medicina - medicine

 
Maschile, femminile
educazione oggi
PEDAGOGIA PROFESSIONALE ODIERNA
E PROBLEMI DI GENERE
Fondamenti,
ed elementi applicativi e pratici,
per uno studio di casi
di Franco Blezza
 
Copyright Franco Blezza
Treviso-Trieste-Pordenone
 
 
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Ab imis labris
Who, What, Where, When,...
Now, let's ask HoW, and Why!
 
"C'è un momento per tutto, e il momento del cambiamento arriva solo quando non è proprio più possibile evitarlo!"
(Duca di Cambridge, 1890)
 
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INTRODUZIONE - PREMESSA - PRESENTAZIONE
 

"se l'uomo è immerso nel tempo e nella storia, se modella e crea la sua persona mentre modifica se stesso nel tempo e nel corso del tempo, dovrebbe risultare evidente che non possiamo più parlare di <<natura umana>> e di un'<<essenza dell'uomo>>. L'uomo non è più un essere dotato di ragione, lo diventa. Non è più sociale, lo diventa. Non è più religioso, lo diventa. E che dire della natura umana. Possiamo ancora parlarne?"
(Erich Fromm, 1968)
 
 

Questo lavoro nasce con un Target immediato ben determinato e limitato, ma con un Target successivo molto più ampio. Ed è stato svolto tenendo sempre presenti, con uguale attenzione, i due ordini di destinatari.
Si tratta di una dispensa, testo fondamentale per i corsi di Educazione degli Adulti che sono chiamato a tenere nella sede centrale dell'Università di Trieste e in quella staccata di Pordenone, obbligatori per pressoché tutti gli studenti del II biennio del Corso di Laurea in Scienze dell'Educazione, erede non primariamente scolastico del glorioso ed ormai esaurito Corso di Laurea in Pedagogia.
Il lavoro da svolgersi nel corso suggerirà quegli aggiustamenti, in parte non piccola già ora intuibili, per aprirne la fruibilità a destinatari più ampi e differenziati: non solo a studenti di corsi analoghi in altre sedi, o per studenti di altri corsi (pensiamo al Diploma Universitario in Servizio Sociale, o ai corsi di sessuologia e di problemi della coppia) per i quali non si possa contare su una base propedeutica analoga; ma anche per i Pedagogisti professionali impegnati a vario titolo e in diverse sedi nei problemi fondamentali di loro competenza, tra i quali spiccano proprio quelli della coppia, della famiglia, della Partnership, dell'esercizio della sessualità, dei figli, del lavoro, delle relazioni esterne e quant'altro di connesso.

La parte I sarà dedicata essenzialmente ad una revisione mirata e ad un completamento del retroterra culturale e teorico necessario allo scopo. Gli studenti del secondo biennio di Scienze dell'Educazione della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Trieste, che frequentano il Corso di Educazione degli Adulti nella Sede Centrale e nella sede Staccata di Pordenone, hanno già avuto modo di provvedersi degli strumenti concettuali e operativi, generali e specifici, a ciò necessari 1.
Questa parte dottrinale più specifica è già stata avviata in altri lavori precedenti 2.

Nella parte II, invece, prenderemo in esame una dettagliata e ricca casistica (più che non singoli casi), sulla quale effettuare le nostre riflessioni e considerazioni di carattere specificamente pedagogico, ed indicare vie di azione concrete, e fondate nell'esperienza, per l'esercizio della professionalità pedagogica in questi casi ed in casi analoghi di quella che, con termine tecnico, si chiama "relazione d'aiuto". La scelta alternerà volutamente casistiche ad ampio spettro, per massimizzarne l'applicabilità delle indicazioni, a casistiche meglio individuate per accentuare l'approfondimento dell'agire pedagogico professionale e libero-professionale in situazioni siffatte.
Tale parte II sarà considerevolmente più ampia della prima, e questo probabilmente va, innanzitutto, incontro alle attese immediate sia degli studenti, sia dei pedagogisti ed aspiranti tali. Ciò non toglie che essa costituirà un terreno fertile per coltivare le dottrine e le teorie pedagogiche che vi fanno da inquadramento necessario, in modo che l'elaborazione generale non sia astratta e velleitaria, o verbosa e irrealistica, come spesso accade, ma al contrario trovi nel confronto con l'esperienza futura quelle retroazioni che le consentano di vivere ed evolversi. Per gli stessi motivi, la Parte I è necessaria per la pratica: una buona teoria, chiaramente e saldamente posseduta, costituisce un ottimo strumento pratico, come è noto.
Avremo ben modo di vedere quanti apporti alla pratica provengano da uno studio teorico e dottrinale, e quanta e quale dottrina si sviluppi nel contesto della casistica operativa. Da pedagogisti, poi, l'operare in una tensione continua ed irrisolta tra teoria e prassi, e lo svolgere una sistematica opera di mediazione tra l'una e l'altra (che potremmo chiamare "applicatività") dovrebbe esserci familiare, o tale diventarci presto.
La parte del corso che si incentra su questa dispensa non è propriamente una "parte speciale" o "monografica" distinguibile da un'altra parte, la "parte generale". Anche se potremmo condividere che in molti circostanze i programmi dei corsi vadano scanditi così, questa non è la parte speciale più di quanto non sia la prosecuzione della parte generale sotto altra forma: non la forma delle teorie, ma quella "per temi e problemi".
E si ricordi sempre che l'"apertura" da parte dell'interlocutore (del lettore, in questo caso) rimane condizione necessaria perché l'intervento (il libro) possa avere una qualche efficacia,

I "casi", per noi (metodologicamente parlando), sono situazioni problematiche: di situazioni simili sta in noi fare problema, operando la transizione dall'emotivo al razionale e dalle cose all'uomo 3, tramite la "relazione d'aiuto" di un pedagogista nel suo specifico agire. Tale relazione d'aiuto riguarda sia la posizione del problema (cioè la transizione dalla situazione problematica al problema, la razionalizzazione della prima nel secondo, la reazione costruttiva, positiva alla prima nella posizione del secondo) sia il lavoro per un tentativo di positiva soluzione; e si capisce bene (si capirà forse ancor meglio) come e quanto la distinzione sia evanescente, se non sul piano teorico e della ricostruzione a tavolino: già porre un problema che è diverso, si è detto, dal vivere una situazione problematica) è in parte averlo risolto; e lavorare per risolvere un problema è anche porlo (e ri-porlo),
Non si tratterà necessariamente di situazioni problematiche immediatamente pertinenti alle tematiche familiari o partenartiali in senso stretto; anche casi di diversa origine possono concorrere sia a capire quale possa essere il ruolo del pedagogista professionale e libero-professionale nella relazione d'aiuto alla famiglia e, più in generale, quale Pedagogia si applichi agli adulti.
Premetteremo un riepilogo sintetico di quelle che ci sembrano, ora come ora, le indicazioni più importanti da seguirsi per un pedagogista professionale nell'interlocuzione pedagogica intesa come relazione d'aiuto.

Una considerazione a parte è richiesta, sempre in via preliminare, dal concetto di "bidirezionalità", o reciprocità, in educazione. L'educazione o è bi-direzionale (od anche pluri-direzionale) o non è: può semmai essere condizionamento, asservimento, comunque qualche cosa di non umanamente promozionale. E' da notarsi che questo era perfettamente evidente nella cultura e nella civiltà classica: "Homines dum docent discunt" 4 è un concetto ripreso più e più volte in vari periodi successivi dopo la prima affermazione del filosofo Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C), uno dei pochi filosofi latini classici (romani) di un qualche rilievo. Chiunque educa, per il fatto di educare, viene contestualmente anche educato. Non si è genitori o pedagogisti, formatori o conduttori di comunità (né buoni né cattivi) se non si è anche e per ciò stesso educandi, e non si accetta di essere educati contestualmente all'educare e per educare. Almeno, per come l'educazione va intesa oggi. Oggi potremmo tranquillamente passare al reciproco la sentenza ed affermare che gli uomini quando imparano insegnano, come caso particolare notevole dell'educazione pluri-direzionale; e potremmo riflettere sull'essenza violenta quanto irrealistica di una docenza che, nell'evo borghese, ha preteso di essere unidirezionale, e per giunta indirizzata lungo una (ed una sola) direzione.
Tanto, che un modo che ho impiegato spesso (e che non impiegherò più) per appurare se uno studente avesse capito questo concetto essenziale era chiedergli se avesse mai educato suo padre, sua madre, suoi nonni, i maestri e i professori, gli allenatori o i dirigenti di sodalizi, e via elencando; se cercavano situazioni assolutamente marginali ed eccezionali allora non avevano capito la sostanza: essi hanno iniziato ad educarli, non appena e per il fatto stesso che hanno cominciato ad esserne educati.

Sono veramente molti quelli ho il dovere di ringraziare, un dovere gradito sempre: proverei con Giuseppe Serio, che non mi ha mai fatto mancare né la sua amicizia né la sua amichevole spinta né l'appoggio pratico per procedere nei campi più fortemente innovativi delle mie ricerche; con i pedagogisti professionali Giuseppe Rulli, Presidente Nazionale dell'A.N.Pe., Michela Ungredda, presidente regionale dell'A.N.Pe. Toscana, Irene Savarino, pedagogista-logopedista nissena; alcuni (parecchi) non posso menzionarli esplicitamente, e non solo perché coinvolti per un verso o per l'altro nella casistica, ma riconosceranno certamente in queste righe (anche nella Parte I) sia quanto li riguarda, sia un altrettanto ben leggibile ringraziamento. Ometto i ringraziamenti ai pedagogisti accademici, che sarebbero anch'essi parecchi, per evitare speculazioni indegne di loro.

Ma un ringraziamento assolutamente analogo, razionalmente, andrebbe indirizzato anche a chi legge. Per le ragioni di reciprocità dell'educazione alle quali abbiamo accennato, e nelle quali crediamo profondamente come costituenti essenziali della dottrina complessiva che fonda tutto il discorso.
Come intendere questa reciprocità, e quindi la gratitudine corrispondente? Pragmatisticamente e Neo-pragmatisticamente. ci dobbiamo rimettere al vaglio dell'esperienza futura. Dunque: vedrete, vedrete...

