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Un Natale surreale
di Fabio Testini


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Romanzo -



        Sono nato a Foggia l'undici Dicembre del 74 dunque ho 28 anni appena compiuti. Sono il primo di tre figli e non so se puo' interessare ma fino all'eta di undici anni ho abitato prima a Catania e poi a Napoli. Quando avevo otto anni e frequentavo la quarta elementare a Napoli appunto, la maestra ci fece scrivere dei pensierini. Quando lesse la mia poesiola ( la prima che avessi mai scritto) gli venne una specie di contentezza, anzi io all'epoca pensavo che fosse proprio felice... Mi porto' in giro per la scuola , invio' quella stronzata a tutti, anche al Direttore e alla fine venne anche pubblicata insieme a le altre poesie, quelle dei grandi, su quotidiano " Il Mattino" di Napoli. Mi sa che mia mamma ancora conserva il giornale. Poi niente piu', periodo di silenzio, niente da dire.
        Dopo un' adolescenza turbolenta e turbata e turbante per gli altri, intorno ai quattordici anni ho cominciato a riscrivere. Cose semplicissime come tante altre, carine forse , adolescenziali e pure. Almeno questo e' quello che colgo io quando rileggo. Ovviamente puo' succedere solo a me. Voglio dire, l'intensita' di alcuni passaggi banali ed elementari li posso valorizzare solo io con i miei ricordi, i sentimenti provati e tutto 'sto bla bla bla.
        Durante la mia carriera scolastica sono sempre stato nominato a rappresentare la classe o l'istituto o l'Universita' (tasto dolente :facolta' di Giurisprudenza sede di Foggia, meta' percorso, meta' da percorrere). Sempre. Davvero. Dalla seconda elementare, scelto dalla maestra fino al Consiglio di Facolta' dell' Universita'. Boh, avro' una specie di carisma, si dice cosi?
        Ho collaborato con diversi giornali universitari con qualche articoletto piu' che altro a sfondo pseudo politico. C'era un periodo, a venti , ventuno anni, cioe' quando ero posseduto da un sano e genuino egocentrismo da ventenne appunto, che facevo tutto, organizzavo feste, viaggetti libertini, fiaccolate, cortei per le strade e mi intervistavano spesso anche le piccole tv di casa mia. Questo, circa dieci anni fa. Nel frattempo appuntavo, come molti, pensieri e correlati dovunque fosse possibile, biglietti, fazzolettini, carta igienica, seconda di copertina di libri da leggere. Dovunque insomma.
        Poi ho prestato servizio civile presso una Pubblica Assistenza di Palagiano vicino Taranto e li' nella solitudine e noia assoluta, invogliato dalla lettura di Bukowsky, cominciai a scrivere : Il Sogno, un viaggio e la bambola". Un racconto cupo, disfattista, si definirebbe pulp, credo. Poi sono nati : " Viola libera vola" , " Blu", " Avresti capito? ( i fiori che non cogliesti mai)". Altri racconti ognuno completamente diverso dall'altro. Tutti ovviamente inediti, ad uso esclusivo di pochissimi selezionati. Questione di timidezza, credo. Una timidezza strana, ma pur sempre timidezza, ma di questo ne parliamo un'altra volta magari.
        Nel frattempo sono andato un po' in giro per l' Italia. Brescia soprattutto, in due diversi e lunghi periodi. E posso ricordare di aver fatto almeno quindici lavori diversi, per un giorno, per anni, assurdi o normalissimi. Ed anche, poesie, accenni di racconti e idee scomposte. Poi sono arrivato qui in Olanda e sono quasi tre anni ormai. Sara' stato l'ambiente circostante o la mancanza di un lavoro serio per un determinato periodo ma ho qui ho ricominciato a scrivere, non dico seriamente, ma sicuramente con impegno. Ne e' uscito fuori, dopo piu' di un anno, " Una questione di formalita'". Formale appunto. Un romanzo, almeno nella stesura e nella forma. La mia cosa migliore, secondo me. Seppur ancora a livello embrionale, da sviluppare e ritoccare ulteriormente. Anche questo inedito ma stavolta letto da almeno un centinaio di persone, amici e conoscenti ovviamente.
        Poi a novembre dopo aver letto Benni, ho provato a sperimentare ancora una volta e ho scritto questo "Natale surreale." Per divertimento. Davvero, mentre scrivevo godevo proprio. A proposito dunque di un "Un Natale surrreale" , accenno brevemente ai contenuti di questo scritto che rappresenta per me un vero e proprio esperimento, una prova di elaborazione di pensieri astratti e di "visioni' personali. La verita’ e’ che ho provato a scrivere usando un linguaggio nuovo, per me inusuale, sciolto, volutamente semplice, risultando talvolta anche "elementare", ma che in tutta sincerita’, come gia' detto, mi ha divertito molto.
        Ho cercato di descrivere un Natale diverso, con immagini e scenari quasi come in un cartone animato, osservandolo dal punto di vista della fantasia e cercando di far nascere l’ennesima fiaba natalizia, ma con chiari seppur sottintesi elementi di attualita’, con uno spirito meno buonista di quelli che di solito si adoperano per il tema. Tre episodi, tre punti di vista, tre inquadrature diverse sulla stessa notte. Numerosi personaggi a sottolineare con il paradosso, situazioni d'isolamento tra gli altri, una condizione ovvia di confusione, l'incomunicabilita' palese tra i presenti..
        In Giuseppe-Takeshi c'è ognuno di noi e nessuno a un tempo: c'è la fatua rappresentazione del nostro essere come si dovrebbe e non si vuole o non si può essere, c'è il silenzio assordante delle undici figlie di Fifì, che si frantuma in singhiozzi strazianti, c'è l'ingannevole seduzione della saggezza a tutti i costi di Giasai e Sosò , c'è la notte che si traveste da giorno, il tempo che si smarrisce nello spazio, che compendia il passato e -nel presente- disorienta il futuro, ho provato insomma a ricercare tutte le condizioni favorevoli alla prosecuzione di una storia che potesse ricercare un finale diverso da quello piacevole, ma fugace, della circostanza... Penso che sia divertente.


***

UN NATALE SURREALE
(GUARDANDO IL MONDO DA UNO DEI TANTI OBLO')


1. Li aveva comprati ad “occasione”, in piazza come si usa dire, cioè aveva fatto una specie di mezzo affare, soldi veloci, prendere o lasciare.
Stranamente quel giorno portava con sé un po’ di soldi in tasca, di solito non ne aveva, ma anche lui come tutti gli altri in questo periodo, era stato
infettato da quella fasulla e momentanea sensazione di prosperità legata al Natale.
Spendere, lasciarsi meravigliare dall’inutilità delle cose, spendere, spendere, spendere, spendere, spendere e spendere.
Vabbe’, per farla breve, si trovava ‘sti soldi in tasca e decise di spenderli appunto, rapidamente, senza pensarci molto.
Prese i venti euro accartocciati, li cacciò velocemente dalla tasca e guardando la tenera Lilla Pillolina, che intanto lo aspettava bestemmiando il santo
protettore della città, cominciò a stirare ben benino le banconote.
Mentre perdeva tempo inutilmente, sentì in testa una vocina sottile che gli gridò: “Giuse’ e allora? Che fai? Ti muovi? Vai adesso, vai! Adesso, vai, che è
proprio un’occasione, vai, dagli ‘sti cazzi di soldi, vai sporchi maledetti e subito, vai, vai, vaiiiiiii!.”
E Giuseppe ando’.

Tornato a casa chiuse la porta e aprì subito la bustina di plastica sigillata con lo scotch. Era tutto pronto. Per il post e il durante si era già attrezzato
prima. Eh, festa grande stasera!
Si era ricordato di tutto, o almeno tutto quello che gli era necessario c’era sicuramente. Anche la videocassetta era già pronta nel videoregistratore, da
bere aveva optato per una ristretta scelta tra whisky Mc Shit, acqua liscia naturale e un succo di arancia dolce, casomai ce ne fosse stato bisogno.
Sai mai, un po’ di vitamina C non fa mai male...
Mise in bocca, bevve un sorso d’acqua e inghiottì.
Senza pensarci due volte.

Le nove di sera e la casa vuota.
Assolutamente vuota, incredibilmente vuota e solitaria.
Erano passati dieci anni dall’ultima volta.
Dopo dieci anni i genitori avevano programmato quella sera di abbandonare la casa contemporaneamente, insieme, per festeggiare un altro Natale, il
trentesimo, un altro, ancora passato insieme.
Fratello Gionata il missionario era partito per l’Angola sei mesi prima e sarebbe tornato con un’altra settimana di ritardo.
Meglio così pensava, gli stava tremendamente sui coglioni da quando era nato, due anni dopo di lui, anche se non aveva mai avuto il tempo di dirglielo.
Nonna Titina era uscita con la colf per andare a recitare un breve rosario a casa della Signora Ceccheroni al piano di sopra e dopo sarebbero andate pure
alla Messa, quella di mezzanotte, come da tradizione.

La serata si stava esprimendo al meglio di se stessa e anche Giuseppe stava bene, si sentiva proprio bene. Si era sistemato sulla poltrona comoda del
salone, si tolse le scarpe e aspettò che l’effetto salisse.
Le volte precedenti (successo sempre in occasione di alcune feste comandate) non aveva mai contato i tempi, di solito bisognava aspettare quei venti, trenta
minuti ma stavolta proprio non vedeva l’ora che gli arrivasse il sentore; quello strano tremolio interno che partendo da dietro la schiena lo percorreva dalla
spina dorsale fino al cervello e poi sopra le gote, veloce come in un’autostrada.
Era un po’ emozionato anche se non era la prima volta, ma sapeva bene che in alcuni casi, soprattutto in questi, tutto può succedere... aspettava nervoso, ma
con un nervosismo particolare, una specie di cosa positiva.
Un po’ come la notte prima della gita delle scuole medie.
Comunque fosse andata, quella sera voleva viverla così, così come voleva succedere, così come si sarebbe presentata.
In fondo era già il più bel regalo di Natale che si fosse mai fatto.

Si era seduto in poltrona ma si era rialzato subito dopo, per spegnere la luce lasciata accesa. Non gli piaceva molto la luce, la troppa luminosità di alcuni
ambienti, avete presente? Tipo uno stadio di calcio la sera quando accendono tutti i riflettori oppure uno di quegli alberghi extralusso a cinque stelle,
quelli con le donne tutte paillettes e lustrini abbaglianti, uno di quelli che non aveva mai visto.
I posti troppo luminosi proprio non li sopportava.
Soffriva. Non solo a livello psicologico intendo.
Si era alzato velocemente facendo leva con le braccia sui braccioli della poltrona, poi una volta in piedi, al centro del salone, si fermò a pensare.
“Mi chiamo Giuseppe e ho ventotto anni. Che nome è Giuseppe?
Giuseppe. Da ventotto anni mi chiamo Giuseppe. Lo stesso nome di mio nonno, lo stesso di quattro miei cugini, lo stesso che hanno Pino, Peppe, Peppino e Beppe, anche se loro preferiscono il diminuitivo. Giuseppe. Lo stesso nome che darò a mio nipote.
Lo stesso nome del famoso falegname, dell’eroe dei Due Mondi e anche del cantante spagnolo Carreras.
Un nome buono per tutti e per ogni evenienza. Quante persone nel mondo si chiamano Giuseppe? Oppure Joseph, Jaap, Jozef, Yosephyah, Jose’... perché mi chiamo, anzi perché mi chiamano tutti con un nome che hanno tutti? Perché non mi chiamo Bruno, Stuart, Santuzzo o magari Takeshi? Si, Takeshi è un bel nome. O meglio Hiroshi?”
Rimase senza risposta. Avrebbe voluto un nome alla moda.
Poi disse: “Cazzo di nome è Giuseppe?”

Era ora in piedi in mezzo al salone vuoto. Cercava il telecomando del video con una certa agitazione, quando il primo spasmo gli fece contrarre il collo. Si
sedette sulla poltrona, affondandoci dentro...
L’impulso arrivò fino alla coscia, poi alle ginocchia e alle dita dei piedi e dopo un doppio salto mortale carpiato, il brivido pungente risalì di nuovo
veloce verso il cervello, con una doppia spinta verso l’alto. Giuseppe anche se non aveva mai provato quel tipo di esperienza, ebbe come la sensazione di esser seduto su una sedia elettrica.
Di quelle che si usano per togliersi l’ultimo pensiero.
Agitò le braccia in alto e in basso, a sinistra e a destra, simultaneamente e poi fece un passo di break dance stile ballerino newyorkese anni 80.

