
- Sai, Peppino, oggi ne succedono tante, se ne sentono tante alla televisione. Quella mamma aveva paura che tu volessi fare del male al bambino.
- Che io volessi fare del male al bambino? Allora è proprio scema!
- Te l'ho detto, Peppino. Abbiamo paura, tutti abbiamo paura delle persone che non conosciamo.
- Va bene! D'accordo! Sarà pure così! E con i giovani come la mettiamo? Non fanno altro che giocare, che correre senza motivo. Non sanno che cosa fare, non sanno come sarà la loro vita, non hanno niente davanti. Qui però la diffidenza non c'entra.
- Questo è un altro discorso e in parte, Peppino, hai ragione. Molti giovani infatti, finché non trovano un lavoro gli che piace, si fanno mantenere dai genitori e intanto corrono senza motivo, come dici tu, si danno ad uno sport, tanto per fare qualcosa. Quando poi finalmente trovano il lavoro giusto, ha inizio la loro vera corsa, quella mentale.
- In che senso?
- Nel senso che sono tutti tesi a progettare come spendere quei soldi: la macchina, le ferie, la casa e altre ancora. Raggiunto un traguardo, ne pro-grammano immediatamente un altro e vivono continuamente in quest'ansia del domani, senza a volte riuscire a godersi il presente.
- Neanche il sabato e la domenica? Si riposeranno, avranno tempo per go-dersi questi due giorni?
- Neanche per idea, anche se ne sono convinti. Il sabato e la domenica prendono la macchina per andare via, per andare in un posto lontano, come se i bei posti fossero solo lontano, per cui passano ore ed ore alla guida e quando ritornano sono più stanchi che se avessero lavorato. Il lunedì si ri-prende, il sabato si ricomincia e così tutte le settimane, tutti i mesi, tutti gli anni in una corsa continua verso un futuro che non finisce mai.
- Ma allora è davvero pazza la gente della città!
- Più che pazza, direi che non sa quello che vuole. Si comincia da bambini a non sapere quello che si vuole. Il bambino riceve un giocattolo, ci gioca un po', poi ne vuole un altro, un altro ancora. Si cresce, il gioco cambia, ma l'atteggiamento è sempre quello. Si è sempre insoddisfatti di quello che si ha e si desidera sempre quello che non si ha. Appena acquistata una certa cosa, non si è più contenti. Se ne vuole subito un'altra. E così via.
- Sai che ti dico, Fausto? Io forse in città non tornerò più. È un posto dove non saprei vivere. Però, dato che è l'ultima sera, vorrei approfittarne per an-dare al cinema. Al mio paese una volta c'era, ma ora l'hanno chiuso. È da quand'ero bambino che non vado più.
- Vai pure, Peppino! Prendi la chiave e rientra quando vuoi.
- Perché non vieni anche tu, Fausto? Usciamo una sera insieme.
- O no, Peppino! Le mie vecchie ossa hanno solo bisogno di riposare. Vai pure e divertiti. Se t'interessa, una sala cinematografica è a cento metri da qui. Ma se vuoi ce ne sono tante altre.
- Grazie, Fausto e buon riposo!
- Grazie, Peppino e buon divertimento.

Le sorprese della notte

Il cinematografo infatti era lì a due passi e Peppino lo raggiunse in fretta. Pagò il biglietto, entrò e si sedette su una delle tante morbide poltroncine vuote. Tante altre ce n'erano vuote, ma a lui poco importava. A lui in quel momento interessava godersi sul grande schermo un bel film che non vede-va da quand'era bambino. Effettivamente gli piacque guardare tutti quei personaggi, a grandezza naturale, che si muovevano ed agivano come se fossero persone vere.
Uscì che erano quasi le undici. Si stava avviando verso casa, quando udì non molto lontano il fischio di un treno. Si fermò un attimo. Lui in treno non era mai salito e uno vero non l'aveva mai visto. Lassù vicino alle montagne dal-le sue parti non arrivava. Così prese lì per lì la decisione: "Voglio andare a vedere il treno".
Si rivolse ad uno dei pochi spettatori che era uscito dal cinema con lui:
- Per favore, dov'è la stazione?
- Da quella parte - rispose quello, indicando con il braccio senza fermarsi.
- È lontana?
Questa volta si fermò un attimo.
- Circa un chilometro - rispose e continuò la sua strada.
Che cos'era per lui un chilometro? Ne aveva fatta di strada a piedi! Così, senza porsi tanti problemi, si avviò dalla parte indicata.
Mentre camminava, un fatto lo meravigliò subito molto. Quella città così caotica di giorno, così piena di traffico e di rumore, con tanta gente che camminava frettolosa, appariva ora quasi vuota. Poche macchine correvano lungo le vie di maggiore scorrimento e rarissime erano le persone in giro. Capitava di notare in lontananza qualche raro passante che si muoveva guardingo e frettoloso. Un paio di coppiette, forse uscite dal cinema come lui, si attardavano abbracciate, camminando lentamente sotto i portici. In un angolo buio tre o quattro ragazzi parlottavano tra di loro, come se si doves-sero scambiare qualcosa. Alcune donne, ferme in piedi lungo il marciapiede di una via, probabilmente aspettavano l'autobus per tornare a casa. Qualcu-na accettava il passaggio di un automobilista che forse conosceva, qualche altra si affacciava al finestrino, poi non saliva, perché magari quello lì non andava dalle sue parti. Nient'altro. Neanche quelle frotte di cani che al suo paese si rincorrevano di notte o inseguivano tutti insieme una cagnetta in ca-lore. Tanto che gli venne da pensare: "Mi pare proprio una città morta".
Arrivò facilmente al piazzale della stazione. Anche lì, poche macchine in moto, poca gente in giro. Entrò nell'atrio. Tutto spento. Era spenta anche la biglietteria. Si vede che in quella città, di notte, neanche i biglietti per il tre-no si potevano fare. Percorse un breve corridoio che indicava: "Ai binari" e finalmente poté vedere un treno vero da vicino. Era molto lungo, ma fermo e tutto spento. Sembrava morto anch'esso.
Allora si ricordò di quello che gli aveva detto François. Camminò sotto la tettoia e lesse su una vetrata: "Sala d'aspetto di prima classe", poi "Sala d'aspetto di seconda classe". Lì per lì il significato gli parve poco chiaro. Fece un ragionamento per conto suo. Nella sala di prima classe entrava chi doveva partire prima, nell'altra chi partiva più tardi. Non ne capì il motivo. Chi partiva prima e chi partiva dopo, non poteva aspettare nello stesso po-sto? Ma in città non si può capire tutto. Entrò prima nell'una, poi nell'altra e in tutte e due vide la stessa scena. I sedili lungo le pareti erano occupati da uomini che dormivano e russavano. S'erano tolte le scarpe e i piedi diffon-devano intorno un odore poco gradevole. Chi non aveva trovato posto nei sedili, dormiva sulle sedie con le braccia appoggiate al tavolo e la testa sulle braccia. Peppino capì subito che, come aveva detto il giovane africano, tutta quella gente era lì solo per dormire. Nessuno sembrava dover aspettare un treno. Quando si viaggia, di solito si ha una valigia, ma in giro di valigie non se ne vedeva neanche una. Tutto questo lo sapeva già, quindi non lo meravigliò più di tanto. Quello che invece lo impressionò molto fu il fatto di notare alcuni anziani tra le molte persone che trascorrevano la notte lì den-tro. Vecchi addirittura sembravano, dai vestiti logori e stracciati, che dormi-vano sul nudo legno dei sedili.
"Quelli non ce l'avranno i parenti? - si chiese Peppino. - Io mio nonno non ce l'avrei fatto dormire tutto solo sul sedile di una stazione!" Per concludere, come aveva raccontato François, quello era il dormitorio pubblico di povera gente senza una casa. Il giovane nero gli aveva anche detto che la polizia di tanto in tanto li mandava fuori. Come si poteva cac-ciare via, anche se ora non faceva freddo, vecchi così malandati? In città forse non c'era neanche un po' di cuore. Peppino sperò che per quella notte la polizia non venisse. Attese un po' lungo il marciapiede, ma non venne nessuno a cacciarli via. Sì riaffacciò: "Buona notte a tutti!" - disse fra sé e s'avviò, spiacente che a quell'ora avrebbe trovato il vecchio Fausto addor-mentato, perché voleva chiedergli un sacco di cose. "Gliele chiederò domani mattina" - concluse.
Con le mani in tasca come al solito e a passo svelto se ne stava tornando a casa, quando all'improvviso gli capitò davanti una ragazza giovane e dispe-rata, sembrava, che appena gli fu vicina, implorò con voce lamentosa:
- Hai la roba? Hai la roba? Mi sento male! Ti prego, dammi la roba! Ecco, ti pago subito - e gli sventolò davanti una grossa banconota.
Peppino, a quell'apparizione e a quel comportamento, rimase un attimo sconcertato, poi rispose:
- Bella mia, che roba vuoi da me? Se non mi dici quello che vuoi, come faccio a dartelo?
Ma quella insisteva, sempre più assillante, quasi contorcendosi, come se provasse dolore per tutto il corpo:
- Mi sento male, mi sento male! Non resisto più. Ti prego, dammi la roba, almeno una bustina. Una bustina sola. Te la pago il doppio. Ti prego! Mi sento tanto male! - e si contorceva sempre di più. Peppino si sentiva inerme, senza poterla aiutare, tuttavia le chiese lo stesso:
- Che cosa ti fa male? Hai mal di pancia, ti fanno male i denti? Che cos'hai? Vuoi che ti accompagni in qualche farmacia? Io qui non ho nean-che una bustina...
- Sì, almeno una bustina! - fu come un'esclamazione di sollievo.
- Ma che bustina? Non ho neanche una bustina di camomilla. Non ho nean-che un'aspirina. Dai, ti accompagno in una farmacia! Ce ne sarà una aperta a quest'ora!
- Non hai la roba? - continuava a lamentarsi la ragazza e sembrava che stes-se molto male davvero. - Neanche tu ce l'hai? Mi serve, mi serve, non resi-sto più! Non resisto più! - e se ne andò di corsa com'era venuta, portandosi dentro quel gran dolore fisico, che Peppino non era riuscito a capire.
"È roba da matti! - stava ragionando tra i sé. - Uno ti chiede una cosa e non sa neanche..."
Non riuscì a concludere i suoi pensieri, perché in quel momento una mac-china, giunta a tutta velocità, inchiodò accanto a lui. Fece appena in tempo a leggere sulla fiancata: "Carabinieri", che uno aprì lo sportello, scese di corsa e l'afferrò per un braccio.
- Sali in macchina! - gli ordinò in modo sgarbato.
- No, grazie! - rispose ingenuamente Peppino. - Vado a piedi. Stavo facen-do due passi per conto mio.
- E sali! - continuò quello, mandandolo dentro con uno spintone.
- Scusate, ma vi ho detto che voglio andare a piedi - si azzardò a dire.
- Stai zitto! - fu la risposta.
Stette zitto. In città era tutto così strano, che non c'era da meravigliarsi più di nulla. Dopo una veloce corsa l'auto si fermò davanti alla caserma.
- Scendi e non fare scherzi! - lo minacciò di nuovo il carabiniere.
Scese senza fare scherzi. "Adesso non ho proprio nessuna voglia di scherza-re!" - pensò Peppino tra sé, senza aprire bocca.
- Dentro! - e venne spinto attraverso la porta della caserma. Mentre uno lo teneva per un braccio, l'altro si avvicinò a quello che stava già lì, che forse era il piantone. Gli disse qualcosa e quello rispose:
- Io non m'impiccio. Se la vedrà il maresciallo domani mattina.
- Allora mettilo in camera di sicurezza - disse l'altro.
Quello che doveva essere il piantone prese a sua volta Peppino per un brac-cio, senza dire niente, come se conducesse con sé un oggetto qualsiasi e lo spinse in una stanzetta, che aveva una specie di finestra sulla porta, protetta da inferriate. E finalmente parlò.
- Per questa notte fai il bravo e te ne stai qui dentro - gli disse. - Domani mattina te la vedi col maresciallo.
C'era una lucetta accesa. Peppino notò un letto con il materasso e una coperta per traverso. Non c'era altro. Si premunì di chiedere:
- Se mi scappa la pipì, dove vado?
- Chiama! - rispose il piantone.
- Ma a me scappa anche senza chiamarla - spiegò Peppino.
Non gli rispose. Girò la chiave nella serratura, la sfilò e se ne andò.
Visto che non poteva farci niente, tanto valeva non prendersela troppo. Un letto c'era, il sonno gli era arrivato, allora si allungò sopra senza levarsi le scarpe. Non voleva lasciare in giro cattivi odori come quelli che pernottava-no alla stazione. Stette poco a pensare, che presto si addormentò e dormì fi-no al mattino.