                                                        Trieste - Pordenone - Treviso - Pola, estate 1997
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Note
1      Educazione 2000 - Idee e riflessioni pedagogiche per il secolo entrante (L. Pellegrini ed., Cosenza 1993) e Un'introduzione allo studio dell'educazione (Ed. Osanna Venosa, Venosa-PZ 1996), in modo particolare, ai quali si faranno molti rimandi espliciti, e ciascuno effettuerà di propria iniziativa tutti gli altri rimandi necessari.
Si vedano anche Educazione e scienza - Idee e proposte dalla scuola di base alle superiori (SEI, Torino 1989); Scienza e pedagogia - Scritti sull'educazione e la scuola 1988/1993 (Arcobaleno, Monza-Mi 1993), Didattica scientifica - Studio pedagogico sull'insegnamento delle scienze (Del Bianco, Udine 1994); spesso tematiche scolastiche sono la base per riflessioni pedagogiche di valenza più generale, come in molti altri casi e come vedremo più avanti.

2      Ci si riferisce, in modo particolare, allo scritto "Per una pedagogia dei problemi di genere - La coppia e la famiglia come sedi di un nuovo esercizio della nonviolenza"; intervento programmato all'XI Convegno Internazionale di Studio di Praja a Mare - CS (15-16-17 settembre 1996) sul tema "La nonviolenza: una proposta educativa per il terzo millennio" (in corso di stampa sugli Atti); la trattazione di alcuni argomenti di questa Parte I è stata avviata in quella sede. Quel contributo, anche per un inquadramento teorico più compiuto, è da leggersi in continuità con quelli recati ai Convegni precedenti, i cui Atti sono stati pubblicati per i tipi di Pellegrini di Cosenza: Dove va la scienza? (1990, pag. 107-128); Educazione alla salute tra prevenzione e orientamento (1992, pag. 51-78); Educazione al lavoro nell'Europa degli anni '90 (1992, pag. 21-26); Popoli Culture Stati (1994, pag. 95-146); L'uomo nomade (1996, pag. 135-161). Cfr. anche "Una via di ricerca in pedagogia generale" in La pedagogia italiana contemporanea III volume (a cura di Michele Borrelli; Pellegrini, Cosenza 1996, pag. 9-30); ed inoltre la rubrica "Ricerca ed innovazione educativa e didattica" della rivista "Qualeducazione" diretta dal n. 29 (ottobre-dicembre 1990), sia come articoli che come presentazioni, con significativi precedenti (in preparazione attualmente il n. 49).
 

3      Educazione e scienza, pag. 174-210; Educazione 2000, pag. 379-390; Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 148-155.
 

4      "Gli uomini, mentre insegnano, imparano", Epistulae ad Lucilium (7,8).
 

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PARTE I
 
FONDAMENTI
 
 
"Una vera rivalutazione può realizzarsi eliminando la repressione, che incanala l'intera vita libidinale verso il lavoro o la riproduzione"
(Françoise Collin, 1992, a proposito di Wilhelm Reich ed Herbert Marcuse)
"Non subire passivamente e passionalmente la tua vita, ma rendila oggetto di un costante progetto di costruzione e ricostruzione, rifiuta di adattarti, rassegnatamente o furbescamente, ai condizionamenti che cercano, con seduzioni e/o minacce, di imprigionarti da ogni parte. Hai in te stesso e nel mondo in cui vivi riserve culturali ed eticosociali su cui puoi contare (...). Utilizzale in direzione di una ragione progettuale e costruttiva, demonica raffinata nella sensibilità e audace nell'immaginazione: nel suo segno potrai non disperare e dare il tuo contributo, grande o piccolo che sia, alla trasformazione dell'umanità, e perciò della società e di te stesso." 1
(Giovanni Maria Bertin, 1987)
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Note:
1      Tratta da Ragione proteiforme e demonismo educativo, La Nuova Italia, Roma 1987, pag. 51-52
 
 
 
 
 
Il contesto teorico del discorso, i fondamenti

Condizione necessaria di rigore scientifico e di trasferibilità delle acquisizioni e delle proposte, in Pedagogia come in ogni altra disciplina di studio e d'applicazione, è un chiaro inquadramento entro contesti teorici e dottrinali riconoscibili e acquisibili, meglio se dichiarati esplicitamente per tali.
Gli studenti destinatari di questa dispensa sanno già che noi ci muoviamo all'interno del contesto teorico e dottrinale che si è costruito: il contesto di una Pedagogia antropologica ed evoluzionistica, dal punto di vista teorico a base neo-pragmatista, essa stessa in corso di elaborazione 1. Si tratta di una Pedagogia applicativa nel senso di aperta all'applicazione senza potersi dir tecnica né pratica, ad essenziali componenti scientifici senza potersi dir scienza, nella quale gioca altresì un ruolo essenziale la dimensione metodologica.
La Pedagogia attuale non presenta quel panorama a base unitaria che invece si dà per scontato in altre comunità scientifiche, dagli ingegneri agli avvocati, dai chimici ai medici, dai sociologi a ciascuna delle comunità degli psicologi esistenti. Per rendercene conto, e tuttavia avviare uno studio che fosse seriamente di penetrazione e non di condizionamento unilaterale, ci siamo serviti "a scalare" negli anni delle antologie italiane curate da Michele Borrelli 2. Una funzione analoga hanno avuto le parallele antologie tedesche 3: oltreché per allargare gli orizzonti, e per comprendere meglio quale e quanto sia il nesso tra la cultura italiana e quella tedesca, anche per rendersi conto che questa situazione di non omogeneità non è solo italiana.
Il contesto di riferimento è dunque già sufficientemente noto ai nostri studenti che si accostano al corso.
 

In quale secolo e in quale evo stiamo vivendo: la transizione epocale corrente

La storia umana, anche per quello che riguarda l'educazione, la cultura, la società, la relazionalità, si divide in Evi, lunghi periodi che presentano qualche aspetto fondante il cui venire meno apre la transizione all'evo successivo. Sono abbastanza note le nozioni di "evo antico", "Medio evo" ed "Evo moderno", anche se i periodi di transizione possono essere oggetti di teorie differenti 4. All'interno di questa suddivisione, la scansione del tempo storico per secoli ha una sua importanza, a condizione che si anticipi l'inizio di ciascun secolo, e la fine di quello precedente, di qualche decennio, indicativamente 5.
Ne consegue che siamo già nel Duemila, e la transizione sembrerebbe essere arrivata tra la fine degli anni '60, e i sommovimenti socio-culturali che hanno avuto un qualche epicentro nel cosiddetto "Sessantotto", re gli anni '80, con la caduta del Comunismo e della cortina di ferro, l'abbattimento del muro di Berlino re l'avvio dell'unificazione tedesca.
C'è di più. Non si tratta solo di una transizione secolare, bensì di una tradizione epocale. L'evo iniziatosi alla fine dell'evo moderno, alla fine del '700 o giù di lì con le grandi rivoluzioni borghese, ha avuto per circa due secoli quella leggibile dominante nel campo della cultura, dell'educazione, della società, della famiglia che provengono dal tipo di storia cui è andato incontro il ceto borghese, testé diventato egemone,nei secoli precedenti 6.
Tutto ciò è ora, e da tempo, in piena crisi: e molti dei problemi che vi nascono sono alla nostra attenzione di pedagogisti e richiedono il nostro intervento.
Tra i pedagogisti italiani contemporanei, del resto, vi è piena consapevolezza di questo. Più o meno tutti gli autori che sono accolti nei tre volumi della citata antologia La pedagogia italiana contemporanea fanno riferimento più o meno diretto ed esplicito alla situazione attuale come quella di una potente transizione, di un cambiamento alla radice di paradigmi sia per l'educazione che per la Pedagogia.
citazioni di Vico, Nanni e Borrelli tolte rispetto a Praja '96.
Max Horkheimer (1895-1973), filosofo , aveva intuito previsionalmente quanto meno il problema epocale già nel 1947, parlando di Eclipse of Reason 7. Più in generale, i critici dell'Institut für Sozialforschung di Francoforte, da lui diretto ed animato, avevano assestato un grosso aggiustamento ai concetti di "dialettica" e di "critica", concorrendo a fornirci l'apparato di strumenti concettuali necessari a lavorare nell'attuale ed in prospettiva futura.
Erich Fromm (1900-1980) è stato uno degli studiosi di psicanalisi con interessi sociali più brillanti dei nostri tempi, e che aveva partecipato profondamente all'elaborazione francofortese: vi era stato chiamato dallo steso Horkheimer nel 1930, e vi era rimasto fino al 1938 quando fu costretto ad emigrare a Chicago, perseguitato politico e razziale. Ebbene egli già in pieno Sessantotto individuava i segni di una transizione che, segnata dall'aumento quantitativo del capitalismo d'allora, acquisiva segni qualitativi socio-culturali di grande rilevanza 8.
In questo, l'impiego del termine "post-moderno" è frequente anche nel campo "tecnico" delle scienze della cultura umana, come lo è nel linguaggio comune. Carlo Nanni, ad esempio, fonda teorizzazioni essenzialmente nuove in materia pedagogica sulla cosiddetta "condizione post-moderna del conoscere" 9.
Va precisato che l'impiego storiografico del termine è tuttavia diverso: l'evo detto propriamente "moderno" è passato da circa due secoli; adesso, semmai, si colgono chiaramente un'altra fine d'evo, un'altra transizione in corso, un'altra svolta epocale, che richiedono terminologie differenti. Le scansioni dei periodi storici in secoli, e derivatamente in millenni, hanno senso purché le scadenze siano anticipate, indicativamente, di alcuni anni o di alcuni decenni 10.
Il che significa, per quanto ci interessa maggiormente in questa sede, che nel "Duemila" ci siamo già; il secolo XXI, culturalmente parlando, è già iniziato. inoltre, ci troviamo già oltre la fine dell'evo borghese, anche se le eredità (comprese quelle sul piano educativo) dovremo trascinarcele ancora chissà per quanti anni.
Comprensibilmente, non siamo ancora in condizioni oggettive di compiere una disamina se non indiziaria e per Trend sul periodo entrante (o, meglio, già entrato): e, come argomenta il Popper metodologo delle scienze sociali e politologo, "postulare delle tendenze è spesso un utile accorgimento statistico. Ma una tendenza non è una legge" 11. Egli prende a riferimento negativo una legge scientifica la quale è, in forma logica, una generalizzazione di implicazioni entro un dominio dato (come dire: "ogni volta che avviene questo per certi oggetti, avviene qualche cos'altro", ad esempio ogni volta che si combinano un acido ed una base si ottiene un sale più acqua, od ogni volta che si avvicinano due cariche opposte si attraggono secondo una certa formula).
Il che tuttavia non toglie che siamo, invece, legittimati a compiere sul periodo passato un'analisi retrospettiva con il distacco storiograficamente necessario; vi sono indubbiamente permanenti "fossili culturali" nell'attuale ma, se ciò ci impedisse un'operazione storiografica, sarebbe impossibile fare storiografia su qualsiasi civiltà per quanto lontana nello spazio e nel tempo e, quand'anche fosse per assurdo possibile, cadrebbe una condizione necessaria del fare storia (almeno in Pedagogia e per la Pedagogia), cioè appunto il nesso con il tempo, con la storia, con la realtà nell'attuale 12.
L'evo trascorso può chiamarsi fondatamente e con proprietà come "evo borghese", specie dal nostro punto di vista, nel senso della prevalenza di una ben determinata concezione culturale, comportamentale, relazionale ed educativa che si è affermata con il predominio della borghesia. Detto tanto, non per questo potremmo certo chiamare con altrettanta proprietà "post-borghese" l'evo entrante; non la borghesia è in transizione, ché anzi essa sta attraversando il suo ennesimo riciclaggio; ma un modo storicamente determinato di attuarsi il potere del ceto e di un certo spirito borghesi 13.
 