Drooon, dron, dron...
Drooooon, dron, dron…

Il citofono gridava, sembrava impazzito, suono lungo e continuato, alternato a squilli secchi e decisi.
Droon, dron, dron...
Droooooon, droooon, dron, dron,dron!

Giuseppe accese di nuovo la luce nel salone, poi mimando una vecchia mossa di Bruce Lee si avvicinò all’apparecchio che suonava... droooon, dron, dron, lo guardò convinto, inspirò concentrato e gridando uuuataaaaaaaaa’, con la mano distesa a fendere l’aria, schiacciò il bottone rosso di plastica dura, quello
per aprire il portone.
Poi rispose.
“Chi è? Chi cazzo è?
Pronto chi è? Prontooooo?”
Nessuno rispose. “Prontooooo?”
Nessuno. Chissenefrega allora.
Lasciò la porta semiaperta e si spaparanzò di nuovo sulla poltrona, poi si rialzò per spegnere la luce, tornò a sedersi di nuovo, si rialzò per prendere le
sigarette, si risedette.

Dopo qualche minuto la porta di casa si aprì completamente.
“Ciao Giuseppe, disturbo? Posso? Posso entrare? Vedi che ti ho portato. Ti ho portato un po’ di bignè alla crema. Non c’è nessuno, non trovo nessuno e ho
pensato di passare... Ci facciamo compagnia, ho pensato... Disturbo, eh Giuseppe, disturbo? Posso entrare? Non sono proprio dolci di Natale ma sono
buoni, li ha fatti mia madre proprio una settimana fa. Sei contento? Posso entrare allora, eh posso entrare?”.

Giuseppe osservò la scena dalla poltrona, assente.
Come se non fosse lì. Come se stesse guardando una scena di scarso interesse.
Rimase fermo con le gambe distese e la videocassetta con il film: ‘Bambiniello Bubbasawa alla conquista dell’Onore’, che già aveva cominciato a girare.
Giuseppe non aveva più la visuale chiara. Nel senso che aveva grossi problemi nel focalizzare, gli occhi si incrociavano da soli, automaticamente.
“Chi sei? Vuoi entrare? Bignè alla crema Chantilly? Che vuoi? Come no, chi sei?
Entra, entra pure. Entra.”
“Li metto qui?” rispose l’ospite, appoggiando i dolci sul tavolo.

Poi dalla strada si sentì un rumore improvviso, forte, fortissimo, un boato.
L’ospite correndo andò verso la finestra.
Giuseppe ringraziò il Destino, la Fortuna, il suo santo protettore e anche la Madonna e tutti gli altri santi furono velocemente ricordati; approfittò
dell’occasione per distrarsi un attimo, per riposarsi e chiudere un po’ gli occhi. Gli girava tutto intorno.
Prima di assopirsi disse: “ma vaffanculo va!”.


2. Ora il rumore intorno alla casa non era più un semplice ed isolato boato. Era diventata una cosa fastidiosa, molto fastidiosa. Si sentiva, tra l’altro, anche
una voce che seppur lontana era assolutamente pulita e chiara.
Si sentiva gridare: Takeshi, Takeshi, Takeeeeshi!
Intanto l’esercito stava arrivando marciando.
Compatto, la sua presenza si avvertiva chiaramente dietro il palazzo di cioccolato.
Avanzava lentamente ma il tonfo costante che rimbalzava come onde anomale sui marciapiedi di gomma, non lasciava presagire niente di buono. Stavano arrivando.
Takeshi non aveva scelta.
Non poteva più volare perché le pillole viola erano già finite.
Non voleva sparire sotto terra perché questo significava scavare con le mani e sporcarsi le unghie. Impossibile.
Proprio quella mattina al ‘Salone Bellezza in fretta’, aveva fatto la messinpiega del ciuffo, la manicure, la depilazione completa e tutto l’altro.
Dunque, impossibile rifugiarsi sotto terra, impossibile accettare l’invito gentile dell’amico oculista Talponi. Takeshi era un tipo alla moda, sempre. Ci
teneva molto, alle apparenze, lui.
Per un momento, preso dal più totale sconforto, aveva addirittura pensato di riaccendere la televisione e sintonizzarla sulla replica infinita di una
trasmissione di Bruno Calabrone, il presentatore con i nei , sullo scambio genetico tra gli uomini e le piante robot.
Ah, se non ci fosse stata la TV!
Quella poteva essere una buona mossa, l’esercito seppur ben esercitato avrebbe rallentato sicuramente la sua avanzata.
Sì, avrebbero rallentato.
Takeshi o l’esercito non erano diversi da tutti gli altri, tutti figli, amanti o dipendenti da Mamma Tivvù.
A quel tempo la gente era completamente ipnotizzata, lobotomizzata, stregata, controllata e fregata dalla Signora Tivvù. Tutti i giorni, in tutti gli attimi,
in ogni stanza della vita, presente finanche in tutte le sensazioni private, quelle Uniche o quelle Esclusive, anche in quelle serie o tristi , vendute in
offerta speciale a quattro soldi.
Ah, se non ci fosse la TV !
Takeshi si sedette pensieroso sull’asfalto, che era liscio e leggermente azzurrognolo e scintillante, proprio come il dorso di un pesce azzurro. Takeshi
era seduto con le gambe incrociate e gli indici nel naso.
Anche la piazza intorno si era piazzata in una posizione di attesa, aspettava che succedesse qualcosa e ascoltava silenziosa; lontano lo spiffero del piffero
di un pifferaio magico era l’unico suono che teneva concentrato Takeshi. Oltre ovviamente al ronzio del televisore a pile elettrofonotiche integrate e al suono
incessante dello sputacchio di Bruno Calabrone. Faceva compagnia almeno...
Ah, se non ci fosse la TV!
Decise di grattarsi la punta del naso.
Non aveva altra scelta. Proprio no.

L’esercito di Bubbasawa ormai era vicino. Si sentiva.
I lampioni di zucchero colorato avvolti su stessi, avevano l’aspetto di serpenti indiani che aspettavano di farsi ipnotizzare da un fachiro incantatore. Anche
loro avevano paura.
Intanto i ghiaccioli alla fragola cercavano di addolcire le notizie che arrivavano sparate dai cartelloni pubblicitari degli aviolanti a propulsione
ecologica, mentivano in modo spudorato alle granite alla menta.
Le creme si agitavano, si muovevano (pur rimanendo sempre nello stesso posto) ansiose.
Ma la Signora Chantilly, affacciata al suo balcone di Bignè, diede come sempre prova di grande signorilità.
“Cosa credete mie care, che una banale invasione momentanea, una eventuale contaminazione, cheneso’ una qualsiasi eventualità, possa compromettere la
nostra dignità?”

Fece la rima e ne fu compiaciuta.
Quando le chiedevano di parlare di sé, la Signora Chantilly amava dire: “sono una di vecchio stampo io, dolce, romantica e poetessa.”
Proseguì: “Possiamo aver paura di mettere in discussione la nostra storia, la nostra importanza?
Ma voi credete che una crema possa aver timore di incontrare Bubbasawa? Non preoccupatevi care, non è una cosa che ci riguarda, non vengono per noi... Ma su mie care, rilassatevi...”

Le altre creme, la bechamel, la custer powder, la farine lactee soprattutto, si afflosciarono proprio quando il grido di Bambiniello scoppiò dovunque era
possibile.
Nel cielo e nella terra, nell’aria e nell’acqua, nelle vibrazioni dei diapason, nelle scosse di elettricità, nel sistema nervoso di tutti i computer centrali e
in quel momento anche gli umani si resero conto che questa volta Bambiniello era proprio incazzato.

Infatti.
Bambiniello Bubbasawa era il seicentoventunesimo Imperatore Galattico Universale, figlio di Atella figlio di Atollo, quello che inventò la colla
marrone col prodotto di culo e un po’ di Nutella.
Bambiniello gridava, gridava e gridava.
Gridava. La sua voce insomma riempì tutto.
Forte come tremila e trecento uragani, piena come un uovo sodo lasciato a bollire per tre giorni, terribile come la sporcizia che lo stesso Bambiniello
riusciva ad accumulare in trentatre minuti di festa in casa con gli amici Bubbo, Ubaldo, Turbato e Balbo.

Bambiniello non voleva spendere troppe parole quel giorno. Tuonò soltanto: “Fessi, voi tutti e Takeshi! Vi ho già mandato un po’ di disgrazie e neanche ve
ne siete accorti.
Avete capito adesso, fessi?
Takeshi, Takeshi, Takeeeshi!
Takeshi ti prenderoooooo!”.

Una sensazione di Terrore non sapendo dove rifugiarsi pensò di nascondersi proprio dentro Takeshi.
Lui pensò: “E che cacchio, proprio da me dovevi venire? Mannaggia all’alabarda starda! Ci mancava solo questo. Solo questo ci mancava.”
Takeshi si grattò di nuovo il naso.
Si vedeva dall’alto adesso, si vedeva entrare ed uscire da se stesso. Si sentiva leggero, impalpabile, seppur presente, un po’ come la nebbia.
Se adesso qualcuno gli avesse chiesto: “Takeshi, come ti senti?”, lui avrebbe risposto, senza pensarci un attimo, mi sento leggero, impalpabile, seppur
presente, un po’ come la nebbia.
Ma Takeshi non aveva paura. Perlomeno non ancora.

Ad un certo punto poi, la televisione cambiò canale automaticamente. Sceglieva i
programmi da sola, selezionando automaticamente il programma che al momento aveva il maggior ascolto.
Ah la Tecnologia! Il Progresso! La Civiltà! La Libertà!
Ooooooh! Più nessuna responsabilità.
La tv ora trasmetteva un reportage, la storia di quei bambini che avevano deciso di aiutare Santuzzo a raccimolare i soldi necessari per comprare finalmente ’sto cazzo di Baliante.
Così lo chiamava XP Stellina 3X. Diceva: “dobbiamo fare di tutto per comprare ‘sto cazzo di Baliante.”
Una cosa importante. Il Baliante dovevano comprarlo all’anagrafe ma l’impiegato era un tipo duro, non faceva sconti.
Per la cronaca, bisogna ricordare che il cognome Baliante era cosa di cui fregiarsi, da esibire con orgoglio, una cosa seria da quando tutti i titoli
onorifici erano decaduti.
Ma il Baliante costava quasi dieci iricoccotoidi. Roba da straricchi.
Esagerazione allo stato puro. Dieci. Dieci iriccotoidi.

I bambini da anni si erano presi ‘sta specie di missione spirituale, dovevano salvare il loro amico Santuzzo dal riacutizzarsi della sua strana malattia, da
quella sua mania di sentirsi inferiore a loro, a tutti e a tutto.
Ogni tanto gli tornava così, all’improvviso, senza preavviso. Inspiegabilmente, come un virus, gli prendeva ‘sta cosa.
Santuzzo, e nessuno capiva il perché, si sentiva il meno simpatico, il meno intelligente, il meno bello, il meno buono, il meno generoso e anche il meno
affascinante e il meno socievole, il meno ambizioso, il meno pulito, il meno sognatore, il meno semplice, il meno tutto eccetera eccetera.
Insomma si sentiva inferiore.
E allora i bambini dovevano comprare il Baliante.
Per amicizia.
Ma non era una cosa facile. Bisognava lavorare.
Fare soldi facili. Avevano già rapito il cane-robot del Presidente Mondiale Burlasconi. Proprio lui, il capo di tutta la Confederazione Spaziale.
Un tipo radioso, sorridente, sempre abbronzato, un padrone imparziale e giusto, ma anche operaio tra la gente, pieno di ideali e di promesse. Un tipo a modo
insomma. Burlasconi grazie anche agli agganci e ai trascorsi sessual-sentimentali con la Signora Tivvu’ era riuscito, accontentando un po’ tutti, a prendersi sto “fastidio”. Ritornando al famoso rapimento: lui, il Presidente, era molto affezionato a quella specie di bestia. Pagò molto.

Tra le altre cose, gli amici di Santuzzo avevano anche sabotato il consumo mondiale di Svegliatina, la più importante produttrice di chip multimediali da
mettere sotto la lingua, quelli al sapore di torte e merendine varie. Avevano creato un virus per far diventare piccantissimi tutti i microchip sublinguali.
Tutti da buttare.
Due di loro, Candy Candy e Giotto, dicevano di essere gli ultimi, veri artisti esistenti. Si vantavano di aver ridipinto in modo innovativo con speciali laser
colorati tutti i vecchi palazzi costruiti dagli ultimi umani al cento per cento.
Il loro obiettivo era dipingere la casa del Presidente Burlasconi con una vernice indelebile color merda antica. Un colore, il risultato di anni di studi,
di sforzi, di miscele chimiche, di furti in laboratorio, di ben settantasette tentativi.
Poi gli avrebbero chiesto un sacco di soldi per ripulirlo.
E il Presidente glieli avrebbe dati.
Così come aveva fatto una volta con due sue nipoti prostitute, ed un’altra volta invece aveva speso dei soldi anche per recintare tute le sue proprieta’, che poi
aveva dichiarato Patrimonio Universale dell’Umanita’, da tutelare quindi, e infatti lui negava l’accesso a tutti. Era una persona di cuore, il Signor
Burlasconi.
Anche stavolta lo sarebbe stato.

