racconti - stories

 
 
Enrico
di Pino Misiti

Copyright 2003 tutti i diritti riservati

 

 

Pino Misiti - Biografia

Alle ore quattro di martedì venti Marzo, Enrico era indeciso se accendere il televisore o impiccarsi. Scelse la seconda soluzione. Guardò in alto ed individuò la trave a cui appendersi. Infilò sciarpa e cappotto, scese le scale, salutò la portinaia, uscì in strada ed entrò in una ferramenta.
"Vorrei della corda" chiese al commesso.
"Quanti metri?" rispose quello.
"Non lo so, me ne dia tre, quattro metri"
"Di che diametro?"
"Non so...di un diametro resistente"
"C'è quella da 3, da 5, da 10, da 15...millimetri"
"Faccia lei"
"Dipende... Cosa ci deve fare?"
"Impiccarmi" rispose Enrico.
"Quanto pesa?"
"E che ne so quanto peso... Chi si pesa più?"
Il commesso si sporse oltre il bancone e lo squadrò
"Settantacinque? Ottanta?"
"Ma no, di meno"
"A me non sembra" "E' perché questo cappotto mi fa più grosso, ma non arrivo neanche a settanta"
"E' sicuro?"
"Sicuro...come posso essere sicuro? Le dico che non mi peso più..."
"Ma bisogna saperlo. Potrei darle questa da otto, ma se non regge?"

"Mi faccia vedere"
Il commesso tagliò cinque centimetri di corda e gliela porse. Enrico la guardò un attimo
"Lei dice che questa non tiene?"
"Come faccio a saperlo, dipende da tanti fattori...Il suo peso, lo strappo che subisce... Se la corda subisce un forte strappo, a volte..."
"Mi dia quella da quindici" tagliò corto Enrico.
"Ma quella da quindici è grossa. Se lei esce da qui con quella, tutti sospetteranno che si va ad impiccare. Vuol far sapere i fatti suoi all'intero condominio? Così si attaccano con l'orecchio alla porta e al primo rumore la buttano giù, col risultato che non solo gliela rovinano, ma la salvano anche"
"Forse ha ragione"
"Senta, faccia una cosa: qui vicino c'è una farmacia, hanno una bilancia... Si vada a pesare e poi torni. E' a due passi. Appena esce, duecento metri a destra"
"Duecento metri?"
"Se la trova sulla destra, non può sbagliare"
"Va bene, grazie". Disse Enrico uscendo.
"Di niente" rispose l'altro.
Entrato in farmacia Enrico cercò con gli occhi, senza riuscire ad individuare la bilancia.
"Mi scusi" chiese alla cassiera "Ma non avete una bilancia?"
"Ne abbiamo di vari tipi" Rispose la donna "Quella per i neonati, quella per i cibi e quella per le polverine, che pesa anche singoli grammi"
"No, no, cerco quella per pesare le persone...adulte"
"Certo" disse la cassiera "Abbiamo anche quella. Chieda al banco. Ce ne deve essere rimasta una"
"Ma io non voglio comprarla. Mi devo solo pesare, un attimo"
"Ah no, mi dispiace, quella per il pubblico è in riparazione. Si è guastata proprio stamattina"
"Sa dove ne posso trovare una? Solo per pesarmi una volta."
"Guardi, se torna domani, la nostra sarà riparata"
"No, no, ho fretta, devo pesarmi oggi. Ora"
"Bèh, allora non so...vediamo...chi potrebbe avercela qui vicino.... No, qui vicino nessuno, mi sembra. Provi in un'altra farmacia"
"Grazie, arrivederci" e fece per uscire, ma quella lo fermò sulla soglia.
"Scusi, mi tolga una curiosità, ma perché ha tanta fretta di pesarsi?"
"Mi devo suicidare" la liquidò Enrico
"E che c'entra? Perché vuole pesarsi?"
"Devo impiccarmi e per sapere di che diametro comprare la corda devo capire quanto peso. Arrivederci". Ma quella lo fermò di nuovo
"Aspetti! Venga un attimo". Enrico le si avvicinò e lei, a voce bassa:
"Ma davvero vuole suicidarsi?"
"Sì" rispose Enrico.