Famiglia tradizionale, e pluralità di tradizioni anche riguardo alla famiglia (famiglie nella tradizione)

Diciamo speso che la famiglia è sede primaria d'educazione, come "cellula" della società: è un'immagine più rispondente alla famiglia nucleare che non alla famiglia tout court ed in quanto tale.
Scrive in effetti Sergio Tramma che "L'età adulta è l'età della responsabilità familiare, della stabilità affettiva e relazionale, della direzione di un'unità - sempre meno totale - di produzione, consumo, socializzazione e cura, considerata, secondo un'immagine un po' datata, la <<cellula>> fondamentale della società." 14
Con riserve di tal genere, vediamo tuttavia come un'affermazione relativa ad un'importanza comunque rilevante della famiglia in campo educativo possa uscire dal generico ed essere tradotta in discorso pedagogico in senso pieno.
Da un altro punto di vista, la metodologia di ricerca "per temi e problemi" presenta una proprietà che si interessa in modo particolare. Per quella via, in effetti, è possibile raggiungere livelli di teorizzazione assolutamente generali indipendentemente dalla maggiore o minore particolarità dei problemi dai quali si muove.
Da un punto di vista, insomma, per parlare di Pedagogia Generale e di Educazione degli Adulti è molto indicato partire da problemi familiari; dall'altro, i problemi familiari consentono comunque (se affrontati per tali, in modo metodologicamente provveduto) di trattare le teorie generali sull'educazione, ed anzi sono assai fertili in tal senso.
La presente è quindi una dispensa di educazione degli Adulti, nel senso che tratta un complesso di tematiche tra le più rilevanti entro quelle che stanno con proprietà nell'ambito dell'Educazione degli Adulti: lo è per contenuti. Mentre, per metodologia, è una dispensa sull'educazione degli adulti, che svolge cioè le funzioni di un trattato di carattere generale come cominciano ad essercene altri sul mercato da alcuni anni, man mano che acquista visibilità e consistenza scientifica anche nel nostro paese questa branca degli studi pedagogici (qualcuno direbbe, su questa scienza pedagogica).
Più precisamente, muoveremo in essenza da alcuni aspetti di fondo relativi alla famiglia ed, in particolare, alla Partnership.
Dalle condizioni storiche cui accennavamo, ci troviamo meglio collocati e fondati per constatare, innanzitutto, che non esiste una sola famiglia, e che non esistono né un solo modello né un modello ideale per la stessa. Indubbiamente ne sono esistiti modelli e realtà meglio funzionali, magari ottimamente funzionali e fin idealizzate, per ogni singolo periodo storico, per ogni ambito socio-culturale ed economico; e modelli e realtà sono cambiati come si sono avvicendati i periodi storici e gli ambiti di funzionalità.
Ad esempio, Randolph Trumbach ci fornisce una documentatissima descrizione del cambiamento della famiglia aristocratica, in particolare inglese 15. Essa usciva da una prima transizione avvenuta "quando, attorno all'anno 1000, le diverse aristocrazie europee fecero propria una ideologia patrilineare. Le varie popolazioni barbare avevano in precedenza organizzato le loro parentele in sistemi di cognazione" 16: si è trattato quindi di passare da una famiglia nella quale contavano tutti i sistemi di parentela ad una nella quale dominava la discendenza diretta maschile (dal parentado al patrilignaggio); quel sistema familiare era peraltro rimasto e si era rafforzato nelle classi artigiane e borghesi. La seconda transizione viene da lui collocata fin nel tardo XVII secolo e ha portato anche alla famiglia "nucleare" (od anche "instabile", relativamente all'eredità), basata sulla "Domesticity", sull'ideale di "intimità domestica" (da cui anche famiglia "domestica"): si tratta essenzialmente della famiglia che ha dominato come modello, appunto, per due secoli con maggiore resistenza nelle classi signorili ed in quelle contadine, la cui crisi marca così fortemente la transizione attuale, e i cui problemi siamo così spesso chiamati ad affrontare anche in una prospettiva di Pedagogia Professionale. Il sociologo francese di scuola positivistica Émile Durkheim (1858-1917) la definiva anche "famiglia coniugale". Nei ceti contadini sopravvivrà a lungo un altro modello di famiglia, quello cosiddetto "patriarcale", e i due paradigmi di famiglia non vanno confusi.
Fondamentalmente, in questo secondo, il "patriarca" conserva la sua autorità indiscutibile anche sui componenti di altre coppie ed autori di altre Partnership, solo perché appartenenti alla detta famiglia anche come componenti acquisiti od affini; invece nella famiglia nucleare basta l'atto di costituzione ufficiale della famiglia ad attribuire autorità indiscussa al partner maschio, "capo famiglia" e fino ad un attimo prima figlio e sprovvisto di autorità; mentre la partner femmina passa, come da rito matrimoniale, dalla tutela del padre (e non necessariamente del patriarca) a quella del marito, ma acquista per ciò stesso legittimità di maternità (prima negata) e di gestione domestica (prima pressoché negata) e di conseguenti autorità sulla prole e signoria sulla casa, "angelo del focolare" od anche "regina della casa".
Per rimanere un attimo al lessico, la famiglia nucleare viene chiamata dallo stesso Trumbach "egalitaria", a marcare un recupero dell'uguaglianza dei diritti delle femmine rispetto ai maschi che si è potuta avere in questa famiglia molto meglio che non nella famiglia patriarcale od in altre, seppure con enormi difficoltà e con tempi diversi da un paese all'altro (in particolare, con grossi ritardi nel nostro).
Veniva a volte chiamata famiglia "d'amore", soprattutto a marcare la differenza tra la famiglia aristocratica nella quale il matrimonio aveva esplicitamente finalità differenti; ma anche per segnalare l'appello ad uno degli argomenti che meglio servivano (e sono serviti) a tenere equilibrata questa costruzione umana.
Ci ritorneremo, nella casistica della parte II.
Il processo subirà una potente accelerazione un secolo dopo, corrispondentemente (fra l'altro) alla rivoluzione industriale, alla ridistribuzione del reddito e del potere economico, e al progressivo superamento del sistema politico preesistente che si basava sulla nobiltà terriera la quale doveva salvare la discendenza titolata e possidente e doveva quindi adottare "un'ideologia patrilineare per proteggersi dalle conseguenze del sistema di parentado" 17. Questo, anche in quell'Inghilterra che pure non conobbe sul suo territorio rivoluzioni cruente, resistette fino alla fine del XVIII secolo, quando fu sovvertito l'ordine politico-economico basato sulla proprietà della terra, e alle idee neo-classiche si sovrappose il Romanticismo.
Converge a queste valutazioni un pedagogista contemporaneo come Hans-Jochen Gamm, il quale correttamente segnala che "è dovuto innanzitutto alla famiglia borghese questa riservatezza avvincente tra genitori e bambini che noi oggi siamo abituati a ritenere l'unico proficuo rapporto. (...) si dovrebbe però essere consapevoli del fatto che nel periodo feudale della storia europea un tale cerchio d'intimità era completamente insolito" 18. Né si tratta dell'unico controesempio, nella storia ed anche nell'attualità: egli porta a quest'ultimo riguardo il caso del Kibbutz 19.
Anche Karl Marx e Friederich Engels, in Die deutsche Ideologie (1845-46, uno dei tanti scritti marxiani a lungo dimenticati anche nell'ambito del Marxismo, tanto che fu edito nel 1932), teorizzavano la famiglia come realtà storica, individuando alcuni dei cambiamenti che essa stava incontrando in seguito alla rivoluzione capitalistica: in questo, prendevano le distanze dal Max Stirner che trattava della famiglia in una astratta de-storicizzazione.
I metodi impiegati dalla cultura e dal costume dell'era borghese per accreditarsi sono molti e molto efficaci: anche per quel che riguarda il modello familiare. La critica di Wolfdietrich Schmiedt-Kowarzik è condivisibile, indipendentemente dalla sua ricerca per un neo-marxismo che riprenda quelle radici del pensiero marxiano ed engelsiano che non hanno avuto sviluppo nel Marxismo: "la teoria borghese della prassi (etica, pedagogia, politica) ha dovuto, per principio, comprendere sé stessa come chiarificazione della ragione sempre già presente alla prassi che la spinge in avanti per avviare così gli individui consapevolmente illuminati ad un operare ragionevole e morale (...). Ma proprio in ciò la teoria borghese si dimostra, per principio, affermativa" 20.
Uno dei metodi impiegati comunemente nella cultura borghese per rafforzare la sua assertività assolutistica, il più noto e di immediata esperienza per chi si occupi d'educazione, è un autodefinirsi come "sempre esistita", o "tradizionale" o, magari, fin "naturale": così per l'educazione, come per il modello familiare e questioni di genere connesse. Già Engels osservava che "Una delle idee più assurde che ci siano state lasciate in eredità dal secolo dei Lumi è quella secondo la quale la donna, all'origine della società, è stata la schiava dell'uomo" 21.
Non era solo un'eredità dell'Illuminismo, in quanto la ritroviamo anche presso teorie ben lontane da quelle dei Lumi come quella Nazionalsocialista. Come ci riferisce George L. Mosse, storico del Nazismo e del razzismo, Adolf Hitler in persona sosteneva che le donne "sono importanti per il loro istinto e il loro sentimento, qualità che spesso difettano negli uomini, portati invece a confidare nella ragione" 22. Il concetto si chiariva meglio progressivamente: "E' uno dei miracoli della natura e della provvidenza perché un conflitto tra i sessi è impossibile (...) dal momento che ognuno adempie a un proprio compito conferitogli dalla natura" 23. Il rimando al biologico, al di là di ciò che di culturale si attribuiva impropriamente alla "natura", finiva per ridursi alla funzione riproduttiva; ad Heinrich Himmler, in effetti, "importava poco la spiritualità delle donne"; piuttosto temeva "l'estinzione della razza." 24
La non naturalità della soggezione femminile è teorizzata da Fromm: "L'assudditamento delle donne agli uomini ha avuto inizio non più di seimila anni fa circa, in varie parti del mondo, quando un'abbondanza di prodotti agricoli ha permesso di assumere e sfruttare lavoratori" 25. Il contrabbandare per "naturale" un fatto marcatamente culturale sembra essere un accorgimento retorico abusato.
Johannes Beck osserva criticamente che "Nel programma scolastico (non) segreto della civilizzazione sembra esservi annotato ciò che l'uomo ha da apprendere, come se fosse imperativamente <<nella natura delle cose>>. (...) l'opera dell'uomo, come storia, viene sottomano naturalizzato e sperimentato come natura. Questa natura oggettivata delle cose impartisce i suoi insegnamenti come autorità <<naturale>>" 26.
Da una prospettiva dichiaratamente neo-marxista (o, meglio, marxiana di ricerca), Schmiedt-Kowarzik converge all'affermare che "Come tutta la prassi sociale, così anche l'educazione si compie fin nella società attuale borghese-capitalista come processo <<naturale>> che è inconsapevole della sua determinatezza sociale e che, di conseguenza, non può essere realizzato come compito programmato socialmente. Ciò che viene, dunque, generato socialmente - sia l'introduzione della scuola nella società borghese con la sua separazione di apprendimento e lavoro o la scienza dell'educazione e la sua applicazione - appare ai soggetti come uno stato di natura e una regolarità che estranea; in ciò si annulla la consapevolezza che sono essi stessi i produttori di queste condizioni. Nella società borghese capitalista, il capovolgimento della prassi e della coscienza assume forma totalizzante. Esso non appare agli individui come una loro potenza, ma come una costrizione strutturale di natura e viene interiorizzata come regolazione del comportamento." 27
Chiaramente, le cose non stanno così e la natura è chiamata in causa impropriamente (come dottrina) e strumentalmente (come prassi educativa oltreché socio-culturale). Venendo all'attualità, se un merito ha avuto la querelle accesasi nel 1996 sulla proposta di legge avanzata dal Presidente della Commissione Giustizia della Camera Giuliano Pisapia (Rifondazione Comunista) di conferire ai figli il cognome della madre, è quello di aver fatto venire allo scoperto tutta una serie di affermazioni ideologiche che si ammantano di una pretesa legittimazione "naturale": queste vanno da chi appoggia la proposta sostenendo un clinamen "naturale" del bambino alla madre, a chi la avversa sostenendo che sarebbe invece "naturale" un clinamen di vita verso il padre. Ha poca importanza il complesso di controesempi di società la cui discendenza non è ordinata secondo la patrilineità; conta evidenziare il carattere assolutamente culturale del tutto. In natura, non esistono lignaggi di sorta: esistono eredità biologiche, alle quali ciascuno dei genitori (nelle specie sessuate, cioè in tutte le specie tranne quelle più semplici) apporta la metà esatta dei cromosomi.
Dal punto di vista pedagogico, si potrebbe osservare ad esempio l'educazione della fanciullezza nell'evo borghese non era quella del fanciullo spartano, né quella del nobile medievale né quella delle corti signorili e moderne, e neppure quella della famiglia patriarcale contadina. Questo, peraltro, è chiarissimo e facile a cogliersi per chi studi storia, storia della filosofia, storia dell'educazione, storia della letteratura: c'è voluto un apparato enorme di letture parziali, emendate, filtrate, ad usum delphini per figurare che le cose stessero altrimenti 28.
Anche ammesso che esistesse una famiglia "tradizionale" (una, ed una sola), andrebbe ricordato che in momenti di transizione come quello che stiamo vivendo il richiamo alle tradizioni non può mai essere rigido e in funzione di replica o di regressione. Ma una (ed una sola) "famiglia tradizionale" non esiste, nella nostra realtà. Non va ovviamente confusa la nostra prospettiva con quella che poteva avere John Dewey, come del resto qualsiasi studioso statunitense, per il quale la storia del paese e della società si identifica con l'evo borghese, e le altre componenti di tradizione risultano dichiaratamente (e più positivamente) esterne.
 