Le mattine dei marescialli

In città anche la mattine dei marescialli cominciano tardi. Solo verso le die-ci, quando Peppino era già sveglio da un pezzo, venne un carabiniere che gli disse al solito modo sbrigativo:
- Seguimi. Il maresciallo ti deve interrogare.
Il maresciallo, anche lui poco cordiale, lo fece sedere davanti a sé e gli fece chiedere da un carabiniere seduto al computer, nome, cognome, indirizzo, luogo e data di nascita. Dopo queste prime formalità, il maresciallo si rivol-se allo stesso carabiniere:
- L'avete perquisito?
- No! Aspettavamo lei.
- Aspettavate me! - s'infuriò il maresciallo. - Intanto questo qui ha fatto sparire tutto!
Ci capiva sempre di meno Peppino. Che cos'era che avrebbe dovuto far spa-rire? Non lo sapeva proprio.
- Vuota le tasche! - gli impose il maresciallo.
Rovesciò sulla scrivania il poco che aveva: un po' di monete, il fazzoletto da naso e alcune banconote che gli erano rimaste, quelle avute come premio per aver vinto la donna cannone.
- Nient'altro? - chiese di nuovo il maresciallo.
Peppino fece sventolare il rovescio delle tasche.
- Mettiti contro il muro con le mani in alto. - si sentì dire ancora dal mare-sciallo. Non capiva per quale motivo, ma lo fece ugualmente. Il carabiniere lo tastò da per tutto, che quasi gli faceva solletico, poi si rivolse al capo:
- Niente!
- Avete cercato bene in camera di sicurezza?
- Da per tutto. Non abbiamo trovato niente.
- Siediti! - gli ordinò ancora il maresciallo, poi aggiunse fissandolo molto serio: - Dove hai messo la roba?
Peppino strinse le sopracciglia e lo fissò a sua volta. Cominciava a seccarsi.
- Mi volete spiegare che cos'è questa roba? - esplose. - La ragazza voleva la roba, voi volete la roba. Ma in questa città le cose non ce l'hanno un nome?
- Dove l'hai nascosta? - insistette il maresciallo.
- Ma insomma, maresciallo, mi vuoi spiegare di che cosa stai parlando?
- Intanto non mi dare del tu.
Peppino rimase mortificato.
- Mi scuso, maresciallo! Lo so che qui in città ti devo dire lei. Però sempre non mi viene. Il fatto è che dalle mie parti ci diciamo tu con tutti: con il dot-tore, con il veterinario e anche con il maresciallo. Ci conosciamo tutti. Noi diciamo tu a loro e loro dicono tu a noi.
- Beh, non importa! Allora, dove hai nascosto la droga, visto che vuoi le pa-role chiare?
Peppino lo guardò sbalordito.
- Quale droga ho nascosto? Guarda, maresciallo, che in quella stanzetta do-ve sono stato chiuso non c'era niente e non ho nascosto niente.
- Allora l'hai spacciata tutta!
Quella frase non gli suonava chiara nelle orecchie.
- Mi devi spiegare quello che ho fatto, perché non l'ho capito.
- Senti, non fare il furbo! Ieri sera ti hanno beccato mentre vendevi droga ad una ragazza.
Il volto di Peppino si illuminò.
- Ooh!! Finalmente ho scoperto che cosa voleva da me. Voleva la droga. Roba significa droga. Giusto?
- Giusto! Quanta gliene hai venduta?
- Ma io, maresciallo, non ho venduto niente. Stavo tornando a casa per i fat-ti miei, quando all'improvviso mi capita davanti questa ragazza disperata e piena di dolori da tutte le parti. Lei parlava di roba e io non capivo, lei con-tinuava ad insistere ed io continuavo a non capire. Alla fine se n'è andata e poco dopo sono stato preso dai carabinieri.
- Quindi non spacciavi droga?
- Ma quale droga? Non so neanche come è fatta.
- Allora perché sei venuto in città?
- Ho voluto fare un giro per conoscere il mondo e mi sono accorto che la città è piena di paure, di gente che si trova male e di gente che non sa vivere.
Il maresciallo rimase un attimo pensieroso, poi fissò di nuovo Peppino.
- Sei pulito? - domandò all'improvviso.
Peppino provò un attimo di disagio.
- Insomma, ecco, - rispose timidamente - ieri una sciacquata me la sono da-ta, ma questa mattina non mi hanno fatto lavare neanche la faccia. - Poi gli venne un sospetto, perché aveva notato che l'espressione del maresciallo era cambiata. Anche se era stato tutta la notte senza levarsi le scarpe, forse... - Che per caso mi puzzano i piedi? - chiese arrossendo.
Il maresciallo lo guardò duramente:
- Ti stai forse prendendo gioco di me?
- Io? Perché? Mi hai fatto una domanda e ho risposto.
- Ho capito! Allora te lo chiedo in un altro modo: hai mai avuto guai con la giustizia?
Peppino dovette ancora riflettere. Come facevano le due domande, quella di prima e quella di adesso, a significare la stessa cosa? Dunque: pulito, lo era abbastanza, almeno credeva. I guai li stava passando adesso con loro. Ma con questa giustizia che guai aveva avuto? Quando mai ci aveva avuto a che fare? Ci pensò ancora e cercò di rispondere:
- Maresciallo, io... quella giustizia lì... chi l'ha vista mai?
Il maresciallo rimase in silenzio. Intervenne il carabiniere.
- Maresciallo, non vede che fa finta di essere scemo?
Questa volta Peppino capì subito il concetto e sbottò:
- Scemo ci sarai lei! Io non sono scemo per niente!
- Ragazzo! - esplose il maresciallo. - Vuoi che ti sbatta dentro?
- Un'altra volta? - si risentì Peppino.
- Arriviamo perfino al vilipendio di pubblico ufficiale? - borbottò tra i denti il maresciallo per la rabbia. Peppino che faceva fatica a capire quel linguag-gio così strano della città, intuì a modo suo e subito si giustificò:
- Questo no, eh! Io non c'entro niente. Io non ne so niente dello stipendio di quell'ufficiale - indicando il carabiniere. - Mi avete tenuto sempre chiuso a chiave dentro a quella stanzetta. Sono uscito una volta sola per fare la pipì e non mi sono mosso. Poi mi è stato sempre vicino quello che mi ha aperto la porta. Mi vergognavo pure a fare la pipì con uno dietro che mi stava a guar-dare. Non ne so proprio niente dello stipendio di quell'ufficiale.
Appena tirò il fiato, si rese conto di aver detto una stupidata, perché quei due si guardavano e ridevano tra di loro. Il maresciallo, col volto ancora ri-dente, lo guardò.
- Ricominciamo da capo. Intanto non si dà dello scemo ad un carabiniere.
- O maresciallo! Il carabiniere può dire scemo a me e io a lui no? Belle cose che succedono in questa città.
- Lasciamo stare! Userò una forma più semplice. Però cerca di capirmi. Sei mai stato arrestato? Hai mai commesso qualcosa contro la legge? Questa domanda l'hai capita?
- Certo che l'ho capita e rispondo. Non sono mai stato arrestato, a parte questa volta, e non ho mai fatto niente contro la legge. Ah! Adesso ho capi-to! Pulito nel senso di fedina penale pulita. In questo caso sono pulito. Se non ci credi, puoi telefonare al maresciallo che sta al mio paese. Mi conosce così bene!
- D'accordo! Caputo, spedisci un fax a questo maresciallo e chiedi risposta immediata. Intanto tu va' in sala d'aspetto e non muoverti. - disse a Peppi-no.
Non dovette aspettare molto. Aveva appena cominciato a sfogliare una rivi-sta, quando venne richiamato.
- Tutto a posto, sei libero. Se ti è possibile, non andare in giro di notte, per-ché si fanno cattivi incontri.
- Non ti preoccupare, maresciallo. Oggi parto. La città non fa per me.
Ormai ne era più che convinto. La città era un nemico così complicato, che non solo non si riusciva a vincere, ma neanche a combattere.