"Ha proprio deciso? Voglio dire, non c'è niente che potrebbe farle cambiare idea?"
"Niente"
"Ma perché deve proprio impiccarsi?"
"Che differenza fa?"
"Io ho vissuto una vita intera con un motto, un solo motto: autosufficienza. Bisogna essere autosufficienti, in tutto. Voglio dire: se lei si impicca, poi i vicini, quando sentiranno la puzza del corpo in decomposizione, dovranno sfondare la porta..."
"Lascerò la porta aperta"
"Mi lasci finire... Dovranno tagliare la corda, tirare giù il cadavere, toglierle la corda dal collo... Perché andarsene dando tanto fastidio? Insomma ci sono dei modi più urbani... Qui, in farmacia abbiamo parecchie cose con cui risolverebbe in maniera pulita, tranquilla ed efficace"
"Tipo?"
"Tante, tante cose. Pasticche, barbiturici, tranquillanti. Lei compera due scatole di Roipnol, va a casa, si fa la barba, fa una doccia (è bene che la trovino pulito) mette il vestito con cui vuole essere sepolto, prende le pasticche e si sdraia sul letto, nella posizione in cui vuole che la trovino. Visto? Così non dà agli altri neanche la seccatura di metterla sul letto"
Enrico ascoltò con attenzione.
"Forse ha ragione lei. Non avevo pensato a tutto ciò. Voi le avete queste pasticche...come ha detto che si chiamano?"
"Eh ma ce ne sono di tanti tipi."
"Va bene, me ne dia due scatole, anzi tre, così non corro rischi". E tirò fuori il portafogli per pagare.
"Ma io non posso dargliele" lo fermò la cassiera.
"E perché?"
"Occorre la ricetta"
"E come faccio ad avere la ricetta?"
"Deve andare dal suo medico, farsi prescrivere i barbiturici e poi venire qui"
"Ma allora è meglio la corda!"
"E tutto quello che le ho appena detto? Dia retta a me, muoia da autarchico, non muoia da cafone"
"Ha ragione, ha ragione..." disse Enrico dopo averci pensato un istante. "A che ora chiudete?"
"Alle otto, come tutti i negozi, ma se tarda qualche minuto, noi l'aspettiamo"
Enrico ringraziò in fretta ed uscì. Per strada si mise a correre, non tanto per sfuggire alla pioggia che cominciava a scendere fittamente, ma temendo di trovare fila dal medico e non fare in tempo a tornare in farmacia. Entrò nel portone di un palazzo stinto. Salita una rampa di scale, si infilò nello studio. Come aveva previsto, la sala d'aspetto era gremita di gente . Si avvicinò all'infermiera e bisbigliò trafelato:
"Senta, la prego, devo parlare con il dottore, è molto, molto urgente, non posso aspettare tutta questa gente...".
"Cos'è successo?" chiese l'infermiera allarmata.
"Ora non posso spiegarle, ma mi creda, è una questione di vita o di morte"
"Ah, quand'è così... Almeno però mi lasci chiedere agli altri se la fanno passare..." E si rivolse ai presenti "Il signore qui, ha bisogno urgente di vedere il dottore. E' una questione di vita o di morte e vi chiede la cortesia di lasciarlo passare avanti. Siete d'accordo?"
I presenti si guardarono tra loro ed uno tra tutti prese la parola
"Dobbiamo consultarci" disse. Si chiusero in circolo, e cominciarono a confabulare. Dopo appena tre secondi si girarono verso l'infermiera ed il portavoce formulò il verdetto:
"No!"
Ma Enrico, si era già infilato nella stanza del medico. Dopo che gli ebbe espresso la sua richiesta, il medico lo guardò perplesso.
"Tu sai che la mia cultura, la mia esperienza di medico, nonché l'amicizia che ti porto, mi fanno guardare con diffidenza a certi rimedi contro l'insonnia. Io personalmente..."
"Ma io non soffro d'insonnia" lo interruppe Enrico.
"E allora a cosa ti servono i barbiturici?"
"Per suicidarmi"
"E lo vuoi fare con i barbiturici?"
"Mi sembra una strada semplice."
"I giovani... Solo per sentieri semplici si avventurano..."