Funzionalità della famiglia borghese, e tipi di violenza

La famiglia borghese, o nucleare, aveva alla sua base un tipo particolare di violenza corrispondente alla rigidità e all'artificiosità dei ruoli, quello paterno-capofamigliare come quello materno-partenariale come quelli dei figli e delle altre figure. Se ha retto per circa due secoli, e con essa tutta la violenza per la gran parte non riconosciuta come tale, ciò si è dovuto in misura non marginale alla funzionalità molto alta che quel modello familiare aveva in quella società: come cultura, come economia, come educazione dei figli, tanto da farla considerare come "cellula" o nucleo della società. Solo con l'evoluzione sociale e la transizione in uscita dall'evo borghese se n'è potuto fare progressivamente a meno, come anche si è potuto fare a meno di quella violenza, e si sono potuti riconoscere come violenti in senso pieno comportamenti che tali non erano considerati.
Tra questi, è larga la casistica di tipi specifici di violenza sulla donna, anche se non sarebbe l'unica: in particolare "i modelli che la società propone alle donne (...) una degradazione che rende fissa per sempre una relazione vivente. La tirannia che riduce l'infinito dell'immagine a una servitù di fatto, è così brutale, il discorso, che esalta le donne per conquistare meglio la loro sottomissione, così cinico, che ogni dinamismo si esaurisce nell'equazione derisoria impostata dalla sufficienza maschile" 29; il che integra per noi, oggi, una gamma di occasioni di sviluppo per una specifica nonviolenza. Quella che John Stuart Mill (1806-1873), filosofo ed economista britannico di matrice positivistica, chiamava The Subjection of Women 30 non aveva solo gli aspetti pubblici che egli molto opportunamente denunciava: aveva tutta una sequela di aspetti privati, da lui stesso riconosciuti. Questi andavano della negazione della pienezza culturale alla repressione sessuale, dallo sciogliersi aprioristicamente fissato nella famiglia all'asservirsi al progetto di vita del Partner (o dei genitori, in non pochi casi), a tutto un complesso di fenomenologie sistematiche che ci sono note e che culminavano con la pretesa di dominare della donna i sentimenti. La consideriamo oggi violenza proprio perché siamo alla transizione, e in grado di effettuare quello sguardo critico retrospettivo cui si è accennato.
Non bisogna pensare, e si tende a non pensare più, ad una preminenza della violenza fisica consumata per tale, e neppure in analogia alla cosiddetta "violenza morale", dizione insidiosa perché altamente ambigua. Esiste una violenza che diremmo "di ruolo", la quale sta nella sottomissione ad un ruolo non umanamente congruo. Già questa sottomissione significa di per sé violenza, spesso autoviolenza: come un coscritto che non odia e non vuole uccidere, una donna sposata benestante che deve farsi carico di casa e figli dei quali il coniuge professionalmente totalizzato non si occuperebbe per nulla; oppure una donna od un uomo sposati per malinteso dovere o per malintesa socializzazione, che per tutta la vita scontano questo vizio d'origine. Per questa "violenza di ruolo" e "nel ruolo" entrambi i coniugi, anziché aiutarsi nell'ottemperanza a ruoli per loro stessi violenti, si accentuano la violenza reciproca, con l'uomo che si disinteressa della sessualità della donna limitandosi a ricavarne il minimo indispensabile per sé per operare fuori; e la donna che una volta ottenuti status sociale, sistemazione economica, la casa e l'anello al dito, i figli nel numero voluto e quella parte d'indipendenza che il tutto consente (può non essere poca), si disinteressa a sua volta non solo della sessualità del Partner ("laissez-faire, laissez-aller", nella migliore delle ipotesi; "l'importante è finire", cantava Mina tempo fa, il testo originale era "l'importante è venire") o la rende di fatto impraticabile in uno dei cento modi nei quali ciò è agevole ad attivarsi. Lo stesso numero di figli, a volte è voluto solo dalla donna indipendentemente o contro il desiderio e l'inclinazione dell'uomo, a volte è imposto dall'uomo alla donna o in crescere, mediante la noncuranza nell'esercizio della sessualità, o in diminuire mediante coercizioni di ogni tipo a questa o quella forma di contraccezione o all'interruzione di gravidanza: il che è sempre violenza, verso l'uno o l'altro dei Partner o reciproca, e comunque verso i figli stessi. E c'è in fine d'esposizione, senza pretesa di completezza e di tassonomia scientifica, la violenza sessuale, intesa come pratica sistematica da parte della donna di una sessualità assolutamente insoddisfacente per ragioni di equilibrio di coppia, di famiglia e di tutto ciò che vi si basa, dall'economia al livello sociale, dal progetto dei figli alla realizzazione di sogni più o meno realistici.
Andrebbe aggiunto che si va affermando anche il reciproco di molti se non di tutti questi esempi: uno per tutti, il maschio che accetta il rapporto sessuale, anche con regolarità, per sé del tutto insoddisfacente, avendo constatato lo squilibrio che l'omissione comporta nel complesso di strutture che è sotteso da esso (perché non crolli la famiglia, od anche solo per avere a prezzo così disumanamente caro il minimum vitale per altri aspetti della sua vita); ovvero per sedare accessi di gelosia nella Partner nel modo più efficace, attraverso un'abbondante attività sessuale fino agli estremi limiti delle risorse, la quale in genere non accontenta nessuno e nulla (a meno di un equilibrio di coppia nevrotico basato su un sorta di complicità) salvo la pretesa di possesso della Partner stessa. Si tratta di un altro modo di usare violenza.
Insomma, la ricerca esclusiva dell'orgasmo del maschio come modo di acquietare il Partner ed uscire da una situazione impegnativa non è solo una strategia di sopravvivenza femminile, lo può essere da parte del maschio stesso; e può esistere anche il doppio caso reciproco, del maschio che persegue l'orgasmo della femmina, e della femmina che persegue il proprio orgasmo, con il medesimo fine (accontentare il Partner, e uscire da una situazione impegnativa). Può, certo, cambiare molto circa le modalità, e circa le facoltà di dissimulazione ed il ricorso ad esse: ma questa è comunque violenza sessuale, come lo sono lo stupro consumato, o la segregazione coatta del Partner: e non cambia nulla che la vittima sia il maschio o la femmina.
Ma al di sopra di tutto, quel che in fin dei conti ha avuto una funzione giustificazionista indiscussa su tutto questo e ben altro per due secoli, o giù di lì, è la ben precisa statuizione, come legge non scritta, che il tutto dovesse sussistere in quanto funzionale all'ordine socio-economico che, si diceva, aveva nella famiglia il suo nucleo fondamentale. Se vinciamo la guerra contro il nemico, se aumentiamo il Prodotto Interno Lordo, se il nostro sistema ferroviario è il migliore del mondo, ciò si deve alla miriade di drammi che si consumano nelle camere da letto come nelle stanze di sbratta delle case, nella forte tenuta delle donne al loro ruolo di falso sesso debole a supporto del maschio, ed alla reciproca tenuta del maschio grazie alla donna in quel ruolo, in casa come soprattutto fuori. Il tutto condito di comportamenti, stilemi e modi di pensare tipicamente borghesi: dal perbenismo al pregiudizio sistematico, dal culto della forma vuota (ed in quanto vuota) al rifiuto della creatività, e via dicendo, come esemplificavamo 31. E che fossero solo esempi lo dimostra ampiamente Mosse, con la brillante individuazione della caratteristica irrinunciabile dello spirito, della famiglia, della relazionalità borghesi che è quella rispettabilità la quale, etimologia a parte, è concetto sconosciuto e grottesco in ambito moderno (stato assoluto) o medievale (stato feudale), e comunque presso il ceto signorile.
Non appare incoerente il concetto di "stato etico" così fortemente legato allo Hegel: a quello Hegel (precisiamo) che Ralf Dahrendorf definisce "il padre delle due grandi ideologie illiberali dell'era moderna" 32; a colui dal quale "Quasi tutte le più importanti idee del totalitarismo moderno sono state ereditate" 33. Il Nazismo o lo Stalinismo, il Socialismo Reale della D.D.R, e il "rispettabilissimo" franchismo, come funzionamento perfetto di macchine disumane per fortissimo ed incrollabile senso di ruolo, di gerarchia, di fedeltà al gruppo d'appartenenza (foss'anche nazionalisticamente o razzialmente individuato) e obbedienza al capo-guida (quale sia e qualunque cosa sia), si costruiscono in casa e in camera da letto nei rapporti violenti ed impositivi fatti per servire l'ordine socio-economico e culturale-relazionale, in rapporti familiari altrettanto "integrati" in quello che potremmo chiamare correttamente con reminiscenza sessantottina "il Sistema", salva la riserva che non è riducibile alla sola dimensione economica, nella vita delle generazioni in sviluppo progettata a tavolino ed imposta indipendentemente da qualunque desiderio o peculiarità del soggetto, indicandone l'adeguarvisi come somma virtù.
La violenza intesa come più comunemente, come esercizio della forza fisica per infliggere dolore ed imporre sottomissione al più debole, è verosimilmente sempre esistita e non è tipica di questo o quel modello familiare (o sociale); possono cambiarne, semmai, la modalità d'esercizio, in particolare la pubblicità, come può cambiarne il riscontro (eventuale) nel diritto positivo.
Il fatto che appaia sempre più chiara l'inconsistenza di pretese asserzioni giustificazioniste rispetto alla violenza fisica dell'uomo sulla donna, e che anzi si cominci a parlare dell'uomo violento come di un possibile oggetto di intervento terapeutico socio-assistenziale, od anche pedagogico, è un segno più del mutato clima culturale e sociale che non di un cambiamento di quel tipo di violenza. Così Fromm, pur in una generalizzazione "sovraesposta" e "mossa" delle modalità d'asservimento delle donne e dei modelli familiari: "L'egemonia maschile nell'ordine patriarcale dura da circa sei o settemila anni, ed è ancora il modulo prevalente nei paesi più poveri come tra le classi meno abbienti della società. E' però in lenta diminuzione nelle società opulente: l'emancipazione delle donne, dei bambini e degli adolescenti sembra abbia luogo quando e nella misura in cui il livello di vita di una società aumenta" 34
Quello che invece sta cambiando oggi in modo sostanziale, e più rilevante, è il che cosa si intenda per "violenza", come si è visto seppur per esempi sommari: cambiamenti di cultura consentono di differenziare articolatamente il concetto stesso di "violenza", sia facendovi rientrare comportamenti prima perfettamente (o quasi) accettati e metabolizzati, sia affiancandovi una casistica altrettanto ampia che riguarda la violenza verso il maschio, verso i figli, e verso qualunque altro soggetto umano quale ne sia il genere ed il ruolo. "Violenza" se ne esercita ancora verso le donne, sia in senso passato o "stretto", preteso tradizionale, sia in altri sensi; ma se ne esercita verso l'infanzia, e in modi ben diversi da quelli che si potrebbero pensare comunemente, essendo l'abbandono, la trascuratezza, la denegazione dell'educazione e della Nurture in senso lato assolutamente parificate alla violenza dei bambini laceri e contusi e denutriti, come è considerato oggi giusto che sia ed indiscusso da chi abbia perizia specifica.
E vediamo così delinearsi anche il concetto di violenza sul Partner maschio: facile individuarla nelle madri o nei padri o comunque su minori; ancora molta strada crediamo che si dovrà farne per riconoscere la violenza della Partner sul Partner, che va dalla forzosa collocazione a soddisfacimento delle ambizioni di tutta la famiglia anche al di là degli umani limiti (con ricatti d'ogni genere), alla consumazione dovuta di sessualità insoddisfacente e magari contraria allo stesso spirito del Partner (una donna masochista che si impone su di un Partner che non sia sadico costituisce dramma non inferiore a quello di un uomo sadico che si impone su di una donna che non è masochista). E via elencando, nella considerazione di altri ruoli, nonché eventualmente anche di altri generi oltre a quelli dei due sessi generalmente considerati.
 