Intanto, mentre i bambini combattevano per la loro causa, Santuzzo dormiva.
Dormiva sempre.
Dormiva ormai da ventisettemila miliardi e quarantadue milioni e trecentoduemila micromorosecondi.
Stava cercando di battere il Record dei Record del Principe Permaflex. Era la settantunesima volta che ci provava.
Ma questa volta era quella buona e lo sapeva.
Ne era cosciente anche se dormiva. Infatti, le sue funzioni vitali erano
collegate ad un computer creato apposta per lui da un team guidato dall’Esimio Megatron Professore Dottor Stranamore in persona.
Ad orari prestabiliti partivano vari input telematici sincronizzati, segnali alla cannuccia che dosava il cibo, a quella che spruzzava acqua e anche a quella
che aspirando delicatamente gli spurgava ogni sera il culo.
Inoltre, a livello inconscio ogni secondo Santuzzo riceveva dal Gran Computer Centrale tutte le informazioni sulla vita a cui avrebbe dovuto partecipare se
fosse stato sveglio. Aveva selezionato sette argomenti prima di addormentarsi.
Ah, la tecnologia!.


3. Era quasi Natale anche in casa dei signori Padrone Dicasa, i preparativi erano cominciati già da un pezzo. Da sedici giorni per la precisione.
Nell’attesa della festa vera e propria, ognuno si faceva i fatti suoi. Rosamunda Traskpycsz cantava con voce baritonale un’ aria dell’ Aida; Pongo e Palletto
Sciaffone facevano statuine con le molliche di pane bagnato di saliva; il sig. Ringhio Traskpycsz giocava da solo al gioco della bottiglia e ad ogni giro si
chiedeva se avesse preferito un bacio o uno schiaffetto e rispondeva una volta l’uno e una volta l’altro; Giacarta, trovatosi li per caso, faceva un solitario
classico con le quaranta carte.

Le donne nella cucina erano indaffarate a finire le ultime cose.
La signora Vera Padrone Dicasa stava mangiando dei frutti strani e sputava i semini per terra. Le figlie, le undici giovani sorelle Padrone Dicasa erano
tutte in piedi, attorno al tavolo rettangolare da preparare, in ordine di eta’.
Le undici ragazze erano figlie dei signori Padrone Dicasa ma soprattutto erano figlie di un esperimento, un tentativo tecnologico, una cura ormonale andata a
male. Nate per un semplice errore della Scienza. Era normale, ste cose succedevano spesso.
Figlie dunque anche di quel medico, genio incompreso, che adesso vendeva cartoline di antiche città di un antico pianeta del Sistema Solare che si
chiamava Cerra, Terra, Serra o qualcosa del genere.
Le ragazze erano silenziose.
Prima, che era la prima di tutte, era a capotavola mentre Rita, Dolly, Brenda, Jeannette, Marilyn, Filomena, Bernadette, Sandro, (che in realta’ si chiamava
Diana), Maria e Veronica Castro tagliavano -come in una meccanica catena di produzione- a listelle sottilissime una confezione da sedici chili di polpettine
di struzzo al sesamo, per il cenone.
Nella stanza dallo schermo quadrimensionale a cristalli gassosi, il piccolo Giasai Sciaffone era seduto sulla poltrona ad acqua come un pascia’ e ogni
cinque minuti, con cadenza regolare, accennava a vari argomenti e possibili discussioni filosofiche. Al momento di trarre delle conclusioni pero’, proprio
come un grande filosofo, si zittiva e Soso` Traskpycsz ( campione mondiale nella specialita’ peto libero) in ginocchio davanti a lui con la bocca piena,
dimostrando chiaramente di seguire tutto il filo del discorso, acconsentiva mugugnando. Melinda Sciaffone girava completamente nuda per casa senza fare
niente. Passeggiava e osservava.


4. Intanto, a soli quattro chilometri e mezzo da li` il rumore era diventato assordante.
Bunghete e banghete, bunghete e banghete, bunghete e banghete. Il rumore era vicino.
Bunghete e banghete, bunghete e banghete, bunghete e banghete. Il rumore stava arrivando.
Tutto tremava. La terra tremava, nei mari tre navi tremavano, i marinai remavano, ma rimedio non trovavano. Insomma, tutto tremava.

Bambiniello Bubbasawa era davanti all’esercito marciante. Cavalcava una specie di trenino umano composto da tre bambini sui sei-sette anni che camminavano meccanicamente a carponi.
E proprio come un treno, i due bambini di dietro spingevano con le braccia in avanti, tenendo ben strette le caviglie di quello con il testone grosso che
stava all'estremita' e che reggeva sul collo Bubbasawa.
Era certamente un lavoro un po’ faticoso, ma i bambini venivano tutelati alla meraviglia dal nuovo Codice dello Sfruttamento Tutelato dei Minori, una cosa
seria, orari precisi, tabelle di percorrenza, velocita’ programmata e si stava discutendo anche di dare ai bambini qualcosa da mangiare, ma una volta ogni
tanto pero’. Altrimenti non si riconosceva il valore del Lavoro, quello vero.
Vabbe’, c’era un documento importante finalmente, dopo tanti secoli, millenni, qualcuno adesso si preoccupava della gioventu’. Ovviamente non di quella
propria, sarebbe troppo facile, ci si preoccupava di quella degli altri.
Lo avevano firmato tutti, anche quelli dell’ OGU, l’Organizzazione delle Galassie Unite. Roba seria.

Dietro Bubbasawa marciavano, a saltelli, settemila rumorosi martelli, pneumatici, allegri, vivaci e belli, vestiti come Liza Minelli, nel film Cabaret.

Bustini di pizzo, bombetta e anche bastone con pomo d’avorio lavorato.
Saltellavano, a ritmo di Charleston, danzando, facendo piroette a mezzo metro e spaccando tutto.
Cantavano a squarciagola, ruttavano, ubriachi fradici di nafta agricola, fischiavano alle belle Principessine della famiglia Tortine di Pan di Spagna. Le
signorine timidamente li osservavano, nascoste dietro le porte di marzapane della loro casa.
I martelli pneumatici, di se stessi pieni e duri, avanzavano sicuri, abbracciandosi, sul Viale principale, vicino al Monumento Nazionale, dedicato al Gigante Buono Pensacitu`, nota star della tivvu`!

Ogni tanto qualcuno di loro rimaneva indietro per riattaccarsi il gancetto del reggicalze di pizzo.


5. Proprio non sembrava Natale a casa Padrone Dicasa, quasi sembrava la Pasquetta. Ognuno dei presenti si faceva i fatti suoi.
Ognuno isolato, ragionevolmente distanti l’uno dall’altro, per quel che si puo’ esserlo in un salone di una casa di 50 mq. balcone abitabile, cucina e bagno
inclusi.
Ognuno dei presenti aveva qualcosa da mangiare, da sgranocchiare, da gustare.
Chi c’e` l’ aveva in mano e chi già in bocca. Faceva caldo quel giorno nel salone delle feste.
I tre lampadari erano accesi, le ventitre candele rosse (una per ogni presente) erano accese, le due lampade alogene verticali erano accese e anche il fuoco nel camino era ancora acceso.
Insomma, col caldo che faceva sembrava una specie di picnic in aperta campagna a primavera.
Come succede quasi sempre appunto, il giorno della Pasquetta.

Da tempo ci si era preparati al Gran Cenone a cui avrebbero partecipato anche le famiglie Sciaffone, padre, madre e quattro figli e quella Traskpycsz, questi
ultimi di chiare origini napoletane.
Il sig. William Calogero Junior Padrone Dicasa ( per gli amici era soltanto Fifi’ ) non aveva gradito molto quando la moglie, la sig.ra Vera Padrone Dicasa,
sei mesi prima gli comunico’ che quell’anno avrebbero trascorso il Natale in famiglia, loro e tutte le undici figlie insieme, piu le famiglie dei vicini. Il sig. Padrone Dicasa era incazzato soprattutto perché non gradiva la presenza delle due famiglie ospiti.
Di solito lui il Natale lo passava uscendo di casa, dopo cena, da solo, ogni anno, alle undici spaccate. Se ne andava in giro fischiettando Merry Christmas,
quasi sempre fino alle tre del mattino in punto. Poi tornava a casa. Non prima di aver comprato undici croissants alla marmellata di cetriolo per le sue
ragazze.
Il sig. Sciaffone, moglie e famiglia, Giasai, Palletta, Pongo e Melinda si occupavano da anni ormai, della sicurezza e della tutela di casa Traskpycsz:
ognuno di loro aveva un compito specifico e lavoravano con un contratto“ a prestazione ottenuta di risultati apprezzabili e riconosciuti da parte della
maggioranza relativa familiare”. Una specie di cottimo, più o meno.
La signora Sciaffone curava l’organizzazione dei lavori, lei era il manager della societa’. Curava gli interessi di tutta la famiglia impegnata a lavorare.
Lei sapeva cosa era necessario fare in casa, teneva i conti e dava da mangiare alle lumache carnivore nelle gabbiette.
I tre figli maschi invece pulivano la casa, tagliavano ogni giorno gli alberi in giardino, cambiavano la mattina e la sera le mattonelle dei bagni, lucidavano
ogni anno il pomello d’oro della porta della cucina, qualche volta montavano e smontavano tutti i mobili della casa. La giovane figlia Sciaffone, Melinda,
aveva il solo compito di girare per casa senza indossare niente e senza fare niente, cioè nuda e nullafacente, giusto così per dar piacere agli occhi e al
cuore della sig.ra RosamundaTraskpycsz. La signora diceva che Melinda le ricordava lei da giovane. Non era assolutamente vero. La sig.ra diceva che la
ragazza era bella come lo era stata lei, da giovane, come una principessa le dicevano e dunque come tale non faceva e non doveva fare niente. Sciaffone padre teneva sotto controllo le ventole dei condizionatori che riciclavano l’aria nei quindici bagni di casa Traskpycsz.
Bisogna sapere che la famiglia Traskpycsz era da quattro edizioni, Campione Intergalattico della nota trasmissione televisiva:
“Peto in famiglia”.
Giusto per la cronaca, il gioco consisteva nel raggiungere, attraverso esibizioni di potenza e intensita’, varie selezioni da superare. C’era, nel gioco, una giuria apposita.
La giuria era composta da dodici persone di una sola razza, scelta ogni volta a caso tra le migliaia esistenti nell’Universo, e da un computer di 2000 extrabite
olfattivi.
La giuria era chiusa in un grosso cubo di vetro trasparente ed escludendo il computer, tutti indossavano delle cuffie speciali per valutare al meglio la qualita’ dei suoni.
Le famiglie in gara( con un massimo di sei elementi ciascuna), provenienti dalle maggiori galassie conosciute, entravano nella stanza cercando di dare sfoggio di tutte le loro potenzialita’: rumore e potenza appunto, puzzo e grado di intensita’.
Man mano che i concorrenti avanzavano ( cioè,quando gli altri venivano esclusi per evidente incapacita’), il cubo diventava sempre più grande, si allargava sia
in lunghezza che in altezza, cosi` per dare la possibilita’ alla giuria di valutare e apprezzare meglio gli sfidanti e i loro stimoli. Il gioco finiva e la giuria decretava il vincitore quando proprio erano soddisfatti e quando per il computer ad olfatto esteso era IMPOSSIBILE rimanere ancora chiuso nel cubo.La famiglia Traskpycsz composta da soli tre elementi, come già detto, aveva vinto le ultime quattro edizioni e, anche se all’inizio avevano provato un certo imbarazzo, poi capirono l’importanza del titolo e soprattutto il ritorno economico dato dall’onorificenza.
La famiglia Sciaffone tutta, aveva sempre fatto il tifo per loro ad ogni gara, aveva sempre incoraggiato i loro datori di lavoro a mangiare pesante, ad impegnarsi sempre, a continuare a vincere.
Anche per la loro famiglia ovviamente. Bisognava pur mangiare...