"Me l' ha consigliato la farmacista"
"Certo. Ognuno porta acqua al suo mulino". Prese il ricettario e cominciò a scrivere
"Roipnol , una confezione da..."
"No, non una...tre, dottore" lo corresse Enrico.
"Tre non posso segnartele..."
"Ma una scatola non è sufficiente!"
"Ragazzo mio, su una ricetta, una confezione posso scriverne. ... E pensare che se venivi ieri avevo sei scatole di campioni omaggio..."
"Allora mi faccia tre ricette"
"E' vietato. Sarei un'incosciente"
"Ma una non basta!"
"Chi te l' ha detto?"
"La farmacista"
"Perché, lei l' ha provato? E poi se è così brava, perché non fa il medico? Coraggio... Tu già non hai una buona cera, fammi sentire il polso... Potresti anche farcela... Prova a mandarle giù con molto alcool"
"Lei dice che in questo modo..."
"Hai l'ottanta per cento di probabilità"
"Non bastano dottore, sono poche"
"Bèh, io questo posso fare per te... Ma al tuo posto..."
"Al mio posto?"
"Sceglierei un'altra strada"
"Me ne indichi una"
"Quella dei barbiturici in effetti, così semplice non è: ora dovresti tornare in farmacia, ritirare il farmaco, andare a casa, scartare il pacchetto, aprire la confezione...tutto un rituale durante il quale potresti cambiare idea"
"No!" protestò Enrico.
"Eh, no...no... E' facile dire no... Vai poi a sapere l'evoluzione degli accadimenti... Senti, ma perché non scegli un modo più rapido, più impulsivo. Qualcosa che magari possa apparire una disgrazia, così eviti anche a me e la farmacista qualche possibile grana. Che so... per esempio..."
"Per esempio?" Domandò ansioso Enrico.
"Il treno! Gettati sotto un treno! Un bus! La metropolitana!". Enrico si alzò e gli strinse la mano
"Grazie dottore"
"Figurati... Sono o non sono il tuo medico? ...Quando hai bisogno..."
Con la stessa velocità con cui era entrato, Enrico guadagnò l'uscita . Fatti pochi metri, raggiunse la fermata di un autobus. Aspettava impaziente, passeggiando nervoso, su e giù. Con la coda dell'occhio vide il medico affacciato alla finestra dello studio. Lo salutò, muovendo appena la testa.
"Cosa fai ?" Chiese il dottore
"Aspetto l'autobus" rispose Enrico continuando a passeggiare.
"Ma la fermata è più giù..."
"Ma alla fermata si ferma"
"Ma... Tu l'aspetti per andarci sopra o sotto?"
"Sotto"
"Ma proprio qui?"
"Che cambia?"
"Ma qui c'è il mio studio. I pazienti si impressionano. Mi rovini la giornata!"
Enrico smise di passeggiare, abbassò lo sguardo e con tono comprensivo rispose.
"Non ci avevo pensato. Mi scusi"
"Niente, niente, ma vai da un'altra parte, o alla fermata della metropolitana"
"Certo, certo, stia tranquillo" e fece per andarsene, ma quando vide l'autobus sopraggiungere, tornò subito indietro e si piazzò dov'era prima. Quella era un'occasione ottima, perfetta e gli faceva anche risparmiare tempo. Tolse le mani di tasca. Fissò le grosse ruote del mezzo che giravano vorticosamente, facendo schizzare sassolini di asfalto a destra e manca. Prima di lanciarsi , girò la testa verso lo studio e vide il medico, l'infermiera e tutti i pazienti che, affacciati alle finestre, lo fissavano severamente. Fu allora colto da un senso di pudore e di colpa. Lasciò passare l'autobus, fece una corsetta, lo raggiunse e ci salì sopra. Venti minuti dopo era alla stazione centrale e vagava tra le pensiline affollate di gente. Dopo aver individuato sul tabellone elettronico il primo treno che sarebbe entrato in stazione, si allontanò lungo il marciapiede che affiancava il binario. Percorsi duecento metri, si fermò e cominciò ad aspettare. Non riusciva a star fermo per l'impazienza e temendo che il treno potesse essere in ritardo, si rivolse ad un passante in divisa:
"Mi scusi. Il treno su questo binario è in ritardo?"