Addio alla città

Quando Peppino arrivò a casa del vecchio Fausto, lo trovò che stava prepa-rando il pranzo per conto suo. Si voltò di scatto, come sentì aprire la porta.
- Peppino! Che cosa ti è successo? Credevo che te ne fossi andato senza sa-lutarmi.
- Caro Fausto, - rispose Peppino - ho passato la notte in galera.
- Che cosa?!
- Le stranezze di questa città. Riposati, Fausto. Vado avanti io a cucinare. Ti racconto tutto mentre mangiamo. Fausto era preoccupato e curioso, così appena si sedettero a tavola, domandò subito:
- Allora, Peppino, raccontami quello che ti è successo.
- Comincerò dalla galera, poi devo chiederti altre cose. Allora, stavo tor-nando a casa, quando si precipita verso di me una ragazza sconvolta e dolo-rante, che voleva la roba...
- La droga?
- Sì, ma io non lo sapevo. Dopo una lunga discussione quella se n'è andata. Un attimo dopo mi si ferma accanto una macchina dei carabinieri che mi fanno salire e mi portano dentro.
- Erano convinti che tu avessi venduto la droga a quella ragazza. Succede, Peppino, ad andare in giro di notte. E come te la sei cavata?
- Me la sono cavata che mi hanno fatto un sacco di domande, usando parole che non capivo e io naturalmente rispondevo a modo mio. Ad un certo pun-to un carabiniere ha detto che io facevo lo scemo. Mi sono arrabbiato e gli ho detto: "Sarai tu scemo, non io".
- Gli hai dato dello scemo? Lo sai che è vilipendio a pubblico ufficiale?
- Come hai detto, scusa? Ripetilo piano.
- Vilipendio a pubblico ufficiale - ripeté l'anziano, lentamente.
- Che significa?
- Offesa ad un carabiniere che è un rappresentante dello stato.
- Ecco perché si sono messi a ridere.
- Si sono messi a ridere, perché hai dato dello scemo ad un carabiniere?
- Non per quello. Dopo. Lì per lì il maresciallo mi voleva sbattere dentro un'altra volta. Io gli ho detto: "Come, un carabiniere può dire scemo a me e io a lui no?" Ma sai perché si sono messi a ridere?
- Perché?
- Perché io avevo capito lo stipendio dell'ufficiale. Come se mi accusassero di aver preso lo stipendio dell'ufficiale e io a dire: "Guardate che io non ho toccato niente. Io sono stato sempre chiuso in quella stanzetta".
- Lo stipendio dell'ufficiale. Sei forte, Peppino. Sei veramente forte - e si mise a ridere anche lui, il vecchio Fausto, mentre mangiava. - Poi com'è fi-nita?
- Gli ho detto di telefonare al maresciallo del mio paese, che mi conosce. Lo hanno fatto e mi hanno rimandato a casa, consigliandomi di non andare in giro di notte.
- È quello che ti consiglio anch'io, Peppino.
- In questa città non voglio più andare in giro né di notte, né di giorno. Tra poco me ne torno a casa.
- No, dai! Per oggi fermati. Fammi ancora un po' di compagnia. Partirai domani mattina.
- D'accordo, Fausto. Però, dopo mangiato te ne vai a riposare. La cucina la metto a posto io.
- Va bene, Peppino. Va bene!
- Ah, ecco, ti devo chiedere altre due cose.
- Dimmi.
- Sono andato alla stazione a vedere il treno, prima di incontrare quella ra-gazza. È questo che ti voglio chiedere. Alla stazione c'è scritto: "Sala d'aspetto di prima classe e sala d'aspetto di seconda classe". Io ho pensato tra me: nella prima classe ci va chi deve partire prima e in quell'altra chi parte dopo, ma forse non è così.
- Ah,ah, ah! Sei davvero forte, Peppino! - ripose il vecchio facendosi una risata di gusto. - Non è così. Siccome nel treno ci sono carrozze di prima e di seconda classe...
- Perché alcune partono prima e altre dopo?
- Ma no! - rise ancora il vecchio. - Le carrozze partono tutte insieme e sono tutte uguali, salvo un panno bianco per appoggiare la testa. L'unica diffe-renza è che in quelle di prima classe si paga il doppio.
- Questo sì che mi fa ridere! - disse Peppino, ridendo anche lui.
- Si! Infatti fa ridere. Capita che quelli che vogliono pagare doppio sono pochi, così stanno seduti più comodi, mentre in seconda classe spesso non c'è il posto per stare seduti e si deve stare in piedi sul corridoio. E l'altra co-sa?
- L'altra credo che non faccia ridere. Molte persone usano le sale d'aspetto per dormire. Ma quello che ho notato è che ci sono molti anziani, anche del-la tua età. Come mai, Fausto?
Questa volta infatti il vecchio non rise:
- Sono barboni, Peppino.
- Come, barboni? Non ce l'avevano mica la barba.
- Non in quel senso, Peppino. Sono persone senza una casa che, o per libera scelta, o per questioni di famiglia o per altri motivi che non so, hanno deciso di vivere senza lavoro e senza responsabilità.
- E per mangiare come fanno?
- Chiedono l'elemosina. E dormono dove capita.
- Ma d'inverno come fanno?
- D'inverno, purtroppo, ogni tanto qualcuno di essi viene trovato morto per il freddo.
- È molto penoso però, Fausto! Io mio nonno non lo abbandonerei così.
- Ma quelli forse un nipote non ce l'hanno e bravo come te, no di certo! Comunque, Peppino, basta ora con i pensieri tristi. Sono molto contento che anche oggi resti con me e mi fai compagnia.
E fu così. Mentre l'anziano si riposava, Peppino sparecchiò, lavò i piatti e mise bene in ordine la cucina. Uscì quel tanto necessario per andare a fare la spesa, poi se ne stette in casa tutto il pomeriggio. L'esperienza della notte precedente gli era bastata. Alla sera preparò cena, si guardarono un po' di televisione, poi andarono a letto.
Si alzarono all'alba. Peppino si preparò, scaldò il latte e fecero colazione, conversando tranquillamente. Abbracciò quindi il vecchio Fausto, promet-tendogli che uno dei prossimi giorni avrebbe mandato suo fratello a prender-lo con la macchina per farlo stare qualche giorno con loro in campagna. An-cora ringraziamenti, ancora raccomandazioni da parte dell'anziano e partì a cavallo del suo motorino. Quando dopo alcune ore vide profilarsi all'orizzonte le sue montagne, gli si allargò il cuore.
Giunto a casa raccontò ai familiari tutte le sue avventure, ma essi stentavano a crederci, per quanto sembravano impossibili.
Riprese il suo mestiere quotidiano di contadino, tra il lavoro nei campi e il governare le bestie, ripensando spesso a quello che gli era capitato. Il suo unico rammarico, e forse la sua interiore sconfitta, era di non essere riuscito a vincere le paure della città. Ma quelle, probabilmente, non si potevano vincere.
Gli restava la consolazione di essere svegliato al mattino dal cinguettio dei passeri sulla quercia ammantata di edera e dal canto dei galli nei pollai spar-si per la collina, piuttosto che dal frastuono delle auto e dei camion in corsa continua.
Tuttavia non aveva dimenticato le persone incontrate durante il suo viaggio alla scoperta del mondo. In particolare spesso gli si insinuava nella mente quella ragazzina che voleva fuggire da casa, di cui conosceva appena il no-me, un nome storpiato: Tizy, che forse non avrebbe rivisto mai più. Ma neanche le persone incontrate si erano dimenticate di lui. La prima che rivi-de fu proprio il vecchio Fausto. Volle mantenere la promessa e la settimana dopo lo mandò a prendere da suo fratello con la macchina, dandogli l'indirizzo preciso. Lui, Peppino, in città non volle ritornarci. Ne era rimasto troppo deluso.

