Il movimento zelota ai tempi di Gesù
di Roberto Colella

 

 

Ai tempi in cui Gesù fu processato da Ponzio Pilato, la terra d'Israele prolificava di movimento politici. Uno su tutti quello degli zeloti che si batteva per l'indipendenza da Roma e che poi sarà annientato dagli stessi romani.
In origine il termine zelota fu applicato ad ardenti osservanti della Legge e nemici della denominazione straniera ma in seguito contrassegnò solo i nemici di tale denominazione.
Come partito politico gli zeloti erano seguaci di Giuda Galileo che guidò una rivolta antiromana al tempo del procuratore Quintilio Varo. Anche al tempo del procuratore Tiberio Alessandro, che fece uccidere Giacomo e Simone figli di Giuda, gli zeloti dovettero mostrarsi molto attivi. Essi ebbero una parte di primo ordine nella rivolta del 66-70, sotto la guida di Eleazaro, che dopo la valorosa difesa del Tempio, ottenne la fortezza di Masnada sino alla primavera del 73.
Flavio Giuseppe spesso chiamo gli zeloti (sicari) per via della piccola sica (pugnale) con cui compivano le loro vendette contro soldati romani isolati e contro ebrei filo-romani. L'apostolo Simone da non pochi esegeti è considerato un'ex zelota. Egli infatti è chiamato Simone il zelota. Ma in tal caso l'aggettivo andrebbe preso piuttosto nel suo significato di diligente osservante delle Legge.
Quindi compreso chi erano gli zeloti, sorge un dubbio. Secondo alcuni storici contemporanei Gesù sarebbe stato un capro espiatorio per un'azione di insurrezione organizzata proprio dagli zeloti. I sacerdoti del Tempio sapevano dell'innocenza di Gesù. Ma c'era bisogno di distrarre i romani in qualche modo per effettuare i preparativi di ribellione.
Il movimento zelota fu annientato. Restano però irrisolti diversi interrogativi. Innanzitutto cosa c'è di vero in questa storia? E'possibile che Gesù sia stato vittima di un tentativo di insubordinazione?
Per avere maggiori delucidazioni ho provato a chiederlo alla Professoressa Emanuela Prinzivalli docente di Storia del Cristianesimo all'Università La Sapienza di Roma.


 

 

Contributo della
Professoressa Emanuela Prinzivalli docente di
"Storia del Cristianesimo"
Università di Roma "La Sapienza"

 