"No, tra un minuto entrerà in stazione, ma se aspetta qualcuno le conviene tornare indietro. Magari è nei primi vagoni"
"No, non aspetto nessuno, grazie"
"Allora cosa ci fa qui?"
"Aspetto il treno"
"Deve partire?"
"No"
"Allora cosa l'aspetta a fare il treno?"
"Mi ci devo gettare sotto"
"Cosa?" Chiese l'uomo, sicuro d'aver capito male.
"Mi ci devo gettare sotto" ripeté Enrico con lo stesso tono.
"Sta scherzando?"
"No"
"Ma lo sa che è proibito?"
"Proibito? E perché?"
"Perché il treno deve arrivare e ripartire in orario. Se lei lo blocca qui, non entrerà mai in stazione"
"Ma io non voglio bloccarlo, d'altronde come potrei..."
"Ma il conducente la vedrà e sarà costretto a frenare"
"Lei dice che potrebbe fermarsi in tempo?"
"No, quello no, ma bloccherà lo stesso il treno"
"Sarò discreto, farò in modo di non farmi vedere"
"E tutta quella gente laggiù?" Indicò la folla nella stazione "Dice che non la vedranno? Ed il rumore delle ossa sui binari? Dice che non si sentiranno? E poi io qui? Non la vedrò? Ed io sono il capostazione!"
La sagoma del treno intanto, apparve in lontananza e cominciò a fare il suo ingresso in stazione.
"La prego" implorò Enrico "Chiuda un occhio, finga di non avermi visto"
"Sono io a pregarla di non chiuderli. Un po' di altruismo diamine. Vuole bloccare il treno qui, con tutta quella gente che deve arrivare e quell'altra che deve partire? E magari lei è anche uno di quelli che si lamenta del ritardo delle ferrovie"
"Non credo" disse sconsolato Enrico.
"Ma perché ci si vuole gettare sotto ?"
"Per morire"
"Fin lì c'ero arrivato. Ma questo treno arriva da Palermo. I passeggeri sono in viaggio da stamattina, sono stressati. Non ci si metta anche lei... Aspetti un momento..."
Guardò in giro per assicurarsi che i binari fossero liberi, poi tornò da Enrico e gli afferrò un braccio.
"Ecco il treno. Senta, le dispiace se la tengo per un braccio. Io devo fare il mio dovere ed il mio dovere dice che questo treno deve entrare in stazione"
"Faccia ciò che deve"
"La sa una cosa? Ancora non ho capito se la sua è voglia di morire o smania di protagonismo. Perché deve compiere un gesto così eclatante in un luogo pubblico? Ci sono modi più civili. Finendo sotto il treno, oltre ad interrompere un pubblico servizio, getta la stazione nello scompiglio e crea tutta una serie di grattacapi di cui lei è l'unico a non subirne le conseguenze: inchieste, recupero resti, lavaggio binari... E voglio fermarmi qui."
"Non è mia intenzione"
"Anche se lei se ne va, il suo corpo resta"
"E' inevitabile"
"Certo... A meno che..."
"A meno che?"
"A meno che lei s'ingegni affinché non lo ritrovino. Sa quante seccature risparmierebbe? Riconoscimento, funerali, sepoltura..."
"E' vero, è vero. Ma come fare? Dovrei gettarmi in un vulcano..."
"Spiritoso. Le sta tornando l'ironia. E' il primo passo verso un ripensamento"
"Mai!" Si affrettò a rispondere Enrico, mentre il treno ormai percorreva gli ultimi metri prima di fermarsi.
"Allora prenda la metropolitana D, fino al capolinea (è vicino al fiume) raggiunga il ponte, scenda sul greto, e si getti. Lei sa nuotare?"
"No"
"Meglio. La corrente la porterà dritto in mare e lì, con questo tempo, sarà molto difficile che la ritrovino".