Il vecchio Fausto in campagna

Quando Fausto andò a rispondere al citofono e si sentì dire: "Sono il fratello di Peppino", fu preso da una forte emozione e aprì subito il portone, ma ci rimase male, a non vedere il suo giovane amico.
- Come mai Peppino non c'è? - chiese subito.
- Ha detto che in città non vuole venire più. Piacere! Saverio. - e tese la mano.
- Piacere! Fausto - rispose l'anziano signore e gliela strinse.
Durante il viaggio comodo e veloce in macchina , Fausto era curioso di sa-pere tutto di Peppino e della sua famiglia. Saverio con molta calma gli dava tutte le informazioni richieste. Giunto lungo la stradina di campagna che conduceva al casolare, prese a suonare il clacson. Era il segnale convenuto. Peppino che stava pulendo il letto alle mucche, si lavò in fretta le mani e uscì incontro al fratello. Fu un abbraccio molto affettuoso quello con il vec-chio Fausto. Per prima cosa gli presentò la sua famiglia. Era davvero una famiglia patriarcale: c'erano il nonno, la nonna, il padre, la madre, due so-relle e quattro fratelli, due dei quali sposati, che vivevano nella stessa casa con le loro mogli.
- Vi presento il mio amico Fausto - disse con entusiasmo ai familiari, che facevano cerchio intorno. Tutti sorridevano e l'anziano signore si commosse a vedere quella numerosa famiglia così unita.
- Queste sono cose che in città non si vedono più - disse con una punta di tristezza, pensando al fatto di trovarsi a vivere da solo. - E tu, Peppino, sei l'ultimo? - chiese poi, osservando i fratelli e le sorelle più grandi di lui.
- È l'ultimo della cucciolata - rispose il padre - ed è il più pazzo!
- Fossero tutti così pazzi i giovani di oggi! - sospirò il vecchio. - È un bra-vissimo ragazzo ed ha un grande cuore.
Per farla breve, prima di tutto lo invitarono in casa e lo fecero sedere al grande tavolo. La mamma affettò subito il prosciutto, mentre il padre andò a spillare il vino dalla botte.
- Come faccio alla mia età a mangiare questa meraviglia e a bere questo vi-nello delizioso? - andava ripetendo.
- Non ti preoccupare, Fausto! - intervenne il nonno. - Mangia e bevi! Que-sta è tutta roba genuina. Fa bene alla salute.
Eh sì! Per quella volta il vecchio Fausto in compagnia del nonno con il qua-le fece subito amicizia, dandosi tranquillamente del tu senza i formalismi della città, volle fare uno strappo alla regola e prese a mangiare pane e pro-sciutto, un prosciutto che sembrava vivo per il profumo e il sapore e si buttò giù anche un paio di bicchieri di quel vinello leggero, ma tanto gustoso. Erano le dieci e mezzo e intanto che la mamma, aiutata dalle figlie e dalla nonna si dava da fare a preparare la sfoglia per le tagliatelle e il padre prov-vedeva a sistemare un paio di conigli grossi e grassi, Peppino disse all'anziano:
- Fausto, preferisci andare un po' a riposarti o vuoi fare due passi con me qui in giro.
- Caro Peppino, dopo tutta questa grazia di Dio che mi avete offerto, forse è meglio che faccia due passi.
Peppino lo prese sottobraccio e tornarono all'aperto.
- Che aria che avete qui in campagna, Peppino! - esclamava, guardandosi intorno. - Un'aria pulita e leggera, in mezzo a tutto questo verde, che sem-bra ridarti animo ed energia. Si sta proprio bene qui, Peppino! Mi rendo conto perché non ti piaccia la città.
Peppino lo condusse poi nella stalla delle mucche. Ce n'erano sei pezzate, due delle quali con il vitellino.
- Queste sono mucche da latte? - s'informò subito.
- Sì, sono da latte. Lo portiamo alla centrale. Una volta avevamo quelle tut-te bianche per il lavoro dei campi, poi abbiamo comperato il trattore che fa il lavoro al posto delle mucche e ora teniamo solo quelle da latte.
Gli fece vedere quindi i maiali nel porcile e spiegò che due erano da ingras-so e due erano scrofe. Di una avevano appena venduto i maialetti, mentre l'altra li aveva piccoli e li allattava.
Mentre giravano da una parte all'altra dell'aia s'imbattevano in covate di pulcini o di ochette che seguivano la chioccia. Gli fece anche visitare l'ovile dove delle undici pecore, cinque avevano già gli agnellini e presto le avreb-bero munte per fare il formaggio. Quindi per finire lo portò nell'orto e lì Fausto poté ammirare dopo tanti anni che non ne vedeva uno, zucchine, ce-trioli, peperoni, insalata, patate già tutte fiorite, pomodori quasi maturi e tan-tissime pere in maturazione pendenti dai rami. Insomma il vecchio Fausto fu contento di rivedere nella sua origine tutto ciò che la natura di genuino pro-duce ed offre a chi amorevolmente la custodisce.
Gira di qua, gira di là, era arrivata l'ora del pranzo e Fausto si commosse di nuovo a vedere tutta quella numerosa famiglia riunita attorno al grande tavolo da dove si espandeva il profumo stuzzicante delle tagliatelle fumanti.
- Io non so come ringraziarvi per tutto il vostro darvi da fare per me, che neanche mi conoscevate, ma purtroppo non posso mangiare molto. Non ci sono abituato e, davvero, credetemi, potrebbe farmi male. Anche perché ho mangiato da poco quella specialità del prosciutto.
- Per il fatto di non conoscerti, Fausto, - intervenne il padre - non ci sono problemi. Sei amico di Peppino e questo ci basta. Se poi pensi che a man-giare troppo ti possa far male, non vogliamo insistere. Prendi quello che ti va, senza fare complimenti.
Si limitò a mezzo piatto di tagliatelle: erano così gustose, che non vi poteva rinunciare. Talmente buone che, se fosse stato in altri tempi, ne avrebbe mangiati due piatti. Poi venne la volta dell'insalata mista dell'orto e del co-niglio al forno. Anche qui Fausto prese un po' d'insalata e un solo pezzetti-no di coniglio, talmente saporito, che si pentì di aver mangiato due ore pri-ma una discreta porzione di prosciutto. Ma anche quello era stato così appe-titoso da riuscire difficile rinunciarvi.
In conclusione, a forza di insistere, Peppino riuscì a farlo trattenere per tre giorni e quelli per lui furono i giorni più sereni e più tranquilli della sua vi-ta, che gli fecero dimenticare la solitudine triste in cui era costretto in città e mentre il fratello lo riconduceva indietro, andava pensando: "Purtroppo fa-miglie così, dove vivono assieme in santa pace nonni, figli, nipoti e pronipo-ti, non si trovano più. Ed è proprio un peccato, perché se è vero che i giova-ni possono imparare dai vecchi, è altrettanto vero che i vecchi da essi rice-vono tanta vitalità e tanto affetto". Non disse niente a Saverio per non rattri-starlo. Preferiva essere rattristato per conto suo.


Periodo di visite

Nei giorni che seguirono le sorprese non mancarono. Un pomeriggio vide entrare nell'aia una macchina con una bicicletta sul portabagagli. Lì per lì non capì chi poteva essere, ma lo scoprì subito appena si avvicinò. Era Artu-ro, l'uomo della casa dei fantasmi, che appena lo vide lo abbracciò con af-fetto.
- Peppino, ci ho messo molto per ritrovarti, ma finalmente ci sono riuscito. Sono venuto a riportarti la bicicletta.
- Il motorino è lì - disse Peppino con un po' di dispiacere. - Ti ringrazio che me l'hai prestato.
- Ma quale prestato! - esclamò Arturo. - Il motorino è tuo. Sono venuto an-che per ringraziarti, perché finalmente, con il tuo contributo, sono riuscito a vendere la casa.
- Ah sì? - esclamò Peppino, tranquillizzato che poteva ancora tenere il mo-torino. - Sono contento per te, Arturo! Non hai più avuto problemi con quel-la gente là?
- Io no! Sono loro che hanno avuto problemi.
- Perché?
- Perché li ho scoperti e li ho denunciati. Erano due fratelli che volevano ri-strutturare tutta la palazzina, i quali avevano già acquistato, senza che io ne sapessi niente, il piano superiore e facevano del tutto per comperare anche il mio per quattro soldi, mettendomi paura con i fantasmi. Invece, in seguito alla denuncia la notizia si è sparsa, mi hanno fatto pubblicità in poche paro-le, e ho trovato un compratore, che mi ha dato più di quello che chiedevo all'inizio.
- Sono contento per te, Arturo, che hai fatto un buon affare - disse Peppino. - Comunque, se non mi riportavi la bicicletta non importava. Con queste sa-lite la bicicletta serve a ben poco. È molto meglio il motorino - aggiunse con un sorriso.
- Non penserai mica che sia venuto solo per questo? - disse ancora l'uomo.
- E per cos'altro ancora?- chiese Peppino con curiosità.
- La mia riconoscenza non poteva limitarsi ad un vecchio motorino. Mi hai fatto guadagnare molti soldi ed era giusto che ti ricompensassi a dovere. Siccome mi hai detto che ti piace molto leggere, ho pensato di regalarti un computer. Contiene un'intera enciclopedia, un atlante geografico e altri pro-grammi ancora. Così mi ha detto il negoziante. Io me ne intendo poco.
- È meraviglioso! - esclamò Peppino. - Ma io non lo so usare - fece poi con rammarico.
- Che cosa significa? Te lo fai insegnare da qualcuno. Sei giovane e potrai imparare facilmente.
Lo condusse verso la sua macchina, aprì il portabagagli che conteneva alcu-ni scatoloni di differente grandezza.
- Quanta roba! - esclamò Peppino.
- C'è anche una serie di cd-rom con tutti gli animali del mondo - continuò Arturo. - Quando avrai imparato ad usarlo, tu che di animali ne hai tanti, po-trai conoscere tutti quelli che non hai visto mai.
Peppino portò in casa gli scatoloni, li aprì e tirò fuori i diversi componenti, senza sapere da che parte cominciare per montarli insieme, ma già aveva in mente a chi potersi rivolgere per poterlo imparare.
Arturo si fermò solo per bere un bicchiere di vino e per conoscere tutta la famiglia, poi volle ripartire, anche se lo invitarono più volte a fermarsi per la cena. Ringraziò di cuore, ma rispose che la strada era lunga e che a guidare di notte aveva paura.
- Ora che hai quel coso lì - gli disse il padre - non vorrei che ci stessi sem-pre a trafficare, invece di occuparti del lavoro dei campi.
- Non ti preoccupare, papà. Lo userò alla sera invece di guardare la televi-sione - lo tranquillizzò Peppino.
Intanto però prese il motorino e andò in paese a parlare con un suo compa-gno delle elementari, che era andato avanti a studiare: aveva il computer, sapeva usarlo benissimo e quindi poteva insegnarlo anche a lui.

* * *
Qualche settimana dopo capitò a casa sua un'altra macchina dalla quale sce-sero un signore distinto e una bella donna. Al primo che si affacciò, l'uomo chiese:
- Abita qui un ragazzo di nome Peppino?
- Sì certo! È mio figlio. Adesso lo chiamo - rispose il padre. Peppino che stava facendo rientrare le pecore nell'ovile, con gli agnellini che saltellava-no allegri da tutte le parti, lo riconobbe subito appena lo vide e gli andò in-contro.
- Benvenuto, Gerardo! - gli disse stringendogli la mano. - Come mai da queste parti?
- Intanto ti presento Margherita la mia fidanzata, - rispose - poi te lo spiego. E datevi pure del tu - aggiunse ricordandosi della sua difficoltà di dare del lei. Si strinsero la mano.
- Piacere, Peppino!
- Piacere, Margherita!
- Questo ragazzo - continuò Gerardo - è il mio salvatore, colui che mi ha impedito di commettere una pazzia irreparabile.
Lei offrì a Peppino un sorriso di riconoscenza.
Erano ormai le undici e vennero invitati a fermarsi per il pranzo. Intanto Ge-rardo spiegò a Peppino:
- Noi ci sposeremo il mese prossimo. Sono venuto, perché ti voglio invitare al nostro matrimonio. Sei l'unica persona che non può mancare. Anzi sai che faccio? Invito tutta la tua famiglia.
- Tutti siamo un po' troppi, Gerardo. Siamo in sedici. Poi non possiamo an-dar via tutti. Ci sono le bestie da custodire.
- Siete così tanti? - si meravigliò Gerardo.
- Eh sì! Due nonni, papà e mamma, quattro fratelli, due cognate, due sorelle e quattro nipotini.
- Che bella famiglia!
- Se vuoi, posso venire con mio fratello che guida la macchina. Fare tanta strada in motorino con il vestito bello, non mi sembra il caso.
- D'accordo, Peppino! Venite tu e tuo fratello.
Sedettero a tavola e Gerardo aveva voglia di raccontare la sua disavventura, conclusasi bene, per fortuna.
- Con tutti i problemi economici che mi erano caduti addosso - andava di-cendo tra una forchettata di tagliatelle e un bicchiere di vino - avevo preso la decisione più pazza che mi potesse venire per la testa: farla finita.
Prendo una corda, afferro uno sgabello, salgo in macchina e m'avvio in mezzo a questo campo dove avevo osservato un albero abbastanza robusto. In piedi sullo sgabello, mi ero già infilato il cappio al collo e stavo dando un calcio allo sgabello, quando Peppino mi precipita addosso con il motorino e io rimango seduto sul manubrio, prima che la corda mi stringesse.
- Com'è che mi dicesti Gerardo? - intervenne Peppino. - "Che sei scemo? A momenti mi ammazzi!"
- E tu come mi rispondesti? "Perché, tu che cosa stavi facendo?"
- Il fatto è - spiegò Peppino - che mi stava scappando la pipì, allora deviai per quella stradina e mi nascosi dietro una siepe per non farmi vedere da nessuno, quando vidi arrivare la macchina, che mi diede pure fastidio. "Uno non può nemmeno fare la pipì in pace" - pensai tra di me, quando ti vedo Gerardo, uscire con la corda e lo sgabello nelle mani e avviarsi verso quell'albero. Lì per lì non capivo quello che volesse fare. Ma quando me ne resi conto, feci la prima cosa che mi venne in mente: accendere il motorino e precipitarmi sotto di lui, in modo da frenare la caduta. Se fossi andato a piedi, non avrei fatto il tempo.
- Sì, infatti la mia salvezza fu il tuo motorino - continuò Gerardo. - Sai che ti dico, Peppino. Quel motorino me lo dovresti vendere. Voglio tenerlo per ricordo come il manubrio della mia salvezza.
- Come faccio, Gerardo? A me il motorio serve. Con tutte queste salite non posso mica andare in bicicletta.
- Te lo compro nuovo, che cosa credi? Uno nuovo in cambio del tuo usato. Penso che ti convenga. Dopo sposati, appena ritorniamo dal viaggio di noz-ze, te ne porto uno nuovo e facciamo il cambio. Non mi dire che non ci stai?
- Per me va benissimo - rispose Peppino. - Sei tu che ci rimetti.
- Di questo non ti devi preoccupare.
Gerardo e Margherita se ne andarono nel tardo pomeriggio, ripetendo l'invito a Peppino di non mancare al loro matrimonio.