Il giudaismo dei tempi di Gesù consisteva in una realtà multiforme ed efflorescente, sia pure con alcune certezze generalmente condivise: il culto monoteistico di Dio, il Tempio, il ruolo della Torah. Ma, al di là di queste certezze, la ricchezza e pluralità di voci era tale da spiegare bene, fra l'altro, l'avvento di quella di Gesù, che presenta, oltre alla condivisione del comune giudaismo, da un lato affinità con tanti aspetti del poliedrico contesto storico e dall'altro spiccati tratti di originalità.
Fra le voci che suonarono più forte nel senso di una diretta incidenza sulle traversie della Palestina del I secolo, ci fu quella del movimento rivoluzionario zelante, protagonista dei tentativi di liberazione della Giudea dai romani, nel periodo che va dal passaggio della Giudea a provincia romana alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). La denominazione "movimento rivoluzionario zelante" non è nell'uso storiografico.
La propongo qui per comodità a preferenza di altre al fine specifico di ricordare che è difficile scegliere una denominazione precisa e univoca per un' ampia corrente, probabilmente ulteriormente divisa al suo interno a causa delle lotte dei singoli capi per l'egemonia del movimento.
Fino a tempi non lontani lo scrittore giudeo Flavio Giuseppe rappresentava la fonte migliore e pressoché unica per la conoscenza delle divisioni interne al giudaismo del I secolo d.C.
Ora, a seguito delle importanti scoperte archeologiche che hanno portato al recupero della biblioteca di Qumran, possediamo finalmente fonti dirette di estrema importanza sugli esseni ivi stanziati, ma la classificazione e sistematizzazione di Flavio Giuseppe, che esamineremo poco appresso, ancorché non priva di aporie, continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile.
Con il movimento di liberazione giudaico Flavio Giuseppe ebbe a che fare direttamente, in quanto prese parte alle vicende di belligeranza antiromana. Su ciò abbiamo due suoi resoconti, nella Guerra giudaica e nella Autobiografia, i quali presentano parziali divergenze nell'apprezzamento del proprio ruolo.
Nella prima opera Giuseppe, senza dare ragione dell'antefatto, si presenta come uno dei capi scelti dai ribelli per dirigere le operazioni, nel suo caso nei territori delle due Galilee e di Gamala; nella seconda opera invece si mette sulla scena già a partire dalla fase di gestazione della rivolta, assegnandosi il ruolo di moderatore che fino all'ultimo spera nella composizione dello scontro con i romani e solo quando tutti i tentativi di pace sono falliti parte per il fronte della Galilea.
Non è agevole discernere le reali intenzioni di Giuseppe dietro le discordanze dei due resoconti, ma quel che è certo è che non fu facile vivere quelle disperate illusioni: probabilmente le differenti narrazioni sono la spia, rivissuta e rielaborata dalla memoria, delle azioni contraddittorie di quei giorni, e molti furono i tormenti di chi, come Giuseppe, era consapevole dell'inferiorità di mezzi dei rivoltosi e quindi dell'inevitabile catastrofe.
Quando tutto è perduto, Giuseppe, a Jotapata, rifugiatosi in una cisterna con alcuni compagni, finisce per consegnarsi ai romani, mentre tutti gli altri, eccetto l'ultimo rimasto insieme con lui, si erano dati reciprocamente la morte.
Una volta prigioniero, la sua sorte cambiò decisamente in meglio quando profetizzò il futuro impero a Vespasiano, il generale vittorioso in Galilea (Bell. II 400).
Avveratasi la profezia, Giuseppe, preso il nomen della gens Flavia, entrò a far parte del seguito del nuovo imperatore. Questi i fatti principali della vita dell'uomo che si incaricò di far partecipe il mondo colto dell'epoca delle vicende e della cultura del suo popolo.
Le motivazioni del suo gesto di autoconsegna ai romani, ovviamente bollato dagli ex-compagni di lotta come tradimento, non furono certo improntate al solo desiderio di salvare la pelle, ma anche, e forse soprattutto, a dubbi nutriti da tempo sulla conduzione e sulle finalità del movimento di liberazione: in ogni caso, il vissuto drammatico di Flavio Giuseppe non poteva renderlo incline, a posteriori, a cercare di comprendere e a fare comprendere le ragioni dei ribelli, sui quali egli faceva ricadere la colpa della tragedia dei giudei, e men che mai a una narrazione obiettiva (ma è possibile una narrazione obiettiva, in special modo degli avvenimenti nei quali si è giocata la propria vita?).