"Andarsene senza rumore... Mi ha convinto. Forse è la cosa più giusta"
Strinse la mano al capostazione e s'incamminò con passo spedito. Raggiunta la stazione della metropolitana e individuata quella che portava al fiume, si mise ad aspettare, guardando con preoccupazione l'orologio. Furono attimi lunghissimi. La metropolitana tardava e lui, oltre a scrollare le gocce di pioggia dalle maniche del cappotto, non riusciva a trovare un pensiero che potesse distrarlo da quell'interminabile attesa. Guardò in giro. Molta gente, come lui, aspettava. Ma loro, perlopiù impiegati che tornavano a casa, lo facevano con rassegnazione, compiendo un rito a cui erano abituati. E trovavano conforto nel giocare con gli ombrelli, che facevano battere a terra, ritmicamente, come si fossero accordati per un concerto di percussioni. Quel rumore pian piano cominciò a penetrargli nelle ossa, attraverso la pelle lasciata scoperta dal cappotto. Avrebbe voluto urlare di smetterla. Ma con quale motivazione? Fortunatamente le rotaie vibrarono, annunciando l'arrivo della metropolitana. Prese allora a fissarle ed un pensiero si fece subito largo. Sbottonò in fretta il cappotto, spostò in avanti il piede sinistro e divaricò le braccia, pronto a lanciarsi. Con la mente aveva forse anticipato l'arrivo del treno, ma oramai era in quella posizione e doveva restarci. I secondi passavano e lui cominciò a sentirsi ridicolo. Improvvisamente si rese conto che il ticchettio degli ombrelli era cessato. Girò lentamente la testa e si accorse che tutti i presenti lo fissavano immobili, con sguardi sdegnati, colmi di riprovazione. Si ricompose, mise le mani in tasca ed aspettò ordinatamente che la metropolitana si fermasse.
Quando raggiunse il fiume, la sera era calata da un pezzo. Era stanco ma soddisfatto, come un maratoneta che taglia il traguardo. Passeggiò fino al centro del ponte, illuminato da una fila di lampioncini da poco installati. Si accostò al parapetto e guardò il fiume scorrere, ingrossato dalle piogge di quei giorni. Non si poteva sporgere poiché il comune aveva fatto installare una rete alta un paio di metri per evitare che qualche turista, affacciandosi, vi precipitasse. La cosa ovviamente non lo impensieriva e con calma si avviò verso le scale che conducevano in basso. La pioggia non cadeva più e non aveva bisogno di ripararsi. Si fermò sulla sponda ed accese una sigaretta, tirando avidamente. Ora non c'era nient'altro da fare che gettarsi, magari con un po' di rincorsa. Tirò ancora un paio di volte dalla sigaretta e la lasciò cadere a terra. Guardò in alto, per assicurarsi che nessuno dal ponte lo stesse osservando e, pian piano cominciò a togliersi la sciarpa, poi il cappotto e le scarpe. Fece due passi indietro per spiccare il salto, ma una voce poco distante lo fece girare di scatto
"Oh! Oooh!"
Un vecchio, con una canna da pesca in mano lo prese per un braccio e lo tirò indietro, facendolo cadere a terra.
"Allora?" Chiese sottovoce il vecchio "Che intenzioni abbiamo?"
"Chi è lei? Che cosa vuole?"
"Abbassa la voce, mi spaventi i pesci"
"Spaventarle i pesci? Con il frastuono che c'è?" indicò il traffico che scorreva sul ponte.
"E quindi? ti ci vuoi mettere anche tu! Che intenzioni hai, eh?"
"Di buttarmi"
"Come? Non ho capito bene"
"Io devo buttarmi nel fiume"
"Devi buttarti nel fiume? Te lo ha ordinato qualcuno?"
"No, lo faccio di mia volontà: voglio suicidarmi"
"Allora tu non devi, tu vuoi, gettarti nel fiume"
"La sostanza non cambia" Disse Enrico alzandosi, e si preparò nuovamente a spiccare il salto. Ma il vecchio lo afferrò di nuovo.
"No? Senti, io posso capire che uno si sporge dal parapetto e cade giù, che passeggia qui sul greto ed inciampa, va in barca e la barca si rovescia. Ma chi come te, ci viene apposta , no, non lo capisco e tanto meno giustifico. E' una mascalzonata!"
"Ma come? Io non voglio dar fastidio a nessuno..."
"Ah no? Ed io? Sono nessuno io?"
"Ma che fastidio le do?"
"Secondo te cosa sto facendo qua?"