Pedagogia, e Scienze dell'Educazione (e alcune notevoli tra le Scienze dell'Educazione)

Qui si deve attraversare quel complesso di obiezioni, frequenti nella vita comune come nella vita politica, nella cultura come nella scienza, secondo le quali molte, moltissime, forse anche nella grande maggioranza le donne avessero accettato in modo positivo quella situazione e vi fossero sostanzialmente serene o addirittura felici: felici riversandosi nei figli, in modo più o meno costruttivo ed evolutivo 35 o vivendo all'ombra dell'uomo (più o meno) di successo o ritenuto tale. Si osservano anzi gravi difficoltà proprio delle donne all'attraversamento della transizione corrente, addirittura con desideri di regressione a tempi ormai in irreversibile via di superamento 36.
Si potrebbe indagare in modo scientificamente valido sulle donne della generazione di mezzo, educate all'etica e al costume borghese e chi si trovano a vedersi cadere le certezza corrispondentemente rassicuranti e consolatorie, pur nella constatata loro inattualità.
Ma va detto che, se viene posta così, la questione si inquadra correttamente al di fuori della tematica pedagogica, pur non essendo priva d'interesse per il pedagogista.
Si tratta di uno degli innumerevoli esempi di psicologismo, di riduzione a psicologia di problematiche che, essendo propriamente umane, sono multidimensionali e molto più complesse. Lo psicologo può anche accontentarsi del vissuto non patologico e magari realmente sereno: come potrebbe indagare sull'equilibrio psichico che potevano raggiungere, ad esempio, gli indigeni delle colonie sotto dominio europeo, gli schiavi d'America prima dell'emancipazione, i servi della gleba in epoca feudale, gli ex contadini urbanizzati nella rivoluzione industriale, gli italiani sotto il Fascismo, i cittadini dell'est europeo sotto il Comunismo, e via elencando all'infinito. Rousseau sosteneva addirittura che i popoli che fossero stati abituati ad avere padroni non sarebbero più stati capaci di farne a meno.
Del resto, un sistema pesantemente oppressivo e basato su di una violenza intrinseca (che però viene riconosciuta e denunciata per tale solo oggi) non avrebbe potuto avere stabilità e prosperare in un'evoluzione a ritmi crescenti se non ci fosse stato un tenore piuttosto alto di accettazione (che di fatto è connivenza) presso i destinatari della violenza stessa, il prezzo della quale era il prezzo proprio di stabilità e d'evoluzione del tutto. In questo caso, gli psicologi potrebbero parlare di Sindrome di Stoccolma 37, per le donne-figlie-mogli-madri come del resto per la figliolanza complessivamente intesa.
La violenza quale risorsa educativa essenziale è stata ben studiata nell'ambito della Schwartze Pädagogik 38. E' questa la concezione applicativa dell'educazione (tradotta in modo approssimato in pedagogia nera) che prendeva il nome dal titolo di una raccolta di scritti curata da Katharina Rutschky, che costituisce una base importante per una parte del noto Am Anfang war Erziehung 39 di Alice Miller, nota psicanalista dagli spiccati interessi nella materia educativa. Alla base vi è "La convinzione che ogni diritto sia dalla parte dei genitori e che ogni crudeltà - cosciente o inconscia - sia espressione del loro amore rimane radicata così profondamente nell'essere umano perché si fonda sulle introiezioni che avvengono nei primi mesi di vita, ossia nel periodo che precede la separazione dall'oggetto." 40. I pensatori che vi afferiscono sono poco noti in Italia, gli scritti si collocano a cavallo tra la fine del '700 e i primi dell'Ottocento, cioè proprio in corrispondenza alla transizione epocale precedente. Il titolo del paragrafo, "I focolai dell'odio: due secoli di letteratura pedagogica" 41, è estremamente significativo in tal senso, e ci permette altresì di collocare storicamente in modo più proprio il fenomeno.
Ancora Fromm, in uno dei suoi saggi più noti individua in questa forma educativa una certa modalità sadica, sia pure sui generis, con risvolti sessuali ben precisi 42:
"Quando accade che qualcuno riesca a costringere un suo simile a sopportare dolori senza potersi ribellare, si ha a che fare con una forma estrema di controllo, che però non è affatto l'unica. Forme di sadismo del genere si trovano a volte in insegnanti, si verificano nel trattamento di prigionieri, eccetera. Si noterà come la forma in questione, benché non sia sessuale in senso stretto, sia pur sempre, per così dire, una forma calda, sensuale, di sadismo; è però solo una delle forme possibili. Assai più diffuso è un <<sadismo freddo>>, nient'affatto sensuale e che nulla ha a che fare con la sensualità, pur essendo della stessa essenza del sadismo sensuale e di quello sessuale in quanto ha come obiettivo il controllo, l'onnipotenza esercitata su un altro essere umano allo scopo di averlo completamente in propria balia, come argilla nelle mani del vasaio.
Si danno persino forme bonarie di sadismo, a tutti note, come quando un individuo - accade a volte con le madri o con i capi, e dunque in mille diverse situazioni - ne controlla un altro, non però a svantaggio, bensì a pro di questi. Il primo dice al secondo quello che deve fare: gli viene prescritto ogni atto, ma è tutto a suo beneficio; e il beneficio può essere concreto, la situazione, per meglio dire, può risultargli utile, a parte il fatto che perde la propria libertà ed è completamente dipendente. E' una situazione che non è raro trovare, come s'è detto, nei rapporti tra madri e figli o tra padri e figli, e nel caso specifico il sadico, com'è ovvio, è del tutto inconsapevole di essere tale, dal momento che <<le sue intenzioni sono ottime>>. E del resto, anche la vittima del sadismo non si rende conto di essere tale, perché s'avvede solo di trarre profitto dalla situazione. A sfuggirgli è una sola cosa, ed è che la sua psiche ne risulta danneggiata, che egli si riduce a individuo assoggettato, dipendente, privo di libertà." 43
 