Nella Guerra Giudaica Flavio Giuseppe ci dà la descrizione, sulla base di parametri concettuali comprensibili al lettore di cultura greco-romana, delle tre principali sette giudaiche del tempo (Bell. II,142ss.): sadducei, farisei ed esseni. Articola su queste un discorso riguardante le loro credenze circa Dio e il destino (la provvidenza), il libero arbitrio e l'immortalità. Per i sadducei tutto dipende dall'uomo, per i farisei c'è sinergismo fra uomo e Dio, mentre per gli esseni tutto è determinato da Dio (o destino). I sadducei negano ogni aldilà, i farisei credono nella resurrezione dei giusti, gli esseni credono nell'immortalità dell'anima di buoni e malvagi, destinata a premi e pene.
Dietro la trascrizione filosofica di Giuseppe è evidente l'apprezzamento complessivo delle tre sette, che rappresentano per lui la parte pensante e presentabile del giudaismo.
Invece i "briganti", i capipopolo che hanno spinto alla guerra i concittadini, sono coloro che hanno condotto, con i loro peccati, alla rovina di Gerusalemme e del Tempio, forzando la mano agli stessi Vespasiano e Tito, che non avrebbero voluto una fine così miserevole e sanguinosa per i loro nemici. Con la designazione di briganti Flavio Giuseppe viene a negare dignità di intenti alla setta che aveva spinto alla rivolta.
La situazione cambia un poco nelle Antichità Giudaiche, laddove Flavio Giuseppe si decide a parlare non più di tre, ma di quattro sette, aggiungendo la "quarta filosofia", su un piano di parità rispetto alle altre, quella fondata da Giuda il Galileo (Ant. 18,1,6) e dal fariseo Sadduk per opporsi al censimento fiscale voluto da Quirinio, dopo che Giudea e Samaria furono direttamente sottoposte all'amministrazione romana, a seguito della deposizione di Archelao (6 d.C.). Data tale generica definizione di "quarta filosofia" e il pullulare in Giuseppe di vari nomi per designare partiti o gruppi partecipanti alla guerra contro Roma, con una voluta atomizzazione del movimento, è sotto questione, e negli ultimi tempi sempre più contestata, l'identificazione tout court degli zeloti, o di qualsivoglia altro specifico gruppo di ribelli, con la quarta filosofia.
Tuttavia la dimostrazione avanzata da Hengel a favore di una base ideologica unitaria per il movimento di liberazione a partire da Giuda il Galileo pare ancora ricostruzione plausibile.
Senza un fondamento ideologico condiviso, aldilà delle divisioni interne, da tutti i gruppi di rivoltosi non si comprenderebbero la forza e il consenso del movimento di lotta, mentre ben si intuiscono i motivi di prudenza che condussero Giuseppe a occultarne la radice religiosa, sostanziata di teocrazia e attese apocalittiche: Giuseppe preferì sorvolarvi con i suoi lettori romani, per non far ricadere sulla religione giudaica il peso delle scelte operate da un partito.
Nella ricostruzione di Hengel, la lotta di liberazione reca, inestricabilmente fuse, motivazioni religiose e politiche, e anzi, come radice ideologica profonda, si mostra di natura religiosa.
E' Dio il vero padrone della terra di Israele per cui obbedire a una autorità straniera e idolatra risulta diretta infrazione del comando di Dio "non avrai altro Dio all'infuori di me". I patrioti erano consumati dallo zelo per Dio e la Legge: aspirazione zelante, speranze messianiche, apocalittiche e profetiche si fondevano come in un crogiolo con indubbio potere di fascinazione sulle masse.
Quella di Giuda il Galileo era innanzitutto una presa di posizione dottrinale sulla signoria di Dio e sui modi in cui essa si manifesta: essa doveva essere una signoria esclusiva e diretta, non più una signoria mediata da autorità estranee, quale veniva ammessa dal fariseismo.
Ciò significava una rottura con una tradizione di pensiero consolidata a partire dall'epoca post-esilica, quando i giudei si erano trovati a convivere con le dominazioni straniere e a declinare l'idea che, permettendo Dio la dominazione straniera su Israele, era secondo il volere di Dio sopportarla, purché la fedeltà religiosa nei suoi confronti fosse preservata.
Giuda rovescia il discorso: la fedeltà a Dio stava nell'impegnarsi attivo per instaurarne la signoria diretta: di fronte al manifestarsi della volontà popolare, guidata dai pii cui spettava la funzione di avanguardia, Dio avrebbe dato il suo decisivo aiuto per la vittoria. L'annuncio di Giuda si configurava perciò come annuncio profetico di riscatto.
Flavio Giuseppe non può nascondere che questa "pazzia" aveva in effetti persuaso il popolo: essa aveva anche dirette implicazioni escatologiche perché l'instaurazione della signoria di Dio su Israele sarebbe stato l'inizio della sua redenzione.