"Non lo so. Sta forse pescando?"
"Ecco e se ti tuffi ora che ho la lenza in acqua, getterai scompiglio tra i pochi pesci che girano attorno all' amo e così una giornata, l'avrò sprecata per niente."
"Allora vado più in là"
"Certo, vai più in là. Appena ti sarai gettato, annasperai, e magari sei pure uno di quelli che grida aiuto e lo farai sopra e sott'acqua e intanto la corrente ti trascina... E sai quanti altri pescatori ci sono lungo il fiume?"
"Io non griderò. E me ne andrò tranquillo fino al mare"
"Se anche fosse, credi che finisca così?"
"Non capisco" disse Enrico.
"Anni fa" Cominciò a raccontare il vecchio "Con i miei due figli avevamo una barca. Piccola ma ci dava da vivere. Eravamo in mare aperto ed una notte, nelle reti capitò qualcosa di grosso. Tirarlo su era molto rischioso con una barca così piccola ed instabile, ma decidemmo lo stesso di issarlo a bordo, pensando ad un grosso tonno. Le cose andarono storte, forse per colpa nostra, che nell'eccitazione c'eravamo spostati tutti dallo steso lato. La barca si rovesciò e finì in fondo al mare. Noi siamo scampati per miracolo. Ma quella cosa era restata a galla e ci accorgemmo che non si trattava di un tonno né di altra specie di pesce, ma di uno come te che si era gettato nel fiume e la corrente lo aveva trascinato in mare aperto. E da allora io sono qui e quello" indicò uno sgabello di legno con su scritto: Regina "E' tutto ciò che mi resta della barca"
Enrico seguì il discorso immobile.
"Devo aggiungere altro?"
"No, non occorre" Disse rammaricato e si rivestì.. "Mi spiace" aggiunse.
"Trova un altro modo. Perché non sotto un tram, sotto un treno, sotto una metropolitana?"
"E' tutto il giorno che cerco, ma ci finisco sempre sopra"
Prese le sue cose e si allontanò, salutando il pescatore con uno sguardo di comprensione. Qualche metro più in là si chinò ad allacciare le scarpe ed in quell'istante preciso, capì ciò che doveva fare.
Salì a quattro a quattro le scale che lo riportarono in strada. Prese un taxi e lo fece fermare davanti un portone in legno, nella città vecchia.. Spinse il portone, arrivò all'ultimo piano del palazzo e suonò il campanello di un appartamento. La porta si aprì.
"Ciao" disse il fratello aprendo la bocca il minimo indispensabile perché qualche suono ne uscisse
"Ciao"rispose Enrico allo stesso modo, ed entrò in quell'appartamento arredato alla meglio.
"Come va?"
"Eh..."
"Tu?"
"Eh..."
"Puoi prestarmi la macchina?"
"Eh..."
"La mia è in riparazione"
"Ah.."
"Stai studiando per l'esame?"
"Eh..."
"Ce l' hai una birra?"
"Eh..."
Enrico aprì il frigo e prese una lattina di birra.
"Vado in bagno"
"Uhm..."
Sfilò attraverso la cucina, l'unica stanza e si infilò in bagno. Dallo sportello di una mensola accanto allo specchio prese tutte le scatole di pillole che trovò, le rovesciò sul palmo della mano e le mise in bocca, mandandole giù avidamente, con la birra. Poi mise in tasca due lamette, quelle di una volta, che il fratello si ostinava ad usare. Tornò in camera.
"Per stasera?" Chiese il fratello
"Eh?"
"La macchina..."
"Eh..." disse Enrico
"Tutto bene?"
"Eh..."
"Papà l' hai sentito?"
"Eh..."
"Che dice?"
"Eh... che dice?"
"Uhm..."
" L'università?" chiese Enrico
"Va..."
"Con Maria?"
"Va..."
"Uhm...Allora esco eh?"
"Uhm..."
"Ciao"
"Ciao"
Prese le chiavi della macchina , una seconda lattina di birra dal frigo ed uscì.
A notte fonda si fermò in un quartiere di periferia, ingoiò altre pasticche che aveva in tasca, mise giù lo schienale del sedile e con le lamette si tagliò le vene ai polsi. Mentre il sangue usciva lento, continuò a bere, tranquillo, sdraiato, finché le forze non lo abbandonarono.