* * *
Verso i primi di giugno Peppino ricevette un'altra visita. Questa volta arrivò una moto abbastanza sgangherata, più del suo motorino con in sella un uo-mo e una donna, che riconobbe subito. Erano nientemeno che la vecchia Costanza e l'orco gigante. Grandi feste appena li vide e Peppino si accorse con grande soddisfazione che erano tutti e due felici e sorridenti e Costanza sembrava ringiovanita, addirittura più bella. Anche lì strette di mano caloro-se e ringraziamenti. Costanza gli disse:
- Caro Peppino, per merito tuo, l'orco gigante è diventato un marito bravo e lavoratore.
- Allora sai tutto? - le chiese Peppino.
- Certo che so tutto. I primi tempi no, credevo che fosse una brava persona di passaggio, che si era offerta di aiutarmi e di starmi vicino, poi invece do-po sposati mi ha raccontato di come tu riuscisti a vincerlo con le mie due palle di ricotta e come lo convincesti a riportarmi la pecora. Te ne sono ve-ramente grata, Peppino. Ora non vivo più sola, mi sento più tranquilla e sto anche meglio in salute. E per ricompensarti ti ho portato un piatto pieno di ricotta e due belle forme di formaggio. Anche se le pecore ce le hai anche tu, ti prego di accettare il mio dono come segno di riconoscenza.
- Accetto tutto volentieri, Costanza, anche perché ancora non mungiamo le pecore, quindi siamo senza ricotta e senza formaggio fresco.
Fecero entrare anche loro, invitarono a pranzo anche loro, però Peppino era curioso. Era curioso di sapere come erano andate veramente le cose.
Così, intanto che Costanza si unì alle donne di famiglia per aiutarle a prepa-rare il pranzo, Peppino, con la scusa di far visitare la fattoria al marito, volle che gli raccontasse tutto dal principio.
- Intanto dimmi qual è il tuo nome. Non mi va di chiamarti Orco Gigante.
- Hai ragione, Peppino. Mi chiamo Nicola.
- Allora, Nicola, ti dispiace se mi racconti tutto quello che ti è successo prima di doverti nascondere nel bosco?
- Ti racconto tutto quello che vuoi, Peppino. Comincio a dirti perché ero costretto a stare nascosto. Intanto vivevo scapolo e da solo in una città molto lontana da qui. Lavoravo in una fabbrica di calzature e guadagnavo il mio salario. Una notte nella fabbrica avvenne un furto di parecchie centinaia di scarpe, si sospettò che vi fosse coinvolto uno degli operai e qualcuno fece alla polizia la mia descrizione...
- Tu invece non c'entravi?
- Puoi anche non crederci, ma io non c'entravo per niente.
- Perché non dovrei crederci? Allora?
- Allora, per non farmi arrestare, perché sapevo che se fossi stato preso, avrei fatto fatica a dimostrare la mia innocenza...
- Perché scusa?
- Peppino, ti ho già detto che vivevo da solo. Come facevo a far credere alla polizia, poi ad un giudice che quella notte stavo a dormire in casa mia? Non avevo testimoni. Quindi, per sfuggire alla cattura, pensai di andare molto lontano in un posto dove nessuno mi conosceva e senza farmi vedere da nessuno. Salii prima su un treno, poi su una corriera e arrivai da queste parti. Se avessi cercato una casa in affitto, prima o poi sarei stato scoperto, così pensai di rifugiarmi nel grande bosco dove mi hai incontrato.
- E questa volta cominciasti a rubare sul serio.
- D'altra parte dovevo pur mangiare. Se mi fossi presentato da qualcuno a chiedere lavoro, avrei rischiato di venire scoperto ugualmente.
- Beh, ma c'era bisogno di rubare tutta quella roba?
- Guarda, Peppino, che la gente esagera sempre. In fondo ho rubato da mangiare: qualche prosciutto, qualche salame, qualche pollo, frutta che tro-vavo nei campi. Sì, poi mi venne in mente di portare via anche animali vivi. Li avrei rivenduti in qualche fiera per avere un po' di soldi. Non potevo riti-rare quelli che avevo in banca. Avrei comunque rischiato. Dato che conosco un po' di francese, avevo intenzione di andarmene in Francia e ricominciare una nuova vita.
- E perché la sceneggiata dell'orco gigante?
- Io so che la gente di campagna è molto credulona e farle credere una cosa del genere, mi rendeva più facile il lavoro. Certo, una volta rischiai grosso, perché molti contadini vennero a cercarmi ma, preparando un po' di trappo-le e qualche trucco, riuscii a spaventarli e a farli retrocedere.
- Quali trappole, scusa? Che trucchi?
- Legare corde sulla punta di alcuni alberi e tirare da terra per scuoterli e dargli ad intendere che stessi per sradicarli e gettarglieli addosso. Oppure far precipitare un mucchio di pietre che avevo ammucchiato prima e altri gio-chetti del genere.
- Molto ingegnoso! Ma non avevi paura che ti denunciassero?
- Anche se mi avessero denunciato, i carabinieri non avrebbe mai creduto alla favola dell'orco gigante che sradica alberi, getta macigni e minaccia di farli in polpette da mangiare con le patate. Poi arrivasti tu e mi indicasti la strada giusta da percorrere. Mi è andata bene e te ne ringrazio di vero cuore. Ora sono felicemente sposato con Costanza, che è una brava donna e una brava moglie e sono contento di vivere con lei. Nel frattempo è stato arresta-to il vero complice dei ladri di scarpe ed io sono a posto anche con la legge.
- Mi ha fatto piacere, Nicola, che mi hai raccontato tutto questo. Ora an-diamo a mangiare che ormai il pranzo è pronto.
Nel lasciare la sua famiglia, Costanza e Nicola ringraziarono ancora Peppi-no che li aveva fatti incontrare e ripartirono con la loro motocicletta sgan-gherata.