Nel momento in cui egli parla dei fautori della liberazione armata, comunque siano da denominarsi, come "quarta filosofia", in un certo senso riconosce loro l'appartenenza a una comune humus, sancendone la collocazione spirituale entro esigenze comuni all'ala più impegnata del giudaismo del tempo, che la presentazione assolutamente negativa compiuta nella sua precedente opera aveva loro negato.
Lo zelo per la Legge e il Tempio, interpretato in maniera propria dai ribelli armati, era un tratto comune a questi, agli esseni nonché ai primi "cristiani".
Lo zelo significava dedizione alla volontà di Dio e inasprimento della Torah, come realizzazione di tale volontà in vista dell'imminente instaurazione del regno di Dio, donde l'attesa escatologica, ancora una volta perfettamente condivisa anche da esseni e farisei.
Questi caratteri di base sono partecipati da Gesù di Nazareth, che però li declinò in un senso diverso, attuando un completo superamento delle attese messianiche volte alla restaurazione del regno terreno.
Tanto più grandi le speranze, tanto maggiore la catastrofe, che sarebbe giunta alla fine. Il rabbinismo, insieme al cristianesimo, fu il frutto della radicale semplificazione del giudaismo dopo la tragedia storica dei giudei: suo intento fu quello di rapportarsi, quale filiazione diretta e indiscontinua, al tempo precedente la grande tragedia, obliando quanto si era frapposto.
Da Johanan ben Zakkai dopo il 70 alla piena consapevolezza dell'irreversibilità della situazione giudaica dopo il 135, il rabbinismo cercò di costruire un'osservanza, un modo di vivere al cospetto del Dio d'Israele, senza più Tempio né terra santa, totalmente diverso da quello di chi aveva provocato tanta catastrofe.
Nella Mishnah il rabbinismo si organizza in modo da non pensare al futuro, senza neppure un cenno non dico a speranze apocalittiche, ma a qualcosa che non sia l'organizzazione del presente, in modo da annullare, financo nella forma espressiva, qualsiasi richiamo a un'autorità superiore, sia essa una rivelazione divina o un personaggio biblico: solo il presente di Dio conta e la responsabilità dell'uomo che si assume il compito di onorare Dio nel presente.
Non bisogna nascondere i tranelli metodologici che questo quadro complesso, sia del giudaismo del I secolo sia degli esiti posteriori alle catastrofi del 70 e del 135, nasconde.
Uno consiste nella tentazione di trasformare la fitta rete di corrispondenze fra le varie correnti del giudaismo del I secolo, le quali concorrono a far comprendere i problemi comuni alla mentalità dell'epoca, in filiazioni genetiche. Quella che, per una serie di motivi, è stata più in voga potrebbe essere definita come una sorta di pan-essenismo, cioè la riconduzione a Qumran di figure non allineate, Giovanni Battista e Gesù.
Per quanto riguarda il primo è tradizionale considerare come segni di una filiazione essenica l'abbigliamento, l'alimentazione (accostati a quelli degli esseni cacciati: cfr. Bell. II,143) e l'adolescenza nel deserto (gli esseni crescevano i figli altrui: Bell. II,120), nonché la distanza di 16 km in linea d'aria fra Qumran e il luogo dove Giovanni battezzava.
Eppure i punti di divergenza sono tali da porre Giovanni addirittura in opposizione all'essenismo*. La purità di Giovanni è di una radicalità eversiva rispetto alle soluzioni esseniche.
Il battesimo sacramentale, atto unico compiuto in un determinato luogo in vista dell'imminente futuro escatologico, fa conseguire il perdono dei peccati totalmente al di fuori del sistema cultuale del Tempio, al quale invece gli esseni si richiamano, auspicandone anzi la rifondazione secondo un'assoluta purità rituale. In sostanza, Giovanni Battista è un predicatore apocalittico indipendente.
Ancora più insistiti, data la maggiore consistenza delle fonti a disposizione e l'assoluta importanza del personaggio, i tentativi di fare di Gesù un esseno o di ricondurlo a un preminente influsso dell'essenismo.
Mi limito a dire che, se può essere provata la conoscenza da parte di Gesù dell'ideologia essenica e un certo numero di influssi essenici (ma questo vale anche per altre correnti del ricco tessuto giudaico del tempo), riguardo gli elementi più qualificanti del suo messaggio, come il diverso concetto di purità e la salvezza dipendente dal perdono reciproco, il distanziamento dagli esseni è nettissimo.