Fuori era freddo. Aveva ricominciato a piovere ed i rari passanti non si accorsero di lui. Durante la notte la pioggia aumentò d'intensità, pochi ebbero il coraggio di uscire di casa e la città restò semideserta. I vetri dell'auto si erano appannati e nessuno poteva intuire che all'interno c'era un corpo immobile.
Alle sei del mattino seguente, Enrico era nella stessa posizione, bocca aperta e qualche rigurgito di vomito che gli scendeva dalle labbra. Vicino la macchina cominciarono a sentirsi dei rumori che via via aumentavano di intensità. Pian pianino aprì gli occhi e mise una mano sulla fronte. Non capiva dove si trovasse. A fatica raddrizzò il sedile ed appoggiò la testa sul volante. Aveva una forte emicrania e dolori in tutto il corpo. Ma la cosa che più lo affliggeva era il bisogno urgente di orinare. Passò la mano sulle labbra per cancellare il sapore di amaro che lo disgustava. Guardò i polsi: il sangue aveva cominciato ad uscire, ma si era subito coagulato. Scese dalla macchina e si accorse di averla parcheggiata di fronte un bar, che ora era affollato di gente. Barcollando si infilò tra due macchine ed orinò a lungo, senza pudore. Lavò il viso le mani ed i polsi ad una fontanella lì accanto e si ricompose alla meglio. Entrò nel bar ordinando un caffè, un cappuccino ed un cornetto. Tra gli avventori c'erano tre agenti di polizia, uno dei quali, donna. Finito di consumare la colazione pagò e si diresse verso l'uscita. Barcollava e sarebbe finito a terra, se una mano, da dietro, non lo avesse sostenuto. Era la donna poliziotto, che lo aveva osservato a lungo.
"Si sente male?" gli chiese.
"Un piccolo giramento di testa" Rispose Enrico. "Passerà..."
"Non può restare solo in queste condizioni. Vuole che la porti in ospedale?"
"Non c'è bisogno. Lei avrà cose più importanti da fare con i suoi colleghi..."
"Ho appena smontato di servizio ed i miei colleghi mi hanno accompagnata a casa. Io abito qui."
"No, non c'è bisogno dell'ospedale. Preferisco andare a casa."
"Dove abita?"
"Bèh...devo riflettere un attimo"
"Ma cosa le è successo? Un malore?"
"Si, un malore"
"Va bene, l'accompagno a casa con la mia macchina"
"Grazie" disse riconoscente.
Fecero qualche passo ma Enrico non stava in piedi. Allora la ragazza decise:
"Lei non ce la fa. Venga, la porto a casa mia. Il portone è questo" E sorreggendolo come un reduce di guerra, lo fece salire in casa e sedere sul letto, dove sprofondò in un sonno senza appello. Molte ore dopo, il rumore delle chiavi nella serratura, lo svegliò. La ragazza stava rientrando con le buste della spesa.
"Ah, finalmente! Lo sai quanto hai dormito?"
"Che ore sono?"
"Sono le cinque. Come ti senti?"
" Meglio"
"Da quanto tempo non dormivi?"
"Non lo so, ma ora me ne vado. Non voglio disturbare..."
"Non mi stai dando alcun disturbo Enrico"
"Come sai il mio nome?"
"Deformazione professionale"
"Hai guardato i miei documenti."
"Naturalmente. Almeno se morivi, sapevo chi informare" rispose scherzando.
"Tu...tu.. Oddio che mal di testa"
"Con una doccia ti passerà"
"Tu come ti chiami?"
"Io mi chiamo Angela."
"Grazie Angela"
"Hai da fare qualcosa oggi?"
"Sì... No... non lo so... Non so più niente"
"Allora vai a fare una doccia. Ti ho riscaldato il bagno"
"Ah sì, certo. Una doccia"
"Il tuo asciugamano è quello rosso"
Enrico si alzò e si rese conto di indossare un pigiama. "Questo pigiama di chi è?"
"Di mio fratello. Prima abitava lui in questo appartamento "
"Ma...Chi mi ha spogliato? Tu?"