6. Il Natale stava davvero per arrivare, mancava poco, qualche minuto, cinque al massimo e con lui magari sarebbero arrivati, un po’ quasi come i Re Magi,
anche Bubbasawa e l’esercito.
O forse prima.Takeshi intanto aspettava.
Fermo, immobile nella sua postura. Aspettava.
Seduto a terra, con le gambe incrociate e come al solito, gli indici nel naso per concentrarsi. Un venticello educato continuava a soffiargli leggero dietro
le orecchie; dei fiocchi di neve gli si presentarono in avanscoperta per annunciargli che da li a poco sarebbe arrivata la bufera. Su di un albero
spoglio, quattro uccellini giovani lo guardavano, starnazzavano a becchi aperti e lo prendevano chiaramente per il culo.
Lui concentrato, non fece caso a niente, pensava.
O almeno ci provava, dei tentativi, faceva finta, ma non gli veniva in mente niente di importante, niente di interessante, neanche.
Intanto, un’orologio di una chiesetta, da qualche parte, si mise a battere ore e ore a non finire.
O almeno così sembrava.
Poi così, inaspettatamente, Takeshi ebbe l’intuizione.
Non credeva fosse possibile. Decise.
Decise che era inutile continuare a scappare.
Era stanco, solo e anche ricercato.
Era inutile nascondersi, anche perché soprattutto nel suo caso, non aveva ancora capito di preciso perché doveva farlo.
“ Chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni...”, detto antico e veritiero.
Takeshi ci credeva fermamente. Quella era la sua Filosofia di vita. Non aveva fatto niente, ne’ di bene ne’ di male, o almeno cosi credeva. Pero’ era sicuro,
lo stavano cercando.
Per quel che ne sapeva lui, voleva solo godersi la serata di Natale guardando la tivvu’. Da solo, senza rompimenti di coglioni vari. Quella era l’unica cosa
sicura che voleva fare.
Ah, se non ci fosse la TV !

E invece no.
In genere, come già detto,Takeshi non voleva capire e non sapere niente, invece adesso, suo malgrado, aveva dentro la testa la certezza di quest’altra cosa.
Aveva saputo, prima da cosidette voci di corridoio e poi direttamente dallo spirito del Vento, che il mitico Bambiniello era incazzato proprio con lui e forse, avrebbe voluto pure ammazzarlo, se avesse potuto, e forse l’avrebbe fatto pure.
Come detto, non aveva capito bene perché, ma era una storia in cui c’era di mezzo Atlante, dei nomi, cognomi, Baliante, insomma delle cose del genere.
Boh...!
Bubbosawa con l’esercito si avvicinava, stava marciando verso di lui. E Takeshi lo sapeva, ma aveva deciso. Avrebbe aspettato Bubbosawa, li’, solo per
chiedergli un perché, una spiegazione qualsiasi, qualunque cosa.
Del resto non gli importava molto, gli sarebbe andato bene ogni motivo.


7. Fifi’ Padrone Dicasa era suo malgrado, a capo di quella tavolata di ventitre persone, (dieci da un lato e undici dall’altro) tutte in piedi e tutte quasi attente, tutte pronte per cercare di apprezzare le sue parole. All’altro capo del tavolo, di fronte a lui, la signora Sciaffone vestita con una pelliccia bianca di rarissimo topo giallo della Groenlandia e una sciarpetta dorata, con bardature di vellutino rosso di Scozia.
Alle sue spalle, l’albero di Natale con le luci di Natale e la stella di Natale, il presepe e i regali di Natale da aprire, per tutti. Nell’angolo c’erano un’ammasso di pacchi, carte colorate, pacchettini, confezioni regalo buone per una notte sola e regali per tutta la Vita. Mancava solo quello per Brenda Padrone Dicasa, perché lei aveva chiesto a Babbo Natale di diventare o una famosa e popolare cantante rock oppure la conduttrice di tram .

Vera Padrone Dicasa diede al marito il compito, per lui ingrato come dicevamo, di aprire con il solito discorsetto augurale, quella che da li a poco sarebbe
diventata un’abbuffata collettiva.

Mancavano dieci minuti alla mezzanotte e, come da antica tradizione, solo alla fine del discorso, dunque allo scoccare del nuovo giorno, si sarebbe potuto
cominciare a mangiare.
Fifi’ avrebbe dovuto parlare per almeno dieci minuti e invece niente, non aveva proprio un bel niente da dire.
Anche perche` di solito, gli altri anni, come già detto, a quell’ora era già in giro da un bel pezzo.
Di solito a quell’ora, gli altri anni, non incontrava mai nessuno per strada.
Non gli era capitato spesso di dover parlare allo scoccare della mezzanotte.
Ancor di meno davanti ad un pubblico.
Sicuramente mai in una notte di Natale.

Vera infagottata in un vestito di tulle blu elettrico, era seduta alla sua destra. Era l’unica che era rimasta seduta e continuava a mangiare dei frutti
strani e sputava i semini per terra, aveva un mezzo sorriso stampato permanentemente sulla sua faccia vecchia, truccata male e anche un po’ di cazzo
a dir la verita’.
Un’espressione strana, indefinibile, compresa tra l’attesa dell’inizio e della fine di quella pagliacciata, la consapevolezza di un probabile fallimento del
marito e forse chissa’, anche un po’, un minimo di imbarazzo per lui. Alla sua sinistra, Fifi’ aveva invece la figlia maggiore, Prima. Poi in successione, in ordine di altezza tutte le altre.
Partendo dalla più alta Bernadette, fino a Veronica Castro, le estremita’ delle loro teste formavano una linea immaginaria, retta e obliqua.
Dunque al lato sinistro del capotavola c’era tutta la famiglia Padrone Dicasa, dall’altro gli ospiti con la signora Vera a fare da supervisore...

I minuti intanto passavano, la mezzanotte si avvicinava e l’attenzione iniziale era diventata pian pianino, prima un brusio, poi un crescente mormorio.
Potenzialmente poteva diventare un casino.
Pongo e Palletta Sciaffone avevano cominciato ad imitare la signora Vera, si riempivano la bocca di caviale giallo e poi lo sputavano a pioggia sui presenti,
Giacarta che stava ancora provando con quel suo difficile solitario ad un certo punto cominciò a lanciare le carte, facendole planare in aria leggere, tipo
Wanda Osiris quando lanciava le rose al pubblico, nell’Avanspettacolo, due secoli prima.
La mano calda della sig.ra RosamundaTraskpycsz era infilata con non-chalance tra l’imbottitura della sedia su cui era seduta Melinda e il suo culo nudo. Una
specie di sandwich insomma, in cui la mano sinistra della signora faceva da ripieno.
Melinda sembrava gradire.
Giasai e Soso’ erano seduti molto vicini, ma su due sedie diverse.
Giasai era minuto e gracilino, secco insomma e ne occupava la meta’ di una, il resto era riempito dal gigante Soso’.
Soso’ era alto un metro e novantadue e pesava cento chili e duecentosette grammi.
I due continuavano a parlare di concetti filosofici e divagavano su ogni tipo di dissertazioni accessorie.
Cioè, parlava Giasai e Soso’ continuava ad ascoltare.
Era un’ ottimo alunno Soso’.
Poi improvvisamente nella testa del piccolo Giasai Sciaffone scatto’ qualcosa.
Si convinse di aver scoperto la teoria della relativita’ e lo stava spiegando a Soso’ Traskpycsz che rispetto a tutti gli altri concetti, questa volta proprio
non capiva.
Giasai ci stava provando con degli esempi facili, facili, facilissimi, ma niente, Soso’ adesso gli sembrava proprio un po’ ritardato. Non capiva.
Certo sara’ stato anche campione mondiale di peto libero, un grande non c’e’ dubbio, ma in quanto a ragionamenti...
Uno stupido. Nient’altro, stupido.
Il piccolo Giasai pensava, parlava e sbuffava, mentre avanti e dietro per la stanza passeggiava, nervoso, con le mani nelle tasche di dietro del pantaloncino
corto. Quasi ansimava.
Dalla bocca, la sigaretta gli cadde per terra e allora a quel punto cominciò a bestemmiare, a strillare forte, con la sua voce sottile e potente come solo puo’
esserlo quella di un bambino di sei anni non ancora, del tutto, sviluppato.
Poi così, ad un certo punto, divento’ serio e dopo un silenzio di circa dieci secondi, riprese a gridare come un piccolo psicopatico incazzato:
“Soso’, ma allora sei cretino! Soso’ sei un coglione! Ma com’e’ che non ci arrivi? Sei un pesce allora, Soso’!
Perché ti chiami Soso’ se non sai un cazzo?
Eh, perché, perché?”.

Giasai avrebbe continuato ad offenderlo e dargli calci nella panzona per ore, magari anche fino alla Pasqua successiva, anche perché Soso’ era accucciato in
un angolo, indifeso.
Giasai gli dava calci di punta nella pancia, nello stomaco, all’imboccatura dell’intestino. Soso’ cerco’ di difendersi dalla furia dell’aggressore nell’unico modo per lui possibile. Sfruttando al meglio la sua abilita’, il suo titolo di campione di peto.
Cioè, emanando puzza di culo allo stato puro.
Il piccolo Giasai non si calmava, non si fermava proprio, ma quando necessariamente dovette fermarsi a riprendere fiato, solo allora si accorse
dell’ingegno di Soso’ e del più potente strumento di autodifesa mai realizzato dall’uomo.
“ La paura fa l’uomo saggio.”

Aveva agito proprio come il suo idolo McGyver, quello dei telefilm americani. Si stava salvando, d’Intelligenza.
Penso’ a quella cosa tanto ingegnosa quanto letale.
Soso’ nel terrore più assoluto, preso dalla paura, aveva pensato bene di ficcarsi un piccolo tubicino in culo e con quello, spingendo con incredibili
sforzi di stomaco, vi soffiava all’interno e distribuiva intorno a sé una cortina nauseabonda di puzza di gas intestinali.
Come una puzzola. Una cosa incredibile, insopportabile.
Soso’ era pur sempre un campione...
Giasai, coprendosi la bocca con le mani, dovette allontanarsi e tornare al suo posto.
Come previsto cominciava ad esserci un po’ di confusione.
Nessuno si era accorto di niente, tranne Marylin (una delle figlie Padrone Dicasa) che era un po’ snob e aveva avuto sentore di qualcosa...
Invece il Signor Sciaffone e consorte e il Sig. Ringhio Traskpycsz, dopo aver finito la ventiseiesima bottiglia di vino in tre, avevano deciso di cominciare a
giocare al gioco della bottiglia.
Uno alla volta, alternandosi tra loro, facevano girare la bottiglia sul tavolo.
Nello spazio vuoto che avevano liberato tra il consomme’ di verdure e la pepata di kotze, saporiti frutti di mare simili alle vongole. Quel gioco era stata una
proposta del Sig. Traskpycsz.
Bacio o schiaffetto?
Per quel motivo gli piaceva molto giocare al Sig.Traskpycsz, per poter chiedere: bacio o schiaffetto? Bacio o schiaffetto?
Gli piaceva pensare, al Sig. Traskpycsz, alle diverse possibilita’ di scelta: bacio o schiaffetto?Bacio o schiaffetto?Bacio o schiaffetto? Anche se lui
preferiva giocare da solo era piacevole anche in tre.
Cosi penso’ Ringhio Traskpycsz. Una volta ogni tanto ovviamente. Se capita.

Fifi’ intanto era in piedi e aspettava che gli venisse qualcosa da dire. Una genialata, una cosa, una cazzata qualsiasi. Niente. Niente di niente.
Tutte e undici le sorelle Padrone Dicasa erano le uniche ancora in religioso silenzio. Continuavano a sperare. Come delle suore nel momento del
ringraziamento.
Mute, silenziose, mai una distrazione, non un parola, non un bisbiglio, da non credersi.
In piedi, composte, mute e silenziose, le uniche che ancora lo aspettavano.


8. BBBBBBBUUUUM.
Si senti’ improvvisamente un rumore di tuono, spaventoso.
Il cielo si riempi`di un primo botto, forte, secco e violento.
Fili sottilissimi di luce e di scosse elettriche rigavano e graffiavano l’orizzonte. Subito dopo, si avverti’ chiaramente la sensazione che la Signora Quiete, che di solito arrivava sempre dopo, per una volta stesse precedendo la capricciosa Signorina Tempesta.
Era arrivata prima stavolta.
Dopo il botto, era arrivata accompagnata dal suo amante il Signor Silenzio. La Quiete c’era stata fino a quel preciso momento.
Adesso andava via, regalava ai presenti l’ultimo sfoggio della sua grandezza. Si mostro’, come si dice in questi casi, in tutto il suo ultimo ma pur sempre
meraviglioso splendore.
La Signora Quiete aveva deciso di offrirsi così come mai era stata apprezzata fino ad allora. Tranquilla e silenziosa.
Fu quello il suo ultimo sforzo.