Una piacevole sorpresa

La sorpresa più bella Peppino la ricevette una domenica verso la fine di giu-gno. Se ne stava tranquillamente nell'orto a raccogliere i primi pomodori, quando sentì un'automobile arrivare nell'aia. Non ci stette a fare caso, per-ché tra amici e parenti ne arrivavano diverse. Poi sentì una voce di uomo chiedere a suo padre:
- Abita qui un ragazzo di nome Peppino?
- Sì! - rispose il padre. - Adesso lo chiamo.
Peppino, dato che si parlava di lui, uscì dall'orto. Vide vicino all'auto un uomo, una donna e una ragazzina. La fissò un attimo e la riconobbe. Anche lei lo riconobbe e gli corse incontro con entusiasmo.
- Ciao, Peppino! Come stai?
- Ciao, Tizy! E tu?
- Io sto benissimo - e nel rispondere lo abbracciò e gli stampò due sonori bacioni sulla guancia, poi lo accompagnò dai genitori e disse tutta felice:
- Papà, mamma, vi presento Peppino!
I genitori gli strinsero cordialmente la mano e il papà disse subito:
- Grazie, Peppino, per quello che hai fatto per questa testa matta.
- Ti ringraziamo davvero di cuore - continuò la mamma.
Peppino capì che si era confidata con i genitori.
- Ma lo sa - continuò il padre della ragazza con suo padre - che questa ra-gazza si era messa in testa di abbandonare casa e scuola per andarsene in città per conto suo e se non incontrava Peppino a farle cambiare idea, a quest'ora chissà dove era finita e com'era finita?
Tizy, senza prestare attenzione ai commenti del padre, si rivolse a Peppino:
- Lo sai che sono stata promossa?
- Davvero, Tizy? Sono molto contento per te! E la scuola di canto.
- Abbiamo deciso di iscriverla - spiegò la madre, visto che per merito tuo, si è messa in testa di studiare sul serio.
Non c'è neanche da dirlo che furono invitati a restare a pranzo e ci si diede da fare a preparare le tagliatelle e a far fuori qualche altro animale da corti-le: questa volta toccò a due polli. Era quella una consuetudine quando arri-vavano ospiti. Però la ragazza disse subito a Peppino:
- Mi fai visitare la tua fattoria? Non mi capita spesso di osservare animali e piante dal vero.
- Certo, Tizy! Senti, ti dispiace se ti chiamo Tiziana? Mi pare un nome mol-to più bello.
- Ma sì, chiamami Tiziana!
- Allora cominciamo dalla stalla delle mucche?
- Cominciamo dalla stalla delle mucche.
Mentre s'avviavano attraverso l'aia, la ragazzina fu subito incuriosita dalle covate di pulcini e di ochette che le due chiocce si tiravano dietro e non sa-peva spiegarsi perché una fosse la madre dei pulcini, mentre l'altra delle ochette.
- Devi sapere, Tiziana, che le due chiocce non sono né le madri dei pulcini, né delle ochette. Hanno solo covato le uova.
- Non ho mica capito bene, scusa!
- Bisogna che ti dica tutto. D'altra parte queste cose ormai non si vedono più e non puoi saperlo. Anche noi spesso acquistiamo pulcini e ochette co-vati dall'incubatrice. Allora, tutte le galline fanno le uova e siccome abbia-mo anche il gallo, che adesso non so dove sia, forse in giro per i campi, tutte le uova sono fecondate. Ad un certo punto qualche gallina diventa chioccia. Qui non ti so spiegare bene. Gonfia le piume, diventa più calda, se ne sta sempre accovacciata, facendo quel verso che senti ora, come se volesse chiamare i pulcini. Mia madre, appena se ne accorge, prepara un cesto, lo sistema in un posto tranquillo, lo riempie di paglia, vi mette dentro una ven-tina di uova di tutte le galline e adagia sopra la chioccia a covare. Lei se ne resta tranquillamente nel cesto per ventuno giorni e scende a terra solo qual-che volta giusto per mangiare e bere nelle ciotole che mamma ha preparato lì accanto e anche per fare i suoi bisogni. Dopo ventuno giorni di cova co-minciano a nascere i pulcini. Man mano che nascono, mia madre li mette dentro un cestino imbottito per tenerli al caldo. Quando sono nati tutti, li af-fida alla chioccia, che li cura finché non sono diventati grandi abbastanza da arrangiarsi per conto loro.
- E le ochette invece?
- Per le ochette è la stessa cosa. Abbiamo le oche e abbiamo anche il ma-schio che feconda le femmine. Quando c'è un'altra gallina che diventa chioccia, mia madre le mette a covare le uova delle oche. Non tante, perché altrimenti non riuscirebbe a scaldarle bene. Quando sono nate tutte, la chioccia se le porta dietro come se fossero figlie sue.
- Perché non si fanno covare dalle oche?
- Anche qui non ti so spiegare il perché, ma in campagna, almeno da queste parti, le oche non covano mai, allora si preferisce far covare le uova alle chiocce.
- Lo sai, Peppino, che tutte queste cose non le sapevo? Andiamo a vedere le mucche?
- Sì! Ci sono pure i vitellini.
Anche lì la ragazzina di paese non mancò di meravigliarsi.
- Quanto sono carini! Li posso toccare, li posso accarezzare? Non è che le madri...
- Certo sono un po' gelose, ma ormai sono abituate. Accarezzali pure.
Mentre Tiziana accarezzava all'uno e all'altro il musetto con delicatezza, le mucche con il loro lungo muso la guardavano sospettose, ma si limitarono a guardare.
- Queste mucche, Tiziana, fanno il latte che vendiamo alla centrale. Magari qualche volta lo hai preso al supermercato e bevuto senza sapere che fosse mio.
- Ah! Può darsi! Ma il latte, Peppino, come fanno a dartelo le mucche? Lo sai che non ci ho mai pensato?
- La produzione del latte, Tiziana, è lì sotto in mezzo alle zampe di dietro. Guarda le mucche con i vitellini. Hanno le mammelle così grosse, perché allattano. Ma siccome di latte ne hanno tanto, una parte lo beve il vitellino e una parte lo dà a noi da vendere. Se invece osservi quella lì, per esempio, che partorirà fra un mese e mezzo, ha le mammelle molto più piccole, per-ché il latte non c'è ancora.
- Ma come fai, scusa, a prenderlo?
- Ecco, guarda!
Peppino si avvicinò ad una mucca, strinse un capezzolo tra le dita, mise l'altra mano sotto chiusa a coppa e lo tirò un po', dirigendovi lo schizzo di latte, poi stese il braccio verso la ragazza.
- Profuma proprio di latte - osservò lei dopo avere annusato.
- Siccome - continuò Peppino - di mucche ne abbiamo poche, le mungiamo a mano, come hai visto fare a me. Nelle stalle invece dove sono a centinaia, usano le mungitrici meccaniche, che sono come dei succhiotti che aspirano il latte direttamente dalle mammelle.
Tiziana ebbe un dubbio.
- Ma allora le mucche il latte non ce l'hanno sempre?
- Per alcuni mesi, ma non sempre. Comunque solo dopo che hanno partori-to, per allattare il piccolo o i piccoli. Infatti qualche volta ne fanno anche due.
- E il maschio, Peppino dove ce l'hai? Ci vuole anche il maschio, no, per fecondare le femmine?
- Il maschio, che sarebbe il toro, non l'abbiamo, perché vengono fecondate artificialmente.
- Che cosa significa?
- Ci sono dei centri specializzati dove vengono raccolti i semi dei maschi. Quando ci accorgiamo che la mucca è pronta per rimanere incinta, chia-miamo il veterinario il quale le inietta questo seme che è stato controllato e quindi siamo sicuri che non contiene malattie.
- Quante cose interessanti, Peppino, si imparano in campagna!
- Credo proprio di sì, Tiziana! Molto di più che studiare sui libri. E ora vuoi vedere gli agnellini?
- Sì, Peppino, sì!
La condusse nell'ovile dove alcune pecore avevano partorito e altre erano in attesa e lo si capiva benissimo dalla pancia molto gonfia.
Anche nell'ovile la ragazzina rimase entusiasta di quei cosini piccoli e bian-chi che trotterellavano intorno alle madri.
- Ne vuoi abbracciare uno? - le chiese Peppino.
- Sì, dai, fammelo abbracciare!
Peppino con pazienza s'intrufolò in mezzo alle pecore, cercò di afferrarne uno e lo portò fuori con la madre che cominciava belare. Tiziana lo strinse a sé con gioia come fosse un bambolotto e se lo accarezzò, appoggiandosi il musetto accanto alla sua guancia, ma a sentire i belati del piccolo e quelli della madre, provò quasi un dispiacere.
- Riportaglielo, Peppino. Mi fa pena a sentirla!
- Sapessi, Tiziana - le disse dopo averlo riconsegnato alla pecora - quanto belano dopo che sono stati portati via gli agnellini! Continuano per alcuni giorni e sembrano inconsolabili.
- Perché glieli portate via, Peppino?
- Li vendiamo al macellaio.
- Quindi vengono uccisi! - esclamò la ragazzina con apprensione.
- Succede, Tiziana! Quando vai dal macellaio o al supermercato e tua ma-dre compera carne di agnello, si tratta proprio di un agnello come quello che hai abbracciato tu. L'hai mangiato qualche volta, credo.
- Sì, l'ho mangiato, ma ti giuro che d'ora in avanti non voglio mangiarlo più. Mi verrà sempre in mente quello tanto carino che mi hai fatto tenere tra le braccia.
- E' sempre così, Tiziana. Andando a comprare un pezzo di carne o un etto di prosciutto o di salame, non ci rendiamo conto che quella carne è apparte-nuta ad un animale vivo.
- Sì, infatti è così, Peppino. Non ci avevo mai pensato davvero.
- Credo che non ci dobbiamo pensare troppo. Questa è la natura. Ci si nutre a vicenda. E ora ti va di vedere i maiali.
- Sì, certo! Anche se mi verranno in mente le fette di prosciutto che ho mangiato ieri sera.
Anche di fronte ai maiali Tiziana rimase meravigliata, ma più che da quelli d'ingrasso, a vedere i maialini che correvano tutti a bere il latte della madre con lei tranquillamente sdraiata su un fianco che li richiamava e li rassicura-va con i suoi leggeri grugniti.
- Questi però, Tiziana, non posso farteli prendere in braccio. La madre è molto gelosa e ci salterebbe addosso.
- No, no, per carità! Sono contenta lo stesso di guardarli da qui.
- La natura, dicevamo prima. Tu pensa, io li ho visti tante volte. Nascono da dietro come credo che tu sappia e, benché ancora ad occhi chiusi, fanno il giro della zampa, che è abbastanza lunga e vanno a cercare i capezzoli che, come vedi, a differenza delle mucche, sono distribuiti lungo tutta la pancia.
- Come fanno, Peppino?
- È la natura, si dice. È l'istinto si dice ancora. È il miracolo della natura, direi io.
- È tutto molto bello, Peppino! È tutto molto bello! - andava ripetendo la ragazzina.
Stavano uscendo dalla stalla dei maiali, quando venne il fratello a chiamarli.
- Ma dove l'hai portata? - esclamò. - Proprio nella stalla dei maiali dovevi portarla?
- No, no! Mi è piaciuto - rispose lei. - Non li avevo mai visti.
- Venite, ragazzi! - aggiunse. - Il pranzo è pronto.
Mentre mangiavano, Tiziana raccontava ai suoi genitori con grande interes-se tutte quelle cose che aveva visto per la prima volta, mentre il padre e i fratelli di Peppino sorridevano.
- Noi le vediamo tutti i giorni e non ci fanno più effetto.