"No. Un' ispettrice di polizia nell'esercizio delle sue funzioni. Volevi dormire vestito?"
Lui la guardò e sorrise. Non era abituato a sorridere ed istintivamente si coprì la bocca con la mano. La ragazza sedette accanto a lui e gliela tolse.
"Perché ti copri la bocca? E' bello quando sorridi"
"Non ci sono abituato" Rispose Enrico, e la fissò, non riuscendo a comprendere il motivo di tanta benevolenza. Anche la ragazza cominciò a fissarlo e lui ne fu imbarazzato. Uscì dal letto e si chiuse in bagno. Sciacquò il viso al lavandino ed alzando la testa, nello specchio vide uno spettacolo orrendo: se stesso. Si girò rassegnato, prese l'asciugamano e solo allora si accorse che appeso ad un gancio, nel muro, c'erano la fondina e la pistola di Angela. Quella ragazza era carina, gentile, ed aveva il pregio di lasciare le cose sbagliate nei posti giusti. Era perfetta. Talmente perfetta che gli venne il sospetto avesse lasciato la pistola lì, apposta per lui. La tirò fuori dalla fondina e la tenne tra le mani, come un trofeo. Lentamente armò il cane, poggiò il dito sul grilletto e puntò la canna alla tempia, poi la fece scivolare sul cuore. Scostò la giacca del pigiama e si ricordò che quel pigiama apparteneva ad Angela. Lo tolse. Sotto aveva una maglietta di cotone a maniche lunghe. Era la sua, poteva quindi disporne come voleva. Puntò di nuovo l'arma al cuore. Alle sue spalle aveva lo specchio e magari il proiettile, uscendo poteva romperlo. Si spostò, ma dietro aveva la finestra e poteva romperne i vetri ed anche sedendo sul water, erano a rischio i tubi dell'acqua. Trovò infine un angolo in cui non avrebbe causato danni. Per attutire il rumore, avvolse la mano con la pistola nell'asciugamano rosso e la puntò alla testa, poi, di nuovo al cuore. Qualcosa non andava. In quella casa nulla era suo. Decise quindi di sostituire l'asciugamano con la maglietta che indossava. La tolse e si rese conto che la ragazza gli aveva medicato le ferite ai polsi. Rimise la maglia, appese la pistola e raggiunse Angela in cucina.
"Forse ti devo delle spiegazioni" disse, mostrando le bende.
"Non è necessario" rispose Angela e mostrò i suoi polsi dove erano visibili numerosi tagli cicatrizzati in corrispondenza delle vene. "Lui non era proprio mio fratello. Comunque, con il tempo non si vedranno più. Non fai la doccia? Ho lasciato la pistola in bagno, non ti impressionare, tanto è scarica. Ti stanno bene i capelli così, davanti gli occhi" E gli accarezzò la testa, poi il viso, sorridendo. Lui ebbe la certezza che quella pistola lasciata in bagno fosse una specie di prova a cui aveva voluto sottoporlo.
"No, preferisco farla a casa"
"Ma io sto preparando la cena per due. Che ci faccio con tutta questa roba?"
"Per l'ora di cena sarò di nuovo qui"
"Allora ti aspetto" disse Angela e riprese a tagliare le cipolle.
Si rivestì ed uscì dall'appartamento. In macchina si guardò nello specchietto retrovisore. Quella ragazza le piaceva, ed anche lui ora, non si trovava niente male. Passò la mano tra i capelli e sorrise, senza coprirsi la bocca. Cercò le lamette, le infilò nelle lattine di birra vuote e gettò tutto fuori dal finestrino. Arrivato a casa, attorno al suo palazzo notò un'insolita concitazione. Qualche macchina della polizia ed alcuni vigili del fuoco stavano facendo sopralluoghi. Parcheggiò la macchina poco distante e cercando di capire qualcosa, si diresse verso il portone. La portinaia gli corse incontro.
"Signor Enrico, che fortuna! Che fortuna! Ieri, mezz'ora dopo che ci siamo salutati, un fulmine ha colpito l'antenna centralizzata, sul tetto. Il televisore è scoppiato. L'appartamento è stato completamente distrutto. Pensi, signor Enrico. Pensi se lei non fosse uscito...


 
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