Dunque, dicevamo, ci fu il classico attimo di silenzio, breve, intenso, di presagi terrificanti.
Lo stesso classico momento descritto in tanti libri e film e racconti horror.
Quello che fa battere i denti, che che che che (balbettando) met-t-te i bri-bri vidi. Insomma, il Tutto stava arrivando davvero in Capo al Mondo, stava salendo sulla sua testa, aveva Paura ed era sempre più evidente. Non si poteva andare più in la’, perché dopo di quello non c’era che il Niente.

Quel tipo di Momento, lo conoscevano bene alcune nuvole che avevano già partecipato anni addietro a quel viaggio con il vecchio Noe’ e tutti i suoi
animali.
Ricordavano che pure allora tutto cominciò così.
Lo stesso boato improvviso, lo stesso immediato silenzio, la stessa sensazione apparente di pace interiore e addirittura anche la stessa puzza di mortadella
avariata, orina di una settimana e pesce fritto. Poi avrebbe cominciato a piovere.
Le nuvole lo sapevano già.
Significava che la Signora Quiete si era definitivamente rotta i coglioni.
Le nuvole proprio anziane lo sapevano bene.
Le nuvole più giovani invece, non capivano più niente, in preda al panico, quello vero, cominciarono a correre all’impazzata, piangendo a dirotto, bagnandosi e scontrandosi tra loro.
Non si vedeva niente nel buio nero che il Cielo aveva scelto di indossare come colore. Cominciò a piovere davvero.
Tanto, tantissimo, tantissimissimo.
Si sentivano da lontano, arrivavano dall’orizzonte, i singhiozzi delle piccole nuvolette smarrite e prese momentaneamente a custodia, dalle cime appuntite e
innevate delle montagne più alte.
Pioveva, pioveva e pioveva. Acqua, acqua e acqua.
Pioveva, pioveva e pioveva. Acqua, acqua e acqua.
Pioveva, pioveva e pioveva. Acqua, acqua e acqua.
In un modo esagerato.
Essi', sembrava davvero un’altro Diluvio Universale...

Poi, così, di nuovo improvvisamente, in mezzo alla pioggia BBBBoaaam! Un’altro boato. Come il rumore di un terremoto che corre a perdifiato. Una cosa forte.
Fortissima botta.
Un fragore tanto potente quanto immotivato.
Come se qualcuno ti svegliasse all’improvviso in una notte d’inverno freddo, mentre sei sotto il piumone, prima con una botta di mazza di legno, violenta in
testa, e poi subito dopo con una secchiata d’acqua gelida in faccia. Non bello.

TAKESHI! TAKESHI! TAKEEEEESHIIII!
TAKESHI! TAKESHI! TAKEEEEESHIIII!
TAKESHI! TAKESHI! TAKEEEEESHIIII!

Il grido di Bambiniello terrorizzo’ il Mondo intero.
Eh, adesso la situazione diventava davvero triste, tristissima.
Tutto il Mondo aveva qualche buon motivo per preoccuparsi.
Il nord e il sud, quello buono e quello malvagio, quello felice e quello triste, quello povero e anche quello ricco, l’oriente e l’occidente, quello Giusto e
quello falso, il conosciuto e il virtuale, il mondo a colori e quello in bianco e nero, quello dei grandi e anche quello dei bambini.
Insomma si cacarono sotto tutti quanti.
Tutto il Mondo. Erano tutti terrorizzati.
Tranne Takeshi. L’unico sereno era Takeshi Giuseppe.
Takeshi Giuseppe aspettava.
Aggrappato ad un canotto gonfiabile che aveva pure la palma tropicale, galleggiava con grande calma tra le onde alte, in mezzo alla bufera. Non si
lamentava perchésapeva bene che bisognava arrangiarsi da soli. Già era così per tutto ormai, cibo, Emozioni, casa, medicine, lavoro, Amore, ecc ecc. Figurarsi per le pioggia diluviana, la bufera o tutte ste disgrazie qua...
A chi doveva chiedere aiuto? Non c’era molta scelta.
E seppure avesse trovato qualcuno, chi poteva intromettersi per ascoltarlo?
E poi la vecchia moda dell’assistenzialismo centralizzato, del buonismo autocelebrativo, della beneficenza da esposizione insomma, era finita da un bel
pezzo. Non si usava più, adesso ognuno se la vedeva da sé. Tutti.
Takeshi dunque aspettava.
Quel qualcuno sarebbe venuto a cercarlo.
Aspettava, tanto peggio non poteva andare.

Il cielo fu tagliato a meta’ da un fascio di luce abbagliante.
La luce scivolo’ dall’alto al basso del cielo, scorrendo facilmente come un paio di forbici da sarta su di un pezzo di stoffa.
Di velluto, per la precisione. Scivolano meglio.
In quel momento Takeshi, che continuava a galleggiare aggrappato alla palma quasi sgonfia, cominciò ad aver paura davvero.
Con tutto quel casino che stava succedendo, magari in futuro avrebbero avuto problemi anche per guardare un po’ di TV.
Si preoccupo’. Ci mancava pure questa, penso’.

Poi di nuovo quella voce. Si senti’ gridare: Takeeeeshi!
Era un lamento disperato, profondo.
Una voce sottile e lacrimosa proveniva dallo spacco nel cielo. Takeshi!
Takeeeshi! Takeeeeeshi!
Takeshi! Takeeeshi! Takeeeeeshi!

Era straziante come il pianto di una mamma a cui hanno ammazzato prima il marito e poi i due figli di quattro e cinque anni. Sembrava insomma, che provenisse da una persona sofferente.
Ti si spezzava il cuore a sentirlo.
Takeeeeeshi! Takeeeeshi! Takeeeeeshi!
Takeeeeshi! Takeeeeeshi! Takeeeeshi!

Bubbasawa era arrivato. Con il suo panzone nudo e i pantaloncini a fiori che sembrava Buddha in vacanza con gli speroni ai piedi.
Gli speroni placcati di stagno antico li usava per far muovere il trenino che lo trasportava. Scalciava come quando andava in groppa al suo elefante nano
arancione.
Il trenino umano era libero di precederlo per stendere in aria il telo impermeabile che lo doveva proteggere da tutta quella pioggia che lui stesso aveva mandato. Era una specie di megalomane pentito, un tipo un po’ strano.
Bubbasawa era dietro al Cielo ferito. Infilo’ una mano, poi una gamba, poi l’altra mano e poi l’altra gamba ancora, ed entro’ alla fine anche il suo panzone, con molta fatica, tra le due pieghe che sventravano il cielo.
Fatto sta, comunque, che era proprio arrivato.

Takeshi Giuseppe ebbe un momento di perplessita’ soprattutto perché appena lo vide gli sembro’ di conoscerlo da sempre, da cosi tanto tempo, che penso’ tra sé e sé: “Ehi ! Ma io questo sconosciuto lo conosco, mi sembra di conoscerlo da sempre !”
E poi si aspettava di vedere Bambiniello incazzato con una voce adeguata al suo Potere e alla sua leggendaria Violenza, e invece lui, Bambiniello Bubbosawa il Terribile, era li’ con quella voce strozzata, sguaiata, finta e trascinata come l’ultimo dei travestiti.
Ma magari era solo uno dei suoi trucchi. Takeshi ne aveva già sentito parlare da un gruppo di turisti in crociera che giuravano di aver visto il panzuto
Bambiniello cantare come una sirena, appoggiato su una roccia, triste, una notte in cui c’era la Luna piena.
Takeshi si ricordo’ improvvisamente che pur non credendoci affatto a 'sti detti, aveva sempre raccontato in giro che l’abito non fa il monaco, che non è tutto
oro quel che luccica, che non è bello cio’ che è bello ma è bello cio’ che piace e insomma tanti altri proverbi per far vedere che era colto, ma il suo preferito
era quello che parlava dell’apparenza che inganna eccetera eccetera e quella volta ci volle credere e ci spero’ davvero in quel proverbio.

Naturalmente, l’esercito di Bambiniello Bubbasawa era arrivato con lui. Dalla fessura luminosa aperta nel cielo cominciarono a schizzare fuori martelli
pneumatici impazziti di gioia e allegri, vestiti come Liza Minnelli. Si tuffavano nell’acqua da quelle altezze incredibili, erano tanti, tantissimi, martelli pneumatici al bagno.
Nella foga di arrivare per primi avevano cominciato ad affondare e a morire.
Ubriachi. Come degli stupidi. Senza infilare i salvagente a ciambella. Affogati, vestiti con l’abito buono da cenone di Natale, calando velocemente a peso morto, nella profondita’ dell’acqua.


9. BBBBBBBUUUUM.
A casa Padrone Dicasa si senti’ improvvisamente un rumore di tuono, spaventoso.
Il cielo si riempi`di un primo botto, forte, secco e violento.
Fili sottilissimi di luce e di scosse elettriche rigavano e graffiavano l’orizzonte.
“ I fuochi, i fuochi, i fuochi artificiali! Correte, correte, i fuochi artificiali. I fuochi!” Grido` il piccolo Giasai uscendo sul balcone.
“ Ma che fuochi, cretino, tra un po’ è Natale, mica S.Silvestro!” replicarono simultaneamente in coro, i fratelli Pongo e Palletta.
Infatti, avevano ragione loro, mancava qualche minuto, al massimo cinque a Natale.

Comunque Giasai, o non capiva oppure se ne fregava altamente.
“ I fuochi, i fuochi, i fuochi artificiali!” gridava.
Per festeggiare lanciava dal balcone, nel vuoto, sia candele accese che intere batterie di pentole, cesti di frutta tropicale e anche melanzane sott’olio.
Interi barattoli.
Poi successe un’altra cosa strana.
Mentre era normalmente buio, la Signora Notte, di solito scura e fredda a dicembre, si stanco’ di essere sempre mascherata e incappucciata e decise di
spogliarsi, almeno per una volta, almeno a Natale. Divenne giorno, senza fretta, albeggiando piano piano, scoprendosi lentamente e con un po’ di vergogna.
Non era abituata, poverina.
La notte si maschero’ molto bene da giorno ( sembrava una mattina di giugno alle nove) e la Madre di tutte le Sensazioni Immaginabili e Possibili entro’ nel
salone di casa Padrone Dicasa. Era arrivata lei con tutte le sue innumerevoli figlie, ma nessuno la riconobbe, nessuno se ne accorse.

Intanto la signora Traskpycsz non si tratteneva più, faceva su e giu’, su e giu’, avanti e dietro, avanti e dietro, su e giu’, avanti e dietro, veloce,
strofinando sempre la sua mano calda tra l’imbottitura della poltrona e le chiappe nude di Melinda, che sembrava gradire ancora, nonostante tutto.

Le sorelle Padrone Dicasa, aspettavano ancora quel famoso discorso di Fifi`.
Niente, neanche una parola, Fifi pensava. Ancora.
La mamma delle giovinette, Vera Padrone Dicasa continuava a mangiare quei frutti strani e sputava i semini per terra. Fifi’ ascoltava tutto, attentamente, ma non diceva parola, se fosse nato parrucchiere per signora avrebbe fatto montagne di soldi.