Scienze dell'educazione e Pedagogia Generale

Quindi, il sistema psicologico si regge. Ma non per questo non si prestava e non si presta a critiche, e a rilievi di carenze e lacunosità che rimandano al contributo di altri campi dello studio umano.
Come osservava Popper, notoriamente contrario all'attribuire alla psicanalisi il rango di disciplina scientifica in senso stretto, a proposito del successo delle teorie di Freud e Adler (come, del resto, di quelle di Marx), "Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano. (...) si scorgevano ovunque delle conferme: il mondo pullulava di verifiche della teoria. Qualunque cosa accadesse, la confermava sempre. La sua verità appariva perciò manifesta; e quanto agli increduli, si trattava chiaramente di persone che non volevano vedere la verità manifesta, che si rifiutavano di vederla (...) a causa delle loro repressioni tuttora <<non-analizzate>> e reclamanti ad alta voce un trattamento clinico" 44. Il che, fra l'altro, ha concorso (anche sul piano della sua storia personale) a fargli maturare il convincimento che la scientificità di una teoria andasse ricercata nella possibilità di essere falsificata, nel rischio di fallire delle previsioni che se ne possono dedurre, piuttosto che non nelle possibilità dio verificazione comunque intese.
E' chiaro che considerazioni di questo genere, pur evidentemente interessanti per noi, non spostano il problema della congruità umana di quelle situazioni socio-politiche, e le critiche che vi si potrebbero muovere da un punto di vista pedagogico: come evolutività, come apertura, come autonomia, come liberazione, come massimizzazione delle prerogative umane più pregiate dei soggetti, e via elencando 45.
Se è per quello, potrebbero essersi presentate difficoltà gravi e magari enormi anche per gli schiavi statunitensi emancipati dopo il proclama di Abraham Lincoln (1862) o la fine della guerra di secessione (1865), o a tanti nativi all'atto della decolonizzazione, e perfino agli internati nei Lager dopo la liberazione: è chiaro che ciò non toglie nulla all'evolutività, all'umanità, alla valenza pedagogica, di quegli atti.
Ed invece, nella fattispecie, si è già accennato come Mill svelasse oltre un secolo fa la violenza e l'oppressione che si rendevano socialmente necessarie per mantenere la schiavitù delle donne 46, respingendo l'obiezione secondo la quale tale stato "non si basa sulla forza; è accettato volontariamente;. le donne non si lamentano, e vi acconsentono" 47. In realtà "quelle che accetterebbero volentieri la condizione che si dice essere loro naturale sarebbero un numero insufficiente" 48. Da cui, la "necessità" di forzarle a ciò, coinvolgendo tutte le loro prerogative umane più essenziali. Qui sta la violenza, che non è tale solo se è consumata fisicamente, ma riguarda una necessità sociale di un rapporto che espropria tutte le prerogative umane dei soggetti e sul quale i soggetti stessi devono essere educati e, se del caso, costretti ad omologarvisi: ma su questo, e sugli sviluppi più recenti, torneremo.
Lo psicologismo rende un pessimo servizio alla psicologia. Per prendere un altro esempio umanamente diverso ma che presenta delle analogie metodologiche significative, esso porta ad inquinare gravemente l'aspetto giuridico dell'accertamento di responsabilità penali. Tutti i reati sono commessi anche per ragioni psicologiche, e la conoscenza di tutti gli elementi psicologici in gioco aiuta l'intera società focalizzata nel giudice oltreché l'imputato; ma non va confuso in nulla con il compito del giudice.
Una riserva analoga riguarda il politico-sociologismo: quella struttura familiare aveva una funzione positiva e costruttiva nella società, nell'economia, nella cultura: quella famiglia "nucleare" è stata, correttamente, detta e ridetta costituire la "cellula" della società o, per meglio dire, di quella società. Al che, al progressivo cambiamento di società, cultura ed economia corrisponde un cambiamento, anch'esso progressivo ma più caotico e meno programmato, della famiglia e della visione della famiglia.
Una delle conseguenze più rilevanti del contributo delle scienze politiche, sociali ed economiche al riguardo sta nella constatazione che la società, l'economia, la stessa cultura odierna non hanno più, da tempo, lo stesso bisogno di quella famiglia (e quindi di quel sacrificio della donna) che invece avevano, chiarissimo ed irrinunciabile, la società, l'economia, la cultura di tempi non lontani, a partire dai secoli XVII-XVIII, cioè dalla fine dell'evo moderno e dall'inizio dell'evo che abbiamo proposto 49 di definire "borghese". Ne avranno sempre di meno.
E' questo che ha consentito ai vari movimenti femministi di ottenere oggi dei risultati che sarebbero stati incompatibili con la società precedente,
Qui si gioca molto dell'autonomia della Pedagogia, della sua definizione, del suo ruolo: nei rapporti con le scienze dell'educazione 50. Ciò vale anche sul piano del metodo, dove si trovano dei pendant rispetto all'epistemologia corrente. Abbiamo già fatto notare altrove e da tempo 51 come, in luogo delle traduzioni pedagogiche del falsificazionismo popperiano, siano meglio appropriate teorie originariamente pedagogiche, come, in particolare il Pragmatismo classico (anche nella sua versione strumentalistica), o un Neo-pragmatismo pedagogico in via di costruzione, cui si è accennato.
Per ribadire lo specifico pedagogico al riguardo, potremmo aggiungere le parole di Dieter-Jürgen Löwisch: "colui che agisce, si trova sempre in una zona d'insicurezza; egli può fallire fondamentalmente in ogni azione. Il poter fallire caratterizza l'uomo in quanto essere ragionevole, essere che agisce. Il poter fallire è un momento che interessa esistenzialmente l'uomo; può esistenzialmente interessarlo a tal punto che egli - di propria iniziativa - si pone, infine, la domanda del senso della sua vita. Nessuna apparecchiatura che si comporta in modo conforme ai dati immessi interroga se stessa. Nessun animale pilotato istintivamente che si comporta in conformità delle determinanti e dell'ambiente interroga se stesso e si suicida. L'uomo è libero in ciò; egli mette continuamente a rischio se stesso, allorché agisce. Egli vive nel rischio, vive con il rischio di fallire. L'agire umano è sempre legato al rischio. ogni decisione di valore e ogni decisione libera d'agire è una decisione-rischio, poiché la libertà è sempre strettamente unita al rischio, anche al rischio di divenire colpevoli. Chi può aiutare colui che agisce? Cosa può aiutarlo? Aiutarlo può solamente una riflessione antropologica libera da pregiudizi e imparziale" 52.
Nella transizione epocale corrente si assiste allo scollamento di modi plurisecolari di intendere e di far funzionare un po' tutte le istituzioni sociali (scuola, politica, economia, cultura), tra queste la famiglia. Ancora Gamm: "All'interno della storia sociale molti lamentano che la generazione nuova si dimostra particolarmente indocile, che coloro che educano si vedono stanchi e sconfitti da un incessante tormento. Questa esperienza dolorosa a cui l'educatore è continuamente sottoposto si può contraddistinguere come processo di esaurimento specificamente pedagogico, per così dire, come il logoramento degli stessi educatori che adempiono con ciò, da individui, al loro dovere biologico-culturale" 53.
E' pedagogicamente del massimo rilievo il fatto che la donna ha maturato in quei secoli, proprio nella posizione subordinata, sacrificata, repressa e compressa nella quale si è trovata e a ragione di essa, tutta una serie di strumenti di pensiero e d'azione nonviolenti che, nel periodo, sono stati esauriti nel necessario mantenimento in funzione della famiglia, e suo tramite, nel fornire un contributo essenziale a tutta la società.
Proprio la liberazione di quegli strumenti concettuali ed operativi, di pensiero e d'azione, che per ragioni storiche e culturali definiremo "al femminile", diviene oggi preziosa in tutti i campi.
I singoli vissuti hanno un ruolo importante, ma non possono essere al centro: ogni discorso evolutivo va compiuto, come noto, in termini di specie e non d'individuo. Viceversa, ogni discorso economico, sociologico, politologico è utile, ma va temperato e riprocessato dalla considerazione che gli "individui" in oggetto e allo studio sono uomini.
E' la Pedagogia che si qualifica come studio dell'uomo, qualcuno la chiamerebbe "scienza umana" o meglio "scienza della cultura umana", dipende ovviamente da che cosa si intenda per "scienza". La Pedagogia diviene chiaramente leggibile (anche) come campo di recepimento, di coordinamento e di volgimento a finalità sue proprie (educative) nei confronti di contributi che provengono da altre discipline: siano queste la psicologia, la sociologia, l'economia come nella fattispecie, od altre.
Strumenti concettuali come il progetto di vita, l'evolutività, la liberazione dell'uomo, l'apertura (come mezzo e come fine) 54, l'autonomia, ed altri, sono specificamente pedagogici. La stessa socializzazione acquista una definizione specifica quando sia assunta nel contesto pedagogico: è il comunicare e l'agire assieme ad altri nella società per obiettivi comuni e condivisi, e secondo regole comuni e comunemente accettate, compresa anche la possibilità di modificare di comune accordo gli uni e le altre.
 