Un dolce sentimento

- E ora che cosa mi fai vedere? - chiese Tiziana a Peppino, usciti sull'aia dopo il pranzo.
- Di animali non c'è altro. Se ti va, posso farti vedere l'orto.
- Dai, andiamo.
Certo, un conto è vedere fave, piselli, peperoni, pomodori, cetrioli, zucchi-ne, patate e altro dentro alla cassetta del fruttivendolo, un altro conto è os-servarli nel posto dove crescono. E sul posto dove crescono Tiziana non li aveva mai visti.
Quello era un orto molto grande, quasi tutto in piano con qualche zona in leggera discesa, recintato da una rete abbastanza alta per impedire a galline e a pecore di fare razzia, disseminato qua e là da alberi da frutto. Vi si en-trava attraverso un cancelletto, che Peppino si chiuse dietro per evitare che vi andasse qualche gallina. Era diviso in vari appezzamenti, alcuni più este-si, altri più ristretti, a seconda della quantità di raccolto necessaria alla fami-glia. Lì dentro c'era di tutto, tanto che Tiziana esclamò meravigliata:
- Questo, Peppino, mi sembra un grande supermercato!
- Lo è infatti - rispose Peppino. - E' un supermercato che costa fatica prima, ma offre tutto gratis dopo.
- Belli i pomodori! - andava dicendo Tiziana. - Come mai ci avete messo i paletti?
- Perché i loro fusti, come quelli dei piselli che vedi lì, non sono molto resi-stenti, non riescono cioè a reggersi dritti da soli, perciò, se non ci fossero i paletti, finirebbero per allungarsi distesi sul terreno, poi i pomodori, a con-tatto delle terra umida, comincerebbero a marcire. Invece lasciamo serpeg-giare sul terreno le zucchine.
Tiziana le osservava, alcune abbastanza grandi come quelle che si vendono, altre appena accennate e tra i rametti anche molti grossi fiori gialli, come campanelle con tante punte. E dentro ai calici notò diverse api che si rim-pinzavano di nettare e quando uscivano, prima di spiccare il volo, avevano una pallottolina gialliccia appiccicata alle zampine.
- I fiori sono anche un bottino per le api - esclamò la ragazzina.
- Solo che, in cambio del bottino di nettare - spiegò Peppino - ci danno la possibilità di raccogliere le zucchine.
- Perché? - chiese curiosa.
- Adesso ti spiego. Le zucchine hanno fiori maschili e fiori femminili.
- Ma davvero! E tu come fai a distinguerli?
- Avvicinati e li faccio distinguere anche a te.
La ragazza si inginocchiò accanto a Peppino, senza preoccuparsi di sporcare i calzoni.
- Per me sono tutti uguali.
- Guarda bene dentro. Questo ha una specie di dito ed è il fiore maschile. Invece quest'altro, vedi? Sembra quasi una coppettina con i bordi in dentro: è quello femminile. Solo dal fiore femminile crescono le zucchine, a patto che le api e altri insetti in cerca di nettare, trasportino su di esso la polverina gialla del fiore maschile. Naturalmente non lo fanno di proposito. Si sporca-no l'addome volando da un fiore all'altro. Se questo non avvenisse, si for-merebbe sì una zucchina piccola piccola, che però appassirebbe subito dopo.
- Non è possibile, Peppino! Non ci posso credere!
- Eppure, Tiziana, è così. Io non me ne ero accorto, non ci avevo mai fatto caso. Me l'ha detto un mio compagno di scuola in paese, che è andato avanti a studiare e adesso mi sta insegnando ad usare il computer. Per curiosità aveva piantato alcune zucchine in un vaso in balcone. Ma si era accorto che, formatasi la zucchina, dopo qualche giorno appassiva. Allora gli venne in mente, visto che sul balcone gli insetti non si vedevano, di strofinare un ba-tuffolo, di quelli con il bastoncino che servono per pulirsi le orecchie, prima sul fiore maschile, poi su quello femminile e riuscì ad avere le zucchine bel-le grandi come tutte le altre.
- Quante cose sai, Peppino, e come è straordinaria la natura! - esclamò la ragazza.
- La natura, Tiziana, te l'ho già detto, è come un grande libro. Però bisogna avere la pazienza di leggerlo con molta attenzione e con molto interesse.
- È bello stare qui, Peppino! - disse ancora. - Con questo silenzio, con que-sta calma, ci si sente diversi, più sereni, più rilassati. Perché non ci sediamo un momento, che si sta così bene?
- Se vuoi, sediamoci, Tiziana!
Sedettero ai piedi di un pero che aveva intorno al tronco un cerchio di erbet-ta fresca. Guardando in alto, si vedevano pendere una gran quantità di frutti. Così com'erano seduti, erano spalla a spalla. Ad un certo punto, la ragazzina, dopo un attimo di silenzio, girò la testa verso di lui e gli disse con una punta di trepidazione.
- Lo sai, Peppino, che durante questo mese e mezzo io ti ho pensato molto? Non vedevo l'ora che i miei genitori mi accompagnassero qui. Ho fatto del tutto per essere promossa, per poter venire da te. Tu, Peppino, mi hai pensa-to qualche volta?
A Peppino quel discorso, in quella posizione, con quella vicinanza, creava un briciolo di disagio.
- Beh, certo... mi sei venuta in mente spesso. A volte, la sera, quando stavo a letto, prima di addormentarmi, mi accorgevo di pensare a te.
- Davvero, Peppino?
- È così! Perché devo dirti una bugia?
- Peppino! - e lo fissò.
- Dimmi, Tiziana!
- Non ti offendi vero, se...
- Se? - rispose lui con il disagio che aumentava.
- Se... - continuò lei, quindi gli prese delicatamente il viso tra le mani e gli posò un leggero bacino sulle labbra. - Non ti sei offeso, vero?
- No, non mi sono offeso. Solo che io...
- Lo so, lo so! L'ho capito subito. Sei tanto buono, sei tanto caro, ma sei anche tanto timido. Se io, Peppino, un domani mi dovessi sposare, vorrei sposare uno come te, ... cioè... vorrei sposare te.
- Esagerata! - rispose lui con un tremolio di voce. - I tuoi genitori, magari, non sono d'accordo.
- Che cosa c'entrano i miei genitori? Fra un paio d'anni divento maggio-renne, allora posso decidere da sola.
- Il fatto è che io sono un contadino, invece tu un domani avrai un titolo di studio grosso così.
- Io, Peppino, sono una che non guarda a queste cose. Poi, titolo di studio sì, titolo di studio no, sai molte cose più di me. Ma tu, Peppino, mi sposere-sti?
Gli ci vollero diversi secondi prima di rispondere.
- Credo... credo che una ragazza così... carina e simpatica, la sposerei pro-prio.
- Allora, affare fatto! - gli prese ancora il viso fra le mani e gli diede un al-tro bacio, questa volta con più trasporto. - E adesso fammi vedere altre cose, altrimenti va a finire che ti abbraccio qui in mezzo all'orto, con il rischio che mi vedano papà e mamma, così non mi accompagnano più a casa tua.
Si alzò, gli prese la mano e fece alzare anche lui. - Adesso che cosa mi fai vedere?
- Adesso... mi hai un po' scombussolato, Tiziana. Non so...
- Sono un po' scombussolata anch'io. Vieni! Fammi distrarre con qualche altro mistero della natura.
Camminando mano nella mano, con un occhio fuori dal recinto, erano giunti davanti ad un appezzamento abbastanza esteso di tante pianticelle basse e verdi.
- Che cosa sono?
- Patate.
- Mi fai vedere come si fa a tirarle fuori?
Peppino lasciò andare la mano di Tiziana, posizione che gli dava piacere e disagio nello stesso tempo, disagio che qualcuno li vedesse, quindi afferrò con entrambe un ceppo di piante e tirò su con forza. Diverse patatine rima-sero attaccate alle radici, mentre altre molto più grosse, restavano nascoste tra le zolle smosse. Peppino, trascinò via la terra con una mano e le mise al-lo scoperto.
- Prima di andare via te ne raccolgo una borsa piena, così ti potrai preparare un bel minestrone.
- Grazie, Peppino. Saranno più buone, perché me le hai date tu.
Intanto Tiziana aveva scoperto diversi animaletti, piccoli coleotteri sembra-vano, di color marrone con le elitre striate, che passeggiavano sulle foglie verdi.
- Anche questi raccolgono il nettare? - chiese.
- No! Queste sono proprio dannose. Rosicchiano le foglie delle patate.
- Che insetti sono? Come si chiamano?
- Dorifore - spiegò Peppino e per dimenticare quel tremolio dentro, causato dalla sua timidezza innata, con la ragazzina che, di tanto in tanto, gli dimo-strava la sua affettuosità con qualche carezza sui capelli, si diede ad un'altra lezione di scienze, appresa direttamente sul posto, osservando con i propri occhi. - Sono insetti, ti dicevo, molto dannosi, che pare siano arrivati da noi verso la fine della guerra. Sulle patate vivono, si nutrono e si riproducono in tutto il loro ciclo vitale. Cominciamo dagli adulti. Sono quelli che vedi. Ogni tanto si accoppiano, poi la femmina depone le uova. Adesso vedo se riesco a trovarne due.
Cercò un po' tra le foglie, poi ne strappò una e la porse a Tiziana e lei poté osservare due dorifore, una aggrappata sulle elitre dell'altra, con la punta degli addomi uniti.
- Interessante! - esclamò. - E dopo?
- Dopo la femmina depone le uova nella parte sotto della foglia - e andò al-la ricerca della foglia adatta che passò di nuovo alla ragazza.
- Questo grappoletto marroncino - fece lei - sarebbe l'origine della loro vi-ta. Ma perché le depongono nella pagina inferiore?
- Credo che i motivi siano almeno tre: per non farle vedere a qualche insetto che potrebbe mangiarle, per ripararle dal sole e per proteggerle dalla piog-gia.
- Sono intelligenti! - esclamò la ragazza.
- Credo che la natura, questa meraviglia che ci circonda, sia tutta intelligen-te, capace di riprodursi nel modo migliore. Vogliamo raccogliere un po' di pere? Però bisogna lavarle.
Si staccò da lei, s'aggrappò ai rami bassi di un però, lo tirò in giù e fece raccogliere le pere a lei stessa.
- Lo sai, Peppino, che è la prima volta che raccolgo i frutti direttamente dal-la pianta?
- Per me invece è una cosa che succede da sempre. Il rubinetto è dietro a quel bidone, dove prendiamo l'acqua per annaffiare. Puoi lavarle lì.
Mentre la ragazza le stava lavando, si sentì chiamare. Era il padre che le di-ceva di cominciare a prepararsi per la partenza.
Peppino disse subito a suo padre:
- Ho promesso a Tiziana una borsa piena di patate.
- Solo le patate? - rispose il padre. - Abbiamo tanta di quella roba, che ce n'è per tutti.
Così le borse piene diventarono tre. Contenevano pere, patate, pomodori, sedano e prezzemolo, che i genitori di Tiziana e soprattutto la madre, gradi-rono moltissimo.
- Se venite a trovarci di nuovo, ce ne sarà ancora - disse loro il padre di Peppino.
Mentre caricavano la macchina, salutando e ringraziando, la ragazzina disse a Peppino:
- Vorrei vedere ancora i vitellini. Mi accompagni?
Peppino l'accompagnò, ma quando furono nella stalla, Tiziana gli si mise davanti e gli disse:
- Non volevo rivedere i vitellini. Volevo salutare te, in privato.
Gli passò le braccia intorno al collo e prese a baciarlo. Siccome Peppino ri-maneva lì così senza fare niente, lei gli sussurrò:
- Non fare il timido. Stringimi la vita con le tue braccia.
Peppino seguì il consiglio, la strinse a sé e continuò a baciarla anche lui, mentre le mucche con il muso voltato verso di loro, osservavano quella sce-na inconsueta che non avevano mai visto prima.
Poco dopo la ragazza si sentì chiamare di nuovo:
- Dai, Tiziana con questi vitellini! Andiamo, ché è tardi.
Allora si staccò da lui e guardandolo affettuosamente negli occhi, gli disse:
- Peppino, farò in modo di venirti a trovare appena possibile. Tu però con-tinua a pensarmi - e se ne andò via correndo verso la macchina.
Da dentro lo salutò ancora con la mano e lui rispose sventolando la sua, con il cuore che correva a precipizio.