Il contatto fra Gesù e il Battista è uno dei due punti (l'altro è la condanna di Gesù da parte di Ponzio Pilato) meglio documentati dai vangeli: rispetto a Giovanni Gesù introduce il concetto nuovo di regno di Dio.
La vicinanza fra Gesù e Giovanni Battista è sottolineata fin dagli inizi del cammino critico sulle fonti evangeliche: è noto come Reimarus accomunasse i due come rivoluzionari politici falliti.
E qui veniamo a una seconda difficoltà metodologica. La morte di Gesù a opera dei romani, come quella di Battista a opera di Erode Antipa, facilmente è letta da una corrente ormai tradizionale di studi come l'esito finale di un confronto di natura politica, che, nel caso di Gesù, i discepoli avrebbero successivamente riplasmato in senso spirituale.
Questa era la tesi di Reimarus e questa è tesi riproposta sovente. Invece che pan-essenismo, in questo caso ci troviamo di fronte a una sorta di pan-zelotismo.
Per Giovanni Battista la tesi urta irrimediabilmente contro lo scoglio della testimonianza di Flavio Giuseppe, bene informato sul Battista e che non lo avrebbe certo lodato, come invece fa, se avesse avuto il minimo sentore del carattere ribellista della sua predicazione.
Per Gesù le difficoltà sono ancora maggiori, date le molteplici attestazioni di fonti diverse (compreso Flavio Giuseppe) che sul punto sono univoche nell'intendere in senso non politico la sua predicazione.
Tuttavia, nell'un caso come nell'altro, è assai probabile che l'attesa messianica del Battista, come la predicazione del regno da parte di Gesù, abbiano attirato le speranze dei molti che attendevano la liberazione dall'oppressione romana e quindi abbiano scatenato la reazione delle autorità politiche contro entrambi.
Che la coincidenza dell'aspirazione di base dei gruppi zelanti e ribelli, lo zelo appunto per la causa di Dio, abbia fatto sì che Gesù fosse più volte accusato di coincidenza nei mezzi perseguiti può essere sufficientemente provato (episodi come quello della purificazione del Tempio, o quello del tributo, o l'accusa di Gesù ai suoi persecutori "mi avete preso di notte, come fossi un brigante" sono significativi in tal senso).
Su questo punto sembrano francamente minimizzanti le ricostruzioni che, in opposizione alle moderne riedizioni delle tesi di Reimarus, tendono a fare forza sul dato riportato da Tacito (Hist. V,9), che sotto Tiberio ci sarebbe stata pace in Giudea, e sul fatto che Flavio Giuseppe parla di zeloti solo per il periodo successivo alla morte di Gesù per poter inferire l'assenza di tensioni politiche all'epoca di Gesù, all'evidente scopo di togliere motivazioni all'interpretazione politica della sua attività.
Un versante diverso della tesi pan-zelotica riguarda l'ipotesi, che era stata proposta anni fa, dell'avvenuto stanziamento degli zeloti a Qumran, donde la distruzione dei romani sarebbe dovuta proprio al fatto che il luogo era uno dei centri della lotta armata. La tesi non è accolta dalla maggioranza dei critici.
E' tuttavia credibile che gruppi di esseni abbiano partecipato alla lotta armata contro Roma, come dice Flavio Giuseppe (Bell. III,2,1, par.11), come prova il ritrovamento compiuto da Y.Yadin a Masada nel 1964 di un'opera proveniente da Qumran, e come è in realtà ipotizzabile per gruppi di appartenenti a ognuna delle sette giudaiche.
Quando, tanto per fare un esempio, un testo della biblioteca di Qumran inneggia alla distruzione dei nemici e delle nazioni, con l'ausilio degli "eroi dell'esercito dei suoi angeli", mentre concepisce gli appartenenti alla comunità come guerrieri al servizio della luce, non possiamo certo escludere la possibilità che, nelle debite condizioni, il vagheggiamento della futura supremazia si traduca in concreta lotta armata. Di fronte ai romani gli abitanti del Mar Morto cercarono nel 68 la difesa. Ma in che modo avevano partecipato alla lotta, in precedenza? E quanto avranno vissuto quella battaglia come la prova della lotta finale, in cui attendersi l'aiuto degli angeli?


* Esseni: comunità religiosa giudaica i cui membri seguivano una disciplina molto rigorosa: il celibato e la comunanza dei beni erano i tratti più essenziali. Il loro primo impegno era la venerazione della divinità. In seguito nasceva l'obbligo di praticare la giustizia, la verità, le regole della confraternita che esigevano continenza, lavoro, vita sobria e studio dei libri santi. Loro centro fu la regione dell'Engaddi presso il Mar Morto. I testi trovati nel 1947 presso Qumran sono attribuiti dagli studiosi agli antichi Esseni.

 

 

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