“ Ti odio.” Gli disse Prima, per prima.
“ Anche io a te ti odio, anzi io a te di più, ti odio di più che ti odia lei!”.
Disse Jeannette che era l’unica a non aver finito le scuole.
“ Sei solo uno stronzo da quattro soldi!”. Disse Brenda.
“ No, non è stronzo perche lui lo sa pure, coglione che non è altro!”
sottolineo’ Dolly che di solito era la più impulsiva e sboccata tra le sorelle.
Rita cerco’ di trovare un’accordo: “ Avete ragione tutte mie care sorelline, non litigate su, è uno stronzetto e pure coglione da quattro soldi! Va bene?”
“Ragazze, comunque, se ci pensate bene, forse non è proprio...non dovremmo proprio parlare così...” intervenne timidamente Veronica Castro.
“ Zitta tu Veronica! Che sei ancora piccola e non capisci ancora un benemerito cazzo! Non ci rompere il cazzo, per cortesia dai, vai a rompere il cazzo da
un’altra parte, dai...” grido’ Sandro ( che in realta’ si chiamava Diana) con il suo solito tono patriarcale e convincente.
“ Mi hai sempre fatto schifo tu, lo sai? i tuoi ragionamenti, sei troppo borghese, per niente in, sei un poveraccio e le mie amiche c’hanno tutte lo
scooter ecologico, il telefonino con le foto digitali e pure la borsa firmata delle Spais Gherl e io niente...e a dirti la verita’, puzzi pure! Ragazze la
sentite pure voi ‘sta puzza di merda? è lui, sto schifoso!”.
Marylin sbuffo’ con aria da superstar del cinema, mentre Soso’ Sciaffone indifferente, si allontanava di soppiatto.
“ Sissi’, ha ragione Marylin, papa’ si sente la tua puzza!
Papa’ come puzzi!”. Filomena e Maria, le gemelle, che erano proprio gemelle nel vero senso della parola, cioè pensavano proprio uguale, erano d’ accordo anche stavolta.
“ Possa allora tu, padre, essere maledetto! Adesso, stasera. La notte di Natale, per giunta! Maledetto! ” concluse placidamente la candida Bernadette.
Ovviamente, una serie di Valori, non erano stati invitati nella conversazione.
Eh, avrebbe detto una nonna, i valori di una volta!
La Signora Vera Padrone Dicasa non disse una parola, rimase quasi indifferente.
Continuava a mangiare quei frutti strani e sputava ancora i semini per terra.
Intanto, mancava davvero poco a quest’altro Natale e fuori in mezzo alla strada, a quell’ora di notte era proprio diventato Giorno.
Le trecento lampadine nel salone si spegnevano e si accendevano da sole e pure le lampade alogene verticali emanavano luce ad intermittenza, come in una
discoteca o al Luna Park.
Melinda si alzo’ di scatto dal cuscino di carne della Signora Traskpycsz e cominciò a ballare e cantare a ritmo di TUNZ-TUNZ-TUNZ, I WILL SURVIVE, I WILL SURVIVE, OOOOH... accompagnando la canzone con piccoli acuti e gridolini di voce, proprio come Gloria Gaynor, una cantante di due secoli prima.
Melinda cantava, si sentiva leggera leggera e girava come una trottola. Mentre girava, girava e girava ancora, girando cadde per terra. Naturale. Poi si
rialzo’, sputo’ in faccia alla signora Traskpycsz e corse subito a vestirsi. Si vesti’ da sposa, col vestito della mamma da giovane.


10. I martelli pneumatici intanto continuavano a morire, senza nessuna logica.
Continuavano a lanciarsi nel vuoto, dall’alto, allegri, contenti e divertiti, anche proprio un’attimo prima della Fine. Insomma, si suicidavano felici.
La maggiorparte neanche se ne rendevano conto ma alcuni di loro ne erano perfettamente coscienti.
Un’altro esempio della direzione in cui il Mondo stava procedendo... Ma si’, pensava qualcuno di loro, meglio prendersela allegra, chissa’ magari il Dopo
puo’ anche essere meglio...Che ne sai.
I martelli erano non più di duemila ormai e non ne sarebbero rimasti molti da li’ a due minuti.
Considerato l’Evento, anche la televisione non aveva tardato ad arrivare. Ah, se non ci fosse stata la TV!
C’erano tutti per l’occasione: Pippo Taudo, Maurizio Sostanzo, Maik Buonasera e addirittura c’era anche l’unico clone che era riuscito perfettamente identico a Elvi Spresley, noto imitatore di un famoso cantante rock del ventesimo secolo: gli stessi identici geni, l’aspetto, la voce calda e pure il ciuffo e i vestiti con le frange, insomma diciamo che se uno non era troppo pignolo poteva dire tranquillamente che era proprio lui.
Gli elicotteri di Tele SPAL(SpazioUnicoAncoraLibero), giravano in cerchi concentrici attorno al cono di luce che partendo dai piedi grassosi di Bambiniello Bubbasawa raggiungeva Takeshi Giuseppe. Gli elicotterini neri giravano velocemente e con interesse vorace come mosche intorno alla merda.

Takeshi Giuseppe si senti` onorato di cotanta attenzione: ohibo’, per dindirindina, oh poffarbacco! Bambiniello che andava da lui, il suo esercito allegro, l’alluvione e addirittura la televisione! Takeshi non l’aveva mai detto a nessuno, ma aveva sempre saputo che il suo ultimo giorno se ne sarebbe andato
in un modo particolare.
Non sapeva neanche perché ma un po’ se l’aspettava così.
Il suo ultimo giorno che ‘casualmente’ coincideva con l’ultimo giorno di tutto il resto. Beh, effettivamente, una cosa particolare, di una certa rilevanza.

Il Cielo era stato sventrato e ora stava li’immobile, completamente nudo e bagnato.
Con lui erano rimaste solo quattro stelle ai quattro angoli dell’orizzonte che facevano da puntine fermacarte per far rimanere il cielo disteso, come un foglio
di carta appunto, attaccato, aderente all’Infinito o al Niente, a seconda dei punti di vista.
Bambiniello ordino’ al Silenzio di gestire la situazione, adesso doveva parlare lui.
Lo show di Bambiniello Bubbasawa, quello vero, dopo queste piccole esibizioni d’intrattenimento, stava per cominciare.
Takeshi illuminato dalla luce di Bubbasava e aggrappato al suo canotto sgonfio ma perlomeno ancora galleggiante, finalmente si sarebbe tolto ‘sto pensiero.
Finalmente.
“ Tromba!”. Grido’ l’Imperatore.
Niente. Solo il Niente rispose.
“ Tromba!”. Ancora silenzio assoluto.
“ Trombaaa!” Adesso delle note accennate e sottili, in lontananza.
“ Trombaaaaa! Trombaaaaaaa! Trombaaaaaaaa!”.
Una giovane e timida Tromba dell’orchestra ufficiale sali’ sul palcoscenico. Era di una bellezza abbagliante, lucida, splendente e scintillante, come tutti i
giovani del resto, e provava un po’ d’imbarazzo. La sua prima volta.
E che prima volta che era, era anche l’ultima!
Non capitava così spesso.
Bambiniello prese in mano la Tromba e prima di suonarla per bene, le sussurro’ cercando di non farsi sentire dai presenti: “Tromba, fammi una bella
presentazione, hai capito? ‘Na cosa seria per favore! Te la ricordi la colonna sonora di Rocky, quello che dava i pugni, si rompeva la faccia ed era contento,
ti ricordi quando lui vince il campionato del mondo e grida: Adriana, Adriana!
Quella mi sembra buona no... Di’, la sai fare quella?”.

Bubbasawa cominciò a suonare. Come d’accordo, parti’ proprio da quella canzone.
Una cosa trionfale.
Cominciò prima piano, senza sforzi, poi man mano arrivo’ a prendere coraggio e a credere seriamente in quel che faceva.
Anche la Musica fu invitata personalmente e decise di partecipare.
Inizio’ cosi` un’assolo, le note più grandi e vissute si rincorrevano feconde e si baciavano, si accoppiavano, creando altre piccole, meravigliose note di
contorno. Come ad ogni parto, nascevano vite e note diverse, ognuna bellissima come ogni nuova Vita, ognuna stimolante per la Vita stessa e incredibilmente
unica.
Nascevano, partorite ed espulse nel cielo, note di jazz, di blues, di sonate tristi, note solitarie e anche note allegre o di semplice accompagnamento. Una
Musica straordinaria nella sua totale varieta’. Un’avvenimento epocale, storico, nel senso stretto del termine. Erano rimasti tutti attenti, estasiati quasi.

Tranne uno. Seppur gradito, lo spettacolo durava da troppo ormai e Takeshi s’era rotto ad aspettare. Anche perché la luce emanata da Bubbasawa dava fastidio, si era suonato un po’ di tutto tranne la sua musica preferita che era quella TRANCE da discoteca e poi nessuno della TV l’aveva intervistato e pure il canotto si era sgonfiato. Da capire, poveraccio pure lui.
Takeshi Giuseppe non voleva più aspettare.

“ OOOOOOOOH! Ma ci vuole ancora tempo? La finiamo o no co ‘sta pagliacciata?”
Takeshi aveva perso la calma, anzi per meglio dire, si era proprio fatto l’acido al cazzo, come lui usava dire quando era molto alterato...
Bambiniello, la Tromba e la Musica si fermarono di scatto.
Bambiniello sembro’ infastidito e lancio’ la Tromba lontano, ma così lontano che dopo cinque secondi era gia` sparita dall’orizzonte, inghiottita come un
granello di sabbia nella profondita’ del mare. Poi chiese gentilmente ai signori della televisione, ai Signori Taudo, Sostanzo e Buonasera di allontanarsi. Elvi
Spresley si era già squagliato da un po’ a causa della pioggia. Modello uscito male.
Bambiniello li invito` ad uscire dalla scena.
Una questione di privacy diceva. Cose personali.
Si senti`un mormorio contrariato, discorsi accennati, lamentele più che altro.
Cioè, i signori della TV volevano rimanere, insistevano. Per commentare e dare voce a questo incredibile episodio diceva Taudo, per la liberta’ di cronaca
asseriva Sostanzo, Buonasera voleva rimanere solo per poterlo raccontare ai posteri.
Bambiniello Bubbasawa non aveva intenzione di transigere.
Con molta gentilezza si rivolse ai signori che non volevano assolutamente lasciare o meglio, nessuno per primo, il luogo dell’Avvenimento. “Mi dispiace
signori, ma proprio non posso farvi rimanere...sapete no...mi farebbe piacere...
sapete no, quanto ci abbia sempre tenuto a ‘ste cose... la televisione, la popolarita’...
Mi dispiace ma proprio non posso...”.
Takeshi osservava la scena, poi propose: “ Dai, fagli fare almeno qualche intervista! Dai falli venire qua per dieci minuti...mi fanno qualche domanda e
vanno via...Si vede che ci tengono a sapere qualcosa di me...”
“ Zitto tu, Giuseppe Takeshi.” Bambiniello soffio’ in aria e gli ultimi tre testimoni non c’erano già più.
Andati via, tutti insieme.


11. La legna bruciante nel camino ora sprigionava schizzi di fuoco e scintille arancioni e rosse sfumate di blu e poi, incredibilmente ma neanche tanto poi, si
arrestava.

Cinque secondi.
Cinque secondi di fuoco vivo, scoppiettante ed intenso e poi niente.
Cinque secondi di fuoco vivo, scoppiettante ed intenso e poi niente.
Cinque secondi di fuoco vivo, scoppiettante ed intenso e poi niente.
Cinque secondi di fuoco vivo, scoppiettante ed intenso e poi niente.
Cinque secondi di fuoco vivo, scoppiettante ed intenso e poi niente. Spento.
Completamente spento.
Cinque secondi.

Giacarta decise di abbandonare il solitario che tanto non riusciva mai, butto’ le carte dal balcone e ando’ ad aiutare il gigante Soso’.
Dovevano sodomizzare Giasai.
Soso’ avrebbe pure evitato, ma il piccolo Giasai - che era già di spalle con i calzoncini abbassati, con una mano appoggiata al muro, in fondo al salone -
aveva cominciato a strillare: “ mettimelo dietro, mettimelo dietro!”. Meglio togliersi subito ‘sto pensiero che dover poi subire l’ira del piccolo Sciaffone.

Così la pensavano, più o meno, Giacarta e Soso’.
Ogni tanto, al piccolo, gli prendevano ‘ste cose strane.
Era risaputo tanto che nessuno ci faceva più caso, ormai.
Non interessava davvero più a nessuno, ormai.
Neppure alla mamma, Signora Sciaffone manager rampante, che continuava ancora a giocare con la bottiglia.
In quel momento alla signora non gli interessava nient’altro che quello, nient’altro che vincere.
Pero’ a dir la verita’, quando era con alcune delle sue amiche manager come lei (quelle che potevano giudicarla anche per altri motivi), la signora dava il
meglio di sé; nel senso che mostrava interesse esagerato per quel suo ultimo figlio tanto da far venire lo schifo per lei e per il figlio pure, e faceva
proprio come un’attrice di Hollywood, riusciva con la sua maestria addirittura a trovare qualche pregio in quella cosa che si manifestava sotto forma di bambino, cioè esagerava proprio e se ne vantava, davanti a loro lo chiamava teneramente: ‘ il mio piccolino, dolce e grandissima testa di cazzo.’
Era una dimostrazione di affetto, seppur originale e poco diplomatica. Ma lei si esprimeva così, senza fronzoli.
Questo era uno dei suoi pochi pregi.
Perché c’e’ da dire che la Signora Sciaffone, escludendo questo, la capacita’ di fare conti e recitare, non è che avesse l’occhio molto lungo.
Infatti Ringhio Traskpycsz ubriaco, in preda ad un’ isterica frenesia, si era chiaramente manifestato, aveva organizzato tutto lui e faceva tutto lui.
Lui faceva girare la bottiglia, lui la fermava, sempre lui decideva bacio o schiaffetto e ancora lui sceglieva sempre bacio per poter baciare appunto, il
suo migliore amico, il sig. Sciaffone.