Non può sposare un contadino

Quando Peppino andava a dormire, sia pure stanco per il lavoro della gior-nata, rimaneva a lungo con le mani sotto la testa a pensare, prima di addor-mentarsi e ragionando, diceva tra sé:
- Se Tiziana mi vuole sposare davvero, non posso mica farle sposare un contadino! Bisogna che anch'io mi procuri un titolo di studio, così imparerò bene anche a dire lei alle persone che non conosco.
Detto fatto, una sera, quando capitò l'amico che gli dava lezione di compu-ter, glielo disse:
- Senti, Luigi, tu mi devi dare un consiglio.
- Dimmi! Se sono in grado di dartelo...
- Ecco, a me è sempre piaciuto leggere, studiare, anche se faccio il contadi-no. Alla mia età si può prendere un titolo di studio?
- Certo che si può!
- E come devo fare?
Luigi gli indicò un paesotto ad una decina di chilometri, dove si tenevano alcuni corsi serali per chi voleva appunto prendere un diploma. Siccome erano sovvenzionati dalla Regione, non si doveva neanche pagare.
- E tu quale titolo mi consiglieresti? - gli chiese ancora.
- Mah! Potresti fare ragioneria. Ti può offrire parecchie possibilità: impiego in una banca, contabilità in qualche ditta, puoi mettere su un ufficio in pro-prio e altre ancora.
Vada per ragioneria! - esclamò Peppino.
Il giorno dopo si fece accompagnare dal fratello in macchina, prese tutte le informazioni e si iscrisse alla scuola serale per il prossimo settembre.
- Chissà come sarà contenta Tiziana - pensava tra sé - a sapere che anch'io voglio prendere un titolo di studio.
A tavola ci furono diverse discussioni con i familiari. Il padre diceva di es-sere d'accordo, ma temeva che non ci sarebbe riuscito.
Qualche fratello cominciava a brontolare:
- Che ti vuoi mettere a fare adesso? Prima il computer, poi la scuola sera-le... Noi non vogliamo mica lavorare la terra per te!
Ma Peppino aveva le sue risposte pronte.
- Prima di tutto alla scuola vado di sera e non devo trascurare i lavori dei campi. Poi siamo quattro fratelli. Ci staremo un domani a vivere tutti assie-me in questa casa con le nostre mogli e i nostri figli? Qualcuno se ne dovrà andare. Allora ad andarmene sarò io. Poi - aggiunse con una punta di rosso-re - Tiziana ha detto che mi vuole sposare. Non posso mica farle sposare un contadino!
- Quella ragazzinetta vuole sposare te? Ma se neanche lo sa che cosa signi-fica sposarsi! - rise un altro fratello.
Intervenne il nonno.
- Se Peppino ha deciso di studiare, lasciamo che studi. Non deve mica ri-manere ignorante come noi! Poi se quella ragazza gli ha detto che lo vuole sposare, voi che ne sapete di quello che sanno le ragazze di città? Peppino - aggiunse - tu fa' quello che hai deciso. Il nonno è d'accordo con te.
E visto che il nonno era d'accordo con lui, lo dovevano essere per forza tutti gli altri. Quindi, pur continuando lavorare la campagna, aveva il suo pensie-ro là, a quella scuola serale che gli avrebbe permesso di prendere un titolo di studio e quindi di far sì che Tiziana non sposasse un contadino.
Intanto continuava il corso di computer tenuto a domicilio, perché l'amico veniva lui a casa ed era ripagato in natura: una volta una borsa di patate, un'altra un cesto di pomodori, un'altra ancora un paio di conigli bell'e pron-ti da cuocere. Per la famiglia di Peppino non rappresentavano una spesa, mentre erano molto utili a gente di paese, che doveva comprare tutto.
Così, sera dopo sera, aveva imparato a riconoscere i vari componenti: il computer vero e proprio, il monitor, la tastiera, il mouse, la stampante e a trovare le prese giuste per poterli collegare. Cominciava a saperlo accende-re, a cercare un programma, a leggere un cd rom, a stampare una lezione dall'enciclopedia contenuta nel computer. E cominciava di tanto in tanto a ricevere qualche telefonata da parte di Tiziana, che una sera gli disse:
- Peppino, ho tanta voglia di rivederti e sono riuscita a convincere i genitori a farmi accompagnare di nuovo da te. Domenica vengo a trovarti.
Fu una grande emozione per Peppino e un gran da fare per tutta la famiglia. Sapere che sarebbe venuta quella ragazzina che gli aveva detto di volerlo sposare, non si poteva non preparare un pranzo tutto speciale. Questa volta furono fatte fuori due oche di quelle più grasse e alcuni conigli. Non ci si poteva accontentare delle solite tagliatelle. Ci volevano le lasagne al forno. Quindi tutte le donne si misero in opera a spennare, a pulire, a tagliare, a preparare la sfoglia con le uova per le lasagne, a preparare il sugo con i fe-gatelli delle oche e dei conigli. Il mattino della domenica toccò agli uomini accendere il forno, spillare il vino dalle botti, preparare tutto l'occorrente. Quando verso le dieci giunse la macchina con Tiziana e i suoi genitori, già tutto il pranzo stava cocendo dentro il forno a legna e il gustoso profumo si espandeva tutto intorno.
Appena lo vide, Tiziana lo abbracciò forte forte e lo baciò sulle labbra lì di fronte a tutti, tanto che Peppino diventò rosso rosso. E mentre gli adulti si salutavano tra di loro, la ragazza lo prese sottobraccio e si allontanò dal gruppo.
- Ho visto che ci sei rimasto male, Peppino! Non ti preoccupare. Papà e mamma lo sanno.
- Allora, Tiziana, mi vuoi ancora sposare?
- Certo! Perché, tu hai cambiato idea?
- Non l'ho cambiata per niente - rispose Peppino serio. - Ma siccome non voglio farti sposare un contadino, ho deciso di prendere un diploma anch'io.
- Dici sul serio? Che diploma?
- Mi sono iscritto alla scuola serale di ragioneria e a settembre comincio.
- Bravissimo, Peppino! Sono tanto contenta per te! - e lo abbracciò di nuo-vo.
- E sto anche imparando ad usare il computer.
- Davvero? Fammi vedere quello che sai fare.
Così, mentre gli adulti nell'aia parlavano del più e del meno e i genitori dei rispettivi ragazzi commentavano a volte scherzando, a volte parlando seria-mente, il fatto che i due ragazzetti, ancora adolescenti, si fossero messi in testa di volersi sposare, Peppino e Tiziana, piazzati davanti al computer, si immersero in tutte quelle immagini virtuali che l'apparecchio era in grado di offrire e restarono lì fino all'ora di pranzo.
Il pranzo fu davvero straordinario, lodato dagli ospiti per la bontà, per la squisitezza e soprattutto per la genuinità, mentre i due ragazzi che, ovvia-mente, sedevano vicini, appena mangiato si isolarono per conto loro a parla-re di quello che solo a loro interessava di più.
Quando se ne andarono, la macchina venne caricata più della volta prece-dente, con la promessa di tornare a trovarli presto. Tiziana e Peppino, questa volta senza doversi nascondere, si abbracciarono e si baciarono lì di fronte a tutti, con lui che ormai si sentiva meno a disagio, promettendosi di telefo-narsi tutte le sere.
Nei giorni che seguirono, Peppino oltre ad essere in continuo contatto con Tiziana, si perfezionava sempre di più con il suo computer e cercava di ac-quistare libri per cominciare in anticipo a prepararsi per la scuola serale. Il mese di luglio andò con il fratello al matrimonio di Gerardo che al ritorno dal viaggio di nozze, come convenuto, gli portò un motorino nuovo in cam-bio del suo usato e ci furono altre visite di Tiziana.
Il tempo passava in fretta e la mente di Peppino era ormai proiettata al me-se di settembre quando avrebbe iniziato la scuola di ragioneria, per non far sposare a Tiziana un contadino.
E verso la fine di agosto, improvvisamente, senza preavviso, capitarono a casa sua tre giovani negri, uno dei quali chiese al padre con un accento pale-semente straniero:
- Io cerco Peppino! Abita qui?
Il padre andò a chiamarlo, che era tutto indaffarato con il suo computer. Peppino, appena lo vide, lo riconobbe subito e gli strinse la mano.
- Ciao, François! Ti sei deciso finalmente a venire da queste parti.
- Sì, Peppino! - rispose lui. - Sono stufo della vita di città. Ti presento que-sti due amici. Anche loro paisani... come si dice?
- Contadini.
- Anche loro contadini come me e come te. Ci aiuti Peppino a trovare lavo
ro?
La gente di campagna ha un grande cuore ed è meno diffidente di quella di città. Con la collaborazione dei fratelli e del padre, Peppino riuscì a siste-marli in qualche casa di contadini dove, per scarsità di braccia, c'era biso-gno di manodopera. Così poterono dormire, sia pure in una soffitta, su letti veri, disporre di acqua e sapone per lavarsi, lavorare in campagna, ricevere un discreto salario e mangiare tre volte al giorno tutti i giorni.
Arrivò anche il mese di settembre, iniziò la scuola serale in quel paesotto ad una decina di chilometri da casa sua, che raggiungeva con il motorino nuo-vo, mentre se pioveva l'accompagnava il fratello in macchina.
Ora gli unici progetti della sua mente erano due: prendere il diploma di ra-gioniere e diventare abbastanza grande per sposare Tiziana. Ci si mise con impegno e decise di affrontarli senza paura e senza difficoltà perché, come s'era proposto fin dall'inizio, niente può fare paura, se uno la paura non ce l'ha dentro e non esistono difficoltà insuperabili, se uno non ha paura di af-frontarle.

FINE


 

webmaster Fabio D'Alfonso


 
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