"Progetto", "programma" e "programmazione" di vita

Alcuni strumenti concettuali di chiara origine pedagogica, e di pertinenza didattica, rivelano la loro funzionalità nell'applicazione dal dominio propriamente scolastico, alla vita in generale. Vedremo subito come, anche se chi è già in possesso dei fondamenti sviluppati in Educazione 2000 e in Un'introduzione allo studio dell'educazione ne intuirà facilmente (quantomeno) le grandi linee.
Ci si riferisce ai concetti di programma e di programmazione (non più didattica ma di vita), ed in parte anche al più variegato concetto di curriculum.
Sarà un ottimo esempio di un accorgimento estremamente efficace nel campo pedagogico generale, il quale ha qualche cosa a che vedere con il concetto di Transfer: una pratica di estensione dell'applicabilità di strumenti concettuali ed operativi da un campo ad un altro (o a più altri), alla quale va fatto un ricorso estremamente studiato e controllato con la massima attenzione, e assistito sempre da quella qualità che dovrebbe essere propria di chiunque si occupi di educazione che è il discernimento. Cominceremo con i primi due concetti, mentre nel paragrafo seguente diremo qualche cosa circa il concetto di Curriculum.
Quello che riguarda il Programma e la Programmazione è uno dei tanti esempi che si presentano in Pedagogia e Didattica nei quali lo studio etimologico serve a ben poco: i due termini designano concetti ed operazioni completamente differenti come teorizzazione e attuazione pratica, pur avendo l'etimo comune. Derivano, infatti, dal greco "pro" prima e "grámma" scritto, tramite il tardo latino "programma" ad indicare qualche cosa di tracciato in precedenza ai fatti.
Sono due atti diversi da compiersi prima che il docente metta in atto il suo intervento nelle classi. Ma il primo si riferisce ad un elenco di contenuti, al più preceduto da alcune indicazioni di massima, di espressione politica e governativa e normativamente vincolanti. Il secondo, invece, si riferisce ad una serie di scelte in ordine ai contenuti, ai metodi, agli accorgimenti e a quant'altro il corpo docente stesso decide in ordine al proprio intervento tenuto conto del contesto nel quale è chiamato ad esplicarlo, e che è sempre aperto e suscettibile di tutte le modifiche e di tutti gli aggiustamenti di rotta che si renderanno necessari in itinere.
Il primo designa quindi un qualcosa di rigido, quanto il secondo un qualcosa di flessibile; il primo è omologativo al centro e calato dall'altro quanto il secondo è decentrato e contestualizzato; il primo può agire per modelli quanto il secondo non li ammette, e semmai si serve di esempi; e così via.
Si capisce che la contrapposizione di principio tra le due idee che vi stanno sottese non significa incompatibilità. Al contrario, è da ritenersi oggi che una ricerca dell'ottimale, in educazione e nell'insegnamento, si persegua nella tensione dialettica e nel lavoro di mediazione tra l'uno e l'altro: tra normativa (che, in quanto tale, deve essere decontestualizzata e valida per tutti) e le particolarità del contesto (alunni-educandi, ambiente, insegnante-educatore, risorse, strumentazione, contesto, territorio, ...). Qui, fra l'altro, trova la sua migliore definizione pedagogica la professionalità docente attraverso una sua prerogativa irrinunciabile, la libertà d'insegnamento: e si capisce che da qualche cosa del genere le professionalità pedagogiche possano trarre dignità e responsabilità analoghe.
La contrapposizione che, oggi, si vedesse o si tendesse ad instaurare da parte di docenti ed educatori tra i due termini con la preferenza del secondo va, quindi, correttamente intesa come un'opzione per una professionalità più alta, proprio in quanto rifiuta omologazioni a modelli e a schemi rigidi quali che siano. Tipiche, in quest'ultimo e negativo senso, sono le testimonianze esemplari della più usuale didattica esplicata nelle scuole medie superiori attuali.
Legislativamente, il concetto di programma era già presente nella "Legge organica Casati" del 1859, approvata con Decreto Regio (per stato di guerra) e poi estesa dal Regno di Sardegna progressivamente alle regioni dell'Italia unificata. La storia successiva è nota a chi legge queste pagine: i programmi elementari sono cambiati assai spesso, tranne che nel periodo 1955/1987; quelli di scuola secondaria assai meno, e dopo la seconda (e finora unica) riforma organica, preparata da B. Croce e diramata dal ministro fascista G. Gentile del '23 (anch'essa per decreto, dato il momento politico), quelli della secondaria superiore praticamente non più; mentre quelli per la scuola 3-6 anni, nelle varie denominazioni che questa istituzione scolastica ha via via assunto si sono avuti solo dal 1914, e le non poche riforme hanno spesso scontato visioni non scolastiche, che hanno portato ad  una denominazione meno significativa ("Orientamenti per le attività educative").
Quanto alla programmazione, il termine appare in Italia presso vari studi degli anni '70 55.
La sanzione giuridica è venuta nello stesso periodo: nel decreto delegato n. 416 del 31/5/1974 (organi collegiali, articolo 4 sul Collegio dei Docenti), nella legge 4/8/1977 n. 517, per la scuola elementare (art. 2) e media inferiore (art. 7) più o meno con le stesse parole; e soprattutto nelle premesse agli ultimi programmi ministeriali per la media di 1° grado (1979) e per la scuola elementare (1985).
I programmi medi del '79 ne fanno oggetto della III parte della premessa; Leggiamovi le "Fasi della programmazione" (paragrafo 3) sono così elencate:, per renderci conto di quanto queste concettualità siano applicabili in educazione ben oltre la scuola, con i dovuti adattamenti:

a)  individuazione delle esigenze del contesto socio-culturale e delle situazioni di partenza degli alunni;
b)  definizione degli obiettivi finali, intermedi, immediati che riguardano l'area cognitiva, l'area non cognitiva e le loro interazioni;
c)  organizzazione delle attività e dei contenuti in relazione agli obiettivi stabiliti;
d)  individuazione dei metodi, materiali e sussidi adeguati;
e)  sistematica osservazione dei processi d'apprendimento;
f)  processo valutativo essenzialmente finalizzato sia agli adeguati interventi culturali ed educativi sia alla costante verifica dell'azione didattica programmata;
g)  continue verifiche del processo didattico, che informino sui risultati raggiunti e servano da guida per gli interventi successivi.