La Signora Sciaffone non capiva niente, neanche quando il marito e Ringhio si slinguazzavano con la punta, vogliosi, come due attori porno, a bocche aperte.
Lei diceva solo: “ Dai, dai ragazzi, basta ora, dai continuiamo! Facciamo un’altro giro! Dai, dai ragazzi, un’altro, un’altro!” e rideva. Era ubriaca un po’ anche lei.
O forse faceva solo finta perché sperava alla fine di vincere, sulla distanza, alla lunga, come faceva sempre.


12. Adesso erano soli. Il seicentoventunesimo Imperatore Galattico Universale Bambiniello Bubbasawa e Takeshi Giuseppe.
L’Imperatore scese, calandosi lentamente dal cielo con una corda dorata, attaccata in alto, chissa’ dove. Dondolava da una parte all’altra con il suo
trippone ballerino che faceva sopra e sotto, sopra e sotto, sopra e sotto.
Piano piano, scendendo goffamente, arrivo’ sospeso fino all’altezza della faccia di Takeshi. Sembrava un grasso ragno attaccato alla sua fune di seta. Lo fisso’ negli occhi.
Gli sorrise: “ Allora mio caro, finalmente soli.”
La sua voce era profonda, calda e sensuale. Ammaliante.
Aveva qualcosa di ipnotizzante, magnetico.
“ Siamo così belli insieme adesso, tu ed io, da soli. Quasi come Giulietta e Romeo o Adamo ed Eva o Liz Taylor e Richard Burton. Capisci caro, siamo soli
adesso, io e tu, tu ed io mio caro Giuseppe di nome e Takeshi di cognome.
Sapessi quanto ti ho cercato!”.
Takeshi sembro’ meta’ sorpreso. “ Essi’, lo so che mi hai cercato...Ma scusa io, io mi chiamo Takeshi di nome, non di cognome. Piacere, io sono Takeshi
Giuseppe.”
“ Sissi`, e io sono Giovanna D’Arco, anzino` Cleopatra !” rispose ridendo Bambiniello.
“ Vabbe’ tu sarai pure Cleopatra, ma io sempre Takeshi di nome mi chiamo!”.
Bambiniello ebbe una pausa. Sembro’ improvvisamente smarrito.
“ Tu ti chiami Giuseppe di cognome? Non di nome? Ma sei sicuro?” L’Imperatore non voleva crederci.
Il suo disappunto stava prendendo il sopravvento.
Aveva vagato in lungo e in largo per l’Universo Intero, senza mai accusare la Fatica di mettergli il bastone tra le ruote, senza chiedere mai al Tempo di
aiutarlo nella ricerca.
Anche lui aveva fatto tutto da solo. Aveva sezionato tutte le galassie, controllato ogni pianeta, cercato per anni e anni interi. Gli serviva il cognome
Takeshi.
Le uniche informazioni che aveva trovato lo avevano portato a quel ragazzo.
Aveva girato perché aveva bisogno di quel cognome, Takeshi, come titolo finale per la Totale Consacrazione Reale Galattica Universale. Gli serviva solo quel
cognome, per poter figurare ad ogni ricevimento, per poter rispondere presente!
ad ogni invito, anche a quelli degli Ambasciatori dell’OGU, l’ Organizzazione delle Galassie Unite, senza vergogna di sorta. Era bello andarsene in giro con
gli Ambasciatori, facevano solo feste e viaggi intorno all’Universo.
A scrocco, a spese delle popolazioni delle Galassie più lontane.
Non avevano molto Potere e ne erano ben contenti, così che nessuno si prendeva la briga di rompere i coglioni. Facevano una sana e servizievole opera di
rappresentanza. Bambiniello voleva andare con loro, desiderava quel cognome, ci teneva molto alle apparenze.

Takeshi Giuseppe confermo’: “ Essi’ che sono sicuro! Mi chiamo così da quando sono nato..., ventotto anni fa...Takeshi Giuseppe...
mi chiamo Takeshi e ho ventotto anni. Che nome è Takeshi?
Takeshi. Da ventotto anni mi chiamo Takeshi. Lo stesso nome di mio nonno, lo stesso di quattro miei cugini, lo stesso che hanno Takesho, Takito, Takisho e
Takeshito anche se loro preferiscono il diminuitivo. Takeshi. Lo stesso nome che daro’ a mio figlio.
Un nome buono per tutti. Quante persone nel mondo si chiamano Takeshi? E poi perché mi chiamo, anzi perché mi chiamano tutti con un nome che hanno tutti?
Perché non mi chiamo Bruno, Stuart, Santuzzo o magari proprio mi faccio chiamare per cognome, Giuseppe? Si, Giuseppe è un bel nome. O meglio Hiroshi?...” Rimase senza risposta.

Poi disse: “... probabilmente c’e’ stato un grosso errore.”
Takeshi prese fiducia. Adesso si sentiva pronto anche a difendere le sue ragioni, sempre se c’e` ne fosse stato il bisogno, sempre se c’e` ne fosse stata
qualcuna...

Bambiniello Bubbasawa rimase senza nessuna parola da dire.
Per la testa non ne passava neanche una, nemmeno così, giusto per farsi vedere.
Non arrivavano, chissa’ dov’erano andate a nascondersi.
Silenzio.
Poi di botto, Bambiniello inizio’ a strillare, adesso di nuovo con una vocina
sottile, infantile e capricciosa:
“ Ma sei proprio sicuro?”
“ Si.”
“ Takeshi di nome e non di cognome... anche all’anagrafe...”
“ Si.”
“ Solo Takeshi..”
“ Si.”
“ Sei proprio sicuro allora, eh...” Bambiniello era triste, cominciò a singhiozzare.
“Takeshi Giuseppe.” Disse.
“ Si.”
“ Nient’altro.” Sottolineo’ tristemente Bambiniello.
“ No.”

La mezzanotte segno’ con una puntualita’ svizzera l’arrivo del Natale. La Notte, genitore del Sonno e della Morte, ogni tanto si prendeva di questi piccoli
piaceri. Essere puntuali e aspettare e vedere qualcuno che arriva per te è un Piacere.
L’orologio digitale nucleare di Takeshi inizio’ a suonare impazzito di gioia ‘War is Over’. La classica canzone che si sente solo a Natale. Faceva più o meno
cosi`: “ And so this is Christmas...and happy New Year...”. Una cosa molto intensa e spirituale.
Era una vecchia canzone di uno, un certo Lennon, Lane, Lenin o qualcosa del genere che era stato ucciso da un pazzo o da una specie strana di ammiratore.
Per motivi familiari, di soldi o per gelosia, non ricordava bene. Comunque la canzone di ‘sto tipo era bella ed era stata memorizzata nell’orologio da più di
un mese, solo per l’occasione.
A Takeshi piaceva soprattutto per il canto dei bambini, per quel coro che sembrava veramente che volesse far finire la guerra del mondo, davvero.

“ Dai Bambiniello non fare così adesso...dai...vedrai che alla fine troverai quel che vuoi...dai non abbatterti....continua a crederci!” Takeshi si sentiva
incredibilmente buono, cercava addirittura di consolare quello che poteva essere il suo carnefice.

Takeshi si senti fortunato. La prima volta che incontrava personalmente la Fortuna, la prima volta che poteva riconoscerla chiaramente. Era la prima volta
per lui e non sapeva bene come comportarsi. Se avesse avuto quell’altro cognome, sarebbe stato ucciso. Bambiniello l’avrebbe ammazzato pur di avere il diritto di poter portare il suo cognome, per usarlo, per averlo insomma, o così o niente, era una cosa quella, che non si poteva comprare. Mica come il cognome Baliante che se riuscivi a risparmiare dieci iriccoctoidi, in una vita intera, lo potevi pure chiedere all’impiegato dell’anagrafe!
Il cognome Takeshi non si comprava, o lo si aveva o lo si conquistava, con più o meno sforzo.
Bambiniello l’aveva gridato dovunque quel cognome.

L’Imperatore guardo’ Takeshi che galleggiava ancora sul canotto.
“ Beh... a questo punto...scusa allora, eh...mi dispiace averti spaventato.
Davvero ti chiedo scusa per averti fatto perdere tutto ‘sto tempo....mi dispiace, davvero.” Bambiniello sembrava sincero.
Takeshi gli sorrise: “ Ma no, dai non ti preoccupare, puo’ succedere, magari la colpa è anche mia che non l’ho detto prima, si` dai potevo pensarci prima...”
I due si scusavano a vicenda, senza la pretesa di dover aver ragione per forza, sembravano un po’ come due amici di lunga data, come due che si conoscevano da sempre e che ormai non avevano più bisogno di discutere per ogni sciocchezza.

“ Vabbe’, allora io vado” disse Bambiniello.
“ Si’, ciao allora e non ti preoccupare troppo!”
“ Si, si, lo faro’, grazie. Comunque, meno male che ti chiami Takeshi e non Giuseppe...meno male!
“ Eh, già- rispose Takeshi-meno male!”.
Poi prima di andare, l’Imperatore si fermo’ un’ ultima volta:
“Ah, Take’, a proposito! Questo, prendilo come il mio regalo per Natale! Tanti auguri!”

Il grido di Bambiniello scoppio` di nuovo dovunque era possibile. Così come prima.
Ancora nel cielo e nella terra, nell’aria e nell’acqua, nelle vibrazioni dei diapason, nelle scosse di elettricita’, nel sistema nervoso di tutti i computer centrali e di nuovo tutti si resero conto che questa volta Bambiniello era ancora più incazzato di prima.
Il cielo chiuse la sua ferita e si rischiaro’ all’improvviso.
Bambiniello sali’ in groppa al suo elefante nano (che era veramente nano, molto, ma molto più piccolo di lui) cominciando a gridare: “ Giuseppe! Giuseppe!
Giuseeeeeppe!”.

Aveva pensato di cambiare tecnica stavolta. Ora gridava il nome, magari sarebbe arrivato al cognome Takeshi per esclusione.
O almeno ci sperava, mica aveva tanta scelta ancora...

Una banda intera di carillon di tutte le eta’ suonarono impazziti a festa, dai vecchi juke-box a scelta multipla combinata venivano fuori canzoni di Mino
Reitano che duettava con Maria Callas e i suoi cugini di campagna.
Poi nel cielo apparvero migliaia di campane di tutte le forme e misure, coprirono questi suoni con le loro melodie personali.
Ogni campana, campanilisticamente suonava le canzoni della propria parrocchia.
Takeshi penso’per un'attimo di far ricorso al Tribunale Massimo per denunciare questo inquinamento acustico ambientale che andava avanti ormai da troppo tempo.
Grida, urla, frizzi e lazzi.
Eh no! Non se ne poteva proprio più!
Pero’poi, mentre pensava a tutte le carte, le file e la burocrazia varia da affrontare, cambio’ idea, troppi fastidi. La burocrazia è come un freno a mano
per tutte le buone intenzioni.
Spero’ che dopo tutto ‘sto casino, almeno si fermasse la pioggia, chissa’ magari avrebbero anche ripreso le trasmissioni televisive, seppur senza nessun servizio sull’Avvenimento, seppur senza nessuna intervista a lui.

Bambiniello era schizzato via, dissolto, sparito, perso come una particella di polvere nell’aria. Ma la sua collera errante, pronta e disperata per quella
ricerca, rimase per lungo tempo mischiata a quella stessa aria, presente con quella voce in lontananza:
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”


13. “ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
In casa Padrone Dicasa arrivo’ quella voce in lontananza....
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

La voce in lontananza si era amalgamata in maniera perfetta, un po’ come il cacio sui maccheroni, con l’atmosfera natalizia.
Si sentiva presente il profumo intenso dell’aria fredda di dicembre. Essi`, era proprio Natale.
Le luci ad intermittenza, tante, in casa, sull’albero, nelle piazze e nei negozi, il colore rosso, rosso, rosso, dovunque, lo stesso rosso del cappello di
Santa Klaus per intenderci e la neve rilassante, cosi ricaricante da ripulirti tutto dentro e fuori; un Natale di regali che non sono mai quelli che vuoi
veramente, con i cori felici di Natale nelle chiese piene a Natale solo per l’occasione speciale, le pellicce delle donne davanti alle vetrine con i saldi
di Natale, i poveri che mangiano da ricchi solo a Natale; i dolci, i dolci quelli che si fanno solo e soltanto a Natale. E poi era proprio Natale perché si
ritrovavano nelle case gli amici che non si vedevano dalle ultime feste passate...

Mancava dunque un minuto alla mezzanotte e la Confusione si era incredibilmente allontanata. Via, senza dare spiegazioni.

“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

In casa Padrone Dicasa insieme a quella voce in lontananza arrivarono un gruppo di piccoli bimbi buoni e belli con le alette sulle spalle, gli occhietti azzurri
e i riccioli biondi....
Cantavano. Mentre svolazzavano sulle teste dei presenti, cantavano con voce angelica:

“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

Girarono a vuoto, in alto sotto il soffitto per qualche giro, ma nessuno li noto’, cioè per meglio dire, nessuno presto’ attenzione più di tanto.
Allora uno degli bambinetti cominciò ad accompagnare il canto degli altri con la sua Lira di oro zecchino. A suonare e cantare erano bravi i bambini ma nessuno se ne accorse.
Solo perché Fifi Padrone Dicasa sembrava concentrato e doveva ancora esprimersi, poi inoltre c’era la Fame, i piatti erano freddi ormai e in uno scenario quasi da campo di pellerossa, tutti i presenti si erano seduti intorno a lui aspettando una sua qualsiasi parola.
Intanto sotto al soffitto basso, come aquile reali chiuse in gabbiette da canarini, i dodici BBBB (BambinettiBuoniBelliBiondi) continuavano a scontrarsi
tra loro, a bestemmiare quel Qualcuno che li aveva mandati a fare ‘sta pagliacciata proprio la notte di Natale, imprecavano perdendo piume bianche che
si mischiavano alle alette di pollo fredde sul tavolo, servite nei piatti da portata con insalatina e crema tartara.

Fifi’ Padrone Dicasa pensava a qualcosa di consono, qualcosa di buono, qualcosa che andasse bene per il discorso prima del cenone di Natale, qualcosa di formale ma non troppo impegnativo, qualcosa di stupido, qualcosa d’interessante almeno, qualcosa, qualsiasi cosa ma scegliere mica era cosi semplice.
Aveva già pensato di tutto: “... non soffro di malattie rare e mortali, non voglio pensare ai cattivi risultati scolastici che avevo da bambino, ho perso la
verginità ad una eta’ decente, ho sempre avuto un po’ paura di venire rapito e ucciso mediante elettroshock, eh si l’elettroshock deve essere proprio
brutto...”

“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

Silenzio assoluto. Calma piatta. Rumore assente.
Solo quel nome. Sempre e solo quel nome. Come un lamento, un dolore lontano.
Silenzio.
La quiete dopo la tempesta, un pastore e le sue pecorelle, un uomo e i suoi discepoli ammansiti.
Un’uomo, i suoi pensieri e qualche parola da pronunciare. Un’uomo, una Voce, un nome.
Giuseppe, Giuseppe,Giuseppe.....
Una atmosfera strana, paradossale, insomma proprio un Natale Surreale.

Fifi’ dopo un’analisi profonda, ad esclusione, seleziono’ gli argomenti che gli sembrarono più interessanti, adatti alla riflessione, alla conversazione e
magari anche a stimolare alla speranza in un futuro migliore. Doveva essere il discorso di Natale.
Penso’ a quella povera piccola bambina di 6 anni che era nata con un capezzolo in fronte e che riusci` a procurarsi abbastanza denaro e ad operarsi prima che i genitori la vendessero al Circo Orfei. Poi si ricordo’ di quella sera, di quella donna stuprata da un suo amico, quel montone impazzito, arrestato prima,
rilasciato per insufficienza di prove e poi, come da procedura, gettato fuori da un edificio altissimo per cadere in una collina di escrementi animali. Si
ricordo’ che gli aveva fatto una promessa allora e doveva mantenerla.

Dopo una serie di lampi di colore blu, un fascio di luce entro’ nel salone di casa Padrone Dicasa.
La luce divento’ un canale di trasporto, un corridoio in cui i bambini si tuffarono, spelacchiati, senza piume sulle spalle, senza voce e incazzati neri.
“Ma vaffanculo va, sti quattro stronzi! Capiscono un cazzo! Ne di musica, ne di bellezza, ne di niente!Stronzi! ”
L’ultimo bambino rimasto, che di nome faceva Angelo, se ne usci` imprecando, inspiro’ profondamente, raccolse tutto il catarro che aveva in corpo e poi
sputo’ sul davanzale del finestrone con le luci di Natale.
Sputo’, poi concluse: “ Mai più, quanto è vero Iddio, mai più ‘ste stronzate!
Vaffanculo va!”
Tutti i presenti lo guardarono con fastidio.
Un filo di vento chiuse la finestra.

Ora era arrivato veramente il momento giusto. Mancavano venti secondi alla mezzanotte. Venti secondi al Natale. L’atmosfera era quella giusta.
Fifi era pronto. Sapeva che adesso sarebbe potuto partire.
Con un po’ di ritardo, ma vabbe’ questo è solo un particolare.
Gli venne in mente il suo medico prof. Erode Scannacane e dei suoi tre figli.
Uno cominciò a drogarsi di rosmarino e basilico puro in endovena, il secondo entrò nel Partito Scorza Dura Idealista e Umanista per la Liberta’ e la
Giustizia, il terzo ( che voleva diventare prete, ma non ne era sicurissimo) si iscrisse a Ingegneria Comparata Applicata allo Studio Analitico dei Materiali
Fecali Animali. Studiava la merda insomma.
Soso’ era stato a lungo suo paziente, lui e tutta la famiglia Traskpycsz. Per anni interi, cure, studi, medicine e tentativi, prima di sfruttare l’occasione
che gli dava la TV, quella che li aveva fatti diventare ricchi e popolari.
Fifi’ infine saluto’ con il pensiero il suo vicino di casa, Turiddu Von Wasselvitz, un allenatore di farfalle da combattimento austro-siculo, che se ne
era andato in Paradiso, investito in motorino da un camionista inglese ubriaco che, ovviamente, guidava contromano.
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

Dieci secondi al Natale, mancavano ormai solo dieci secondi a Natale. Tutta la comunita’ presente in casa Padrone Dicasa attendeva impaziente, dieci secondi, discorso o no, tra dieci secondi, avrebbero mangiato.
Fanculo il discorso, fanculo la tradizione e soprattutto fanculo Fifi!
Dieci...nove..otto...sette...

Cominciarono a contare al contrario, ad alta voce.
Tutti contavano e Fifi si deconcentro’. Quella conta lo aveva innervosito.
Cominciò a perdere quella calma che lo aveva accompagnato fino ad allora. Prese ad agitarsi. Avrebbe gridato aiuto! se ci fosse stato qualcuno disponibile ad ascoltarlo, avrebbe implorato basta, pieta’! se ci fosse stato qualcuno li in mezzo, capace di regalarla gratis.

“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”

Ormai quel nome e quella Voce facevano anch’essi parte della riunione, ospiti indesiderati a casa Padrone Dicasa, un po’ come le famiglie Sciaffone e
Traskpycsz; ospiti non invitati come Giacarta che almeno non aveva dato fastidio per niente, mai, durante tutto il corso della serata.

“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
Sei...cinque...quattro... gridavano tutti in coro, tre...due...

Uno...zero...eehehehehehe! Auguri! Auguri! Auguri!
Mentre tutti gli altri con la scusa del Natale si abbracciavano, si baciavano e si toccavano ( soprattutto il Sig. Sciaffone e il Sig. Ringhio Traskpycsz), Fifi
scoppio’ improvvisamente. Cominciò a parlare finalmente. Quando proprio non era più il momento.
A Natale, puntuale e preciso, proprio in quel momento.
Fifi` allora parlo’.
Elimino’ dalla lista dei suoi pensieri tutto, tutto, tutto.
Non gli rimase più niente in testa, niente d’interessante da proporre almeno.
Poi, raccogliendo chissadove un briciolo di amor proprio, grido’:
“ Allora, adesso basta! Si puo’ sapere chi cazzo è ‘sto Giuseppe?”
Disse solo questo. Dopo una preparazione di dieci, lunghi, interminabili minuti, disse soltanto questo.
Ci fu un ‘attimo, brevissimo, di smarrimento nel salone.
I presenti si guardavano tra loro in un misto di incredulita’, sorpresa, imbarazzo. Si, anche imbarazzo. Non si aspettavano ormai, più nessuna parola, figurarsi adesso a dover anche rispondere ad una domanda. Anche perché, in tutta sincerita’, nessuno aveva la minima idea di chi potesse essere ‘sto cazzo di Giuseppe. Poi di nuovo un brusio, un nuovo vociare, ma questa volta discreto e si poteva dire anche abbastanza interessato all’argomento. “ Chi è Giuseppe? è un’amico tuo?”
“ No, mai sentito nominare...”
“ Ehi, ma l’hai invitato tu ‘sto Giuseppe che ancora non si vede?”
“ Chi è Giuseppe? Un parente di qualcuno, un’ intrattenitore?”
“ Una sorpresa, un venditore ambulante di panettoni?”
“ Un’assaggiatore di bignè alla crema” disse uno.
“ Usa droghe varie e vende alberi di Natale riciclabili?”
“ Il nome nuovo di Babbo Natale o soltanto il nome di un grandissimo rompicoglioni?”
Nessuno rispose, nessuna convinzione, nessuna risposta certa.
“Niente, allora.” Constato’ Fifi. Si zitti’.
Aspetto’ qualche secondo prima di ricominciare.
Voleva sembrare intelligente, riflessivo, impegnato, insomma saggio. E incredibilmente, in un certo modo, ci riusci’.
Infatti, in quel momento il piccolo Giasai Sciaffone ebbe come na specie di illuminazione alla Rimbaud. Penso’che proprio Fifi potesse essere davvero la
persona giusta a cui poter spiegare quella sua nuova teoria sulla filosofia cibernetica. Giasai lo vide come un potenziale allievo. Si era stancato di quel
grassone, puzzolente e stupido di Soso’.
Il sig. William Calogero Junior Padrone Dicasa, per gli amici Fifi’, poteva andare bene. Giasai attendeva solo la fine del discorso.
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
“ Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeeppe!”
Ancora sta voce, sto nome, sto lamento.
Fifi si guardo’ intorno.
“Allora no? Nessuno lo conosce? Proprio nessuno, siamo sicuri?”
Guardo’ di traverso sua moglie, la Signora Vera Padrone Dicasa che aveva sto vizio di invitare uomini a casa quando lui non c’era.
“ Nessuno? E allora chi cazzo è Giuseppe?
E poi, scusate, cazzo di nome è Giuseppe?”
Nessuno rispose a casa Padrone Dicasa, tutti cominciarono a mangiare.


14. “Giuseppe, Giuseppe, Giuseppe, sveglia! Svegliati!...
Giuseppe dai ti prego...dai non morire ti prego! Oh madonna mia! Come devo fare!
Aiuto! Giuseppe, Giuseppe, dai Giuseeeeepppe! Sveglia! Giuseppe!”
Giuseppe si era addormentato davanti alla televisione, sulla poltrona e la videocassetta ormai era già a meta’ del film.
Giuseppe l’aveva affittata per vederla quella sera, da solo, la notte di Natale.
Da solo, aveva pensato, una sana droga e un bel film da guardare. “ Ti preeeego!
Ti preeego!Giuseeeeppe!”
Giuseppe non capi’ una sola parola, guardo’ prima l’ometto al suo fianco con il panzone, poi rapidamente la televisione.
Il film era arrivato al punto in cui dei bambini, dopo una serie di avventure, erano riusciti a conquistare un cognome per un loro amico. Si proprio un
cognome.
Una storia particolare. Un film strano, ambientato in un futuro prossimom magari anche possibile. Giuseppe lo voleva rivedere per la quarta volta, così come con Ben Hur, Moana e i sette nani, Metropolis, La Carica dei Centouno. Quello era il progetto. Era.
Poi si era addormentato senza capirlo neanche.
Ora veniva schiaffeggiato e strattonato da ‘sto stronzone che nel frattempo, tra una crisi di pianto e d’isterismo, si era pure mangiato tutti i bignè alla crema
Chantilly.
Giuseppe apri’ gli occhi lentamente, schiudendoli piano piano come quelli di un neonato appena sveglio dopo la prima notte di sonno della sua vita, si senti`
frastornato, piacevolmente confuso, come di ritorno da un gradevole viaggio o magari da un sogno.

“Giuseppe! Giuseppe! Giuseeeeppe, mio dio! Ti sei ripreso finalmente! Grazie a dio! Questo è un miracolo! è mezzanotte!
E’ Natale e tu ti sei svegliato! Auguri! Auguri Giuseppe!
Capisci è Natale! è un miracolo! Sei sveglio, è Natale! è Natale! Giuseeeeeppe!”
Con le gambe stese e la bocca in subbuglio, secca, impastata, arida, Giuseppe
trovo’ la forza per bere una goccia di acqua.
Guardo’ il suo ospite e chiudendo gli occhi accenno’ un sorriso complice.
Farfuglio’ qualcosa, che doveva sembrare una specie di cosa abbastanza bella.
Si, disse qualcosa del genere, disse qualcosa come:
“ Auguri e buon Natale!” e poi, placidamente, si addormento’.


FINE. 


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