L'accento sulla retroazione o Feed-back è corretto e dovuto, pur se avrebbe potuto essere meglio marcato, anche o soprattutto nelle ipotesi di Feed-back negativo che porti a guidare "altrimenti" gli "interventi successivi": in altre parole, si tratta di chiudere il cerchio (loop) attraverso i riscontri che derivano dai controlli e che portano a modificare di conseguenza le scelte di cui ai punti c) e d). Ad ogni modo qui ed altrove, come già nella detta legge 517/77, si insiste sulla flessibilità che deriva all'intervento educativo dall'introduzione della programmazione.
Nel testo dei programmi elementari del 1985 si cerca, invece, di delineare meglio il rapporto che intercorre tra l'innovazione introdotta e la permanente necessità di un programma che normativamente si proponga di abbattere le differenze tra contesti scolastici, culturali, economici e sociali differenti.
Né vi si manca di dare uno sviluppo maggiore al concetto di Feed-back. Anche qui si tratta della parte III della "Premessa generale":
"Per attuare i suoi compiti la scuola elementare si organizza in modo funzionale rispetto agli obiettivi educativi da perseguire: pertanto, mentre segue le linee di un programma che prescrive sul piano nazionale quali debbano essere i contenuti formativi e le abilità fondamentali da conseguire, predispone una adeguata organizzazione didattica, affinché il programma possa essere svolto muovendo dalle effettive capacità ed esigenze di apprendimento degli alunni.
Il programma, necessariamente articolato al suo interno, mira ad aiutare l'alunno impegnato a soddisfare il suo bisogno di conoscere e di comprendere, a possedere unitariamente la cultura che apprende ed elabora.
 La peculiarità del programma scaturisce dall'intento di aiutare l'alunno a penetrare il significato della lingua, ad avviare seriamente una preparazione scientifica, a cominciare ad elaborare una conoscenza attenta alla vita umana e sociale nelle sue varie espressioni, ad interrogare criticamente quegli aspetti della realtà che più lo colpiscono (a cominciare dal mondo delle immagini).
La programmazione didattica ha un valore determinante per il processo innovativo che, con i programmi, si deve realizzare nella scuola elementare.(...) Spetta ai docenti, collegialmente ed individualmente, effettuare con ragionevoli previsioni la programmazione didattica, stabilendo le modalità concrete per mezzo delle quali conseguire le mete fissate dal programma e la scansione più opportuna di esse, tenuto conto dell'ampliamento delle opportunità formative offerte dal curricolo, sia con l'inserimento di nuove attività, sia con la valorizzazione degli insegnamenti tradizionali.
La programmazione, nel quadro della prescrittività delle mete indicate dal programma, delineerà i percorsi e le procedure più idonee per lo svolgimento dell'insegnamento, tenendo comunque conto che i risultati debbono essere equivalenti qualunque sia l'itinerario metodologico scelto.
La programmazione didattica deve essere assunta e realizzata dagli insegnanti anche come sintesi progettuale e valutativa del proprio operato."
Osserviamo un aspetto innovativo che ci interessa anche al di fuori della scuola. Dal punto di vista del metodo, la scelta di introdurre la programmazione didattica (pur in un quadro normativo che si informa ad un programma ben preciso) risponde ad una delineazione della funzione docente nel senso della professionalità, ed insieme ad una sua caratterizzazione anche in un senso essenzialmente scientifico.
E' infatti superata l'immagine della scienza come forma di conoscenza "per sequenza di stati", cui corrispondono delle acquisizioni volta a volta definitive, nella quale possano porsi delle certezze di verità, ed in definitiva come un adeguamento del sapere ad un qualche modello statico preesistente.
Qui, ad informare la didattica è una scienza così come la si intende oggi, in un senso che è, insieme, più realistico storicamente, più rigoroso epistemologicamente, e meglio adeguato alla sua applicazione nella materia educativa.
Si tratta di considerare la scienza come un processo conoscitivo continuo ed interminato, al quale corrispondono solo delle acquisizioni provvisorie ed interlocutorie. Una scienza, insomma, che nelle sue applicazioni all'uomo è funzionale alla democrazia ed al progresso, e non alla stasi e alla conservazione, né all'autoritarismo sotto qualsiasi forma.
Analogamente, con la programmazione si sovrappone ad un programma rigidamente prefissato un modo di pensare e d'operare gli interventi educativi e didattici, e lo stesso sapere pedagogico, come processi di continua revisione delle proprie scelte, flessibili ed aperti ai Feed-back positivi e negativi che provengono dagli educandi, e che, consentendo anche di valutare questi ultimi, hanno lo scopo primario di permettere il controllo di quelle stesse scelte.
La didattica, insomma, viene vista come un processo di ricerca scientifica; vi corrispondono le ridefinizioni delle stesse figure docente ed educativa.
Sono cose di dominio comune. In una parola, il concetto di programma è centrato sulla prescrittività (anche nel senso etimologico, dello "scrivere prima", appunto); quello di programmazione è centrato sulla flessibilità, sul continuo agire per ricerca un meglio sempre possibile attraverso continui aggiustamenti di una rotta che perfetta non sarà mai. La contrapposizione tra i due termini, si è detto, è indebita: ma essa sorge facilmente (e senza possibile soluzione) quando si pretenda di contrapporre al "meglio" frutto di ricerca e di rideterminazione continua della programmazione una sorta di "bene" o "Bene" assoluto che detterebbe una e una sola via perfetta, la quale è facile rendersi conto che nelle cose umane non esiste e non può esistere. Un tempo si parlava di "retta" via, nel doppio senso di via "diritta" e di via "giusta": una ed una sola. Anche solo il chiedersi che cosa ne assicurasse la rettitudine, o se esistessero alternative, era considerato violazione grave: è perché un simile concetto non poteva reggere a nessuna indagine umana, neppure alla più debole e immatura.
Veniamo ora direttamente alla Pedagogia Professionale.
Si capisce che qui è in gioco l'esistenza o meno di "apertura" nell'interlocutore, cioè della condizione necessaria per operare qualsiasi intervento educativo, compresi quelli che siamo (o saremo) tutti noi chiamati ad operare come Pedagogisti Professionali. Chi ritenesse che l'educazione fosse terminata (o quasi) ad un dato momento della vita, come compiuta acquisizione di quanto pre-scritto, e che da quel momento in poi il soggetto umano non avesse altro da fare che seguire ciò che era "giusto" in assoluto e possibilmente senza dubbio alcuno, si rivolgerebbe a noi del tutto inutilmente pur scontando situazioni problematiche gravissime. Solo se a questo sconto seguisse una seppur parzialissima disponibilità a rimettere in discussione parti fondamentali di questa vita pre-scritta (e, ovviamente, ad agire poi di conseguenza) potrebbe continuare l'interlocuzione pedagogica; ed anzi potrebbe consentire di apprezzare come quella situazione problematica non fosse un "male", indesiderabile inciampo o deviazione su un percorso da intendersi "retto" e da tenersi spianato, ma un umanissimo problema, dal quale l'uomo trae l'occasione e la spinta ad evolversi, come da sua peculiarità.
Se fosse un "male", sarebbe un'ottima testimonianza dell'esistenza anche di quelli che non vengono per nuocere, secondo un noioso e vecchio adagio che per lungo tempo si è impiegato, semmai, come supporto alla rassegnazione e al fatalismo.
Non è difficile parlare dell'educazione cosiddetta "tradizionale" l'educazione dell'evo borghese che tendeva ad accreditarsi come "sempre esistita" o "frutto di millenni di civiltà" pur coprendo un paio di secoli o poco più, il senso di una vita secondo un programma, nella variante negativa di cui sopra: una vita nella quale tutto tendeva ad essere scritto prima; ed anche chiedersi da chi, perché, come, era violazione altrettanto grave e per lo stesso ordine di motivi.
Diremmo, allora, che qui tratta di operare anche nella vita, come già da decenni va fatto nell'insegnamento scolastico, ad una vita secondo programmazione. Una vita cioè di ricerca continua; e per la quale è necessario pre-scrivere e prescrivere (normare) qualcosa, e qualcosa di essenziale; a condizione però che non si pretenda di normare nel modo che si è sopra ipotizzato e descritto, credendo che nelle cose umane possa esistere alcunché di "buono" in assoluto, di indiscutibile, di non perfettibile, di non passibile di evoluzioni; ma, semmai, che la normatività sia di aiuto per la ricerca di un "meglio" relativo, che è sempre possibile, e che è deontologia umana cercare.
Si vede lavorare, insomma, per una transizione dal "programma di vita" ad una vita coerente con l'idea di "programmazione". La flessibilità è coerente con il concetto di Programmazione, come è parte essenziale della necessaria apertura. La flessibilità va per tutto ciò intesa come un altissimo pregio umano, anche se invece qualcuno ancor oggi la critica: la mancanza (o la carenza) di flessibilità ostacola pesantemente l'evoluzione attuale, nel lavoro come nella famiglia, nelle relazioni socio-culturali come nella soggettività storica. Si tratta, in parte, di un retaggio dell'educazione borghese, otto-novecentesca: ma probabilmente non è solo questo.
Si pensi alla mobilità nell'abitazione e nell'insediamento di vita per ragioni lavorative che accomunava evolutivamente i diversi ceti sociali ancora negli anni '50, quindi ancora in evo borghese, mentre oggi li accomuna nel rifiuto. La forte mancanza di questo tipo di flessibilità è un ostacolo potente di carattere culturale e pedagogico, (cioè per l'evoluzione) prima che non di carattere economico e produttivo (cioè per lo sviluppo).
Sarà bene ricordare che Piero Bertolini teorizza due livelli (su quattro) di definizione dell'educazione nei quali l'intenzionalità e la progettualità non ci sono: quello dell'esperienza spontanea auto-educativa, e quello dell'esperienza spontanea etero-educativa 56.
Ancora Sergio Tramma riprendendo da Duccio Demetrio propone una visione della vita non per stadi ma "per stati", secondo "un'evoluzione non finalisticamente predeterminata", la quale "comporta una nuova prospettiva, cioè individuare l'occasione educativa anche quando non è <<prevista>>, anche quando potrebbe non essere presente o immediatamente identificabile come tale." 57. Più avanti, parla dell'"educazione degli adulti come pratica del cambiamento." 58
 

Una digressione sul problema dell'intenzionalità in educazione, estratta da un articolo in corso di stampa su "Continuità e scuola"

Il problema dell'intenzionalità in educazione merita qualche considerazione ulteriore, specie in un contesto come il presente riferito all'esercizio della professionalità pedagogica nei confronti di soggetti adulti.
L'intenzionalità in educazione può facilmente essere ravvisata in tutti i tentativi che sono stati operati nel campo pedagogico di superamento della dicotomia tra teoria e prassi: che ci si rifaccia sia al John Dewey che indica alla filosofia il compito di indicare le finalità generali dell'educazione con in senso pragmatico, e che denuncia in Platone le basi teoretiche di quella dicotomia; sia al Karl Popper che in quel Platone denuncia il giustificazionismo anti-democratico e razzistico e un nemico della società aperta odierna 59; sia al Karl Marx che indica ai filosofi il compito di mutare la società anziché limitarsi ad interpretarla; sia alle tradizioni cattoliche della "scienza pratica" il cui fondamento è garantito da valori trascendenti.
Il discorso è relativamente semplice e, forse, neppure controverso se ci si riferisce a tutte quelle parti dell'educazione che sono in qualche modo istituzionalizzate, formalizzate, e che seguono vie progettuali (più o meno consapevoli presso chi educa effettivamente). E' tuttavia chiaro che l'intenzionalità e la progettualità in educazione non è da confondersi con l'intenzionalità progettuale nell'insegnamento, né con l'educazione comunque istituzionalizzata, e nemmeno con le riflessioni su atti educativi e d'insegnamento come sono rispettivamente la Didattica e la Pedagogia. Il "patto sociale" si esercita certo in sedi come queste, e primariamente.
Se, invece, parliamo dell'educazione in generale, allora parliamo di una prerogativa umana che è per tutta la vita, e non ha neppure età o sedi privilegiate. (...)
Basterebbe riflettere sul fatto che tutto ciò che è umano è per ciò stesso in divenire, continuamente da rivedersi, imperfetto e quindi perfettibile, e per ciò stesso è umanamente positivo, congruo e significativo, per capire che tutte e sole le idee che servono l'uomo sono quelle aperte a tale divenire, che accettano di storicizzarsi e per le quali valga il pánta 'reî ós potamós, tutto scorre come fiume, di Eraclito. Anzi, è plausibile che la statuizione originaria fosse addirittura potamoîsi toîsin 'autoîsin 'embaínousin 'étera kaí 'étera 'údata 'epirreî, per quelli che entrano nel medesimo fiume scorre acqua diversa e diversa.
Il mondo intero è in movimento, il mondo fisico come quello biologico, e ancor più quello culturale. Il matematico e filosofo, con interessi pedagogici, Alfred North Whitehead (1861-1947), ha esteso le valenze del termine "processo". E da qualche tempo i pedagogisti sono concordi nell'affermare che l'attenzione va spostata anche a questo riguardo "dai prodotti ai processi": dal bagnarsi nell'acqua alla particolare acqua nella quale volta a volta ci si bagna, che è (oltre a tutto) questione di poca importanza. E' diverso per le idee? No, se le idee sono per l'uomo come lo è l'acqua per la sua igiene. Il discorso cambia, ovviamente, se essenzializziamo le idee fino ad asservire l'uomo ad esse. Ciò risponde a dottrina pedagogica consolidata. "Il processo educativo (...) è influenzato e promosso dai fatti o prodotti culturali di un determinato ambiente, ma può portare l'individuo al di là dei fatti e al di là dell'informazione e ciò per sviluppargli il pensiero critico, che gli consente di esprimere giudizi di valore: manifestazione di competenza, di conoscenza, di originalità e di creatività." 60
Viceversa, in effetti, qualunque forma di costruzione dell'identità che tenda ad essere statica e fissa è per ciò stesso anti-umana, essenzialmente contraria a ciò che caratterizza l'uomo nelle sue specificità più elevate tra i viventi. "Il processo educativo se si collega solo ai prodotti si risolve in una trasmissione che esclude l'idea di progresso e, quindi, di cambiamento, <<trasmissione da una generazione all'altra, delle conoscenze, delle tecniche, delle capacità, dei valori, dei comportamenti imposti o suggeriti dalla civiltà, di cui l'individuo fa parte>>." 61
Le evidenze di fatto contrarie a tale modalità di costruzione dell'identità umana, che la realtà porterebbe prima o poi nel loro divenire, anziché concorrere al divenire della stessa costruzione, finirebbero per essere ritorte contro l'uomo. E' così nelle società chiuse, specialmente quelle a matrice hegeliana, come nei gruppi che legittimano comportamenti contrari al vivere civile e civilmente normato, come anche all'impostazione di vita del singolo che si dà in modo autoconsistente, e che lo porta a ripetere all'infinito sempre i medesimi errori, costruendovi attorno ogni sorta di illusoria cappa di copertura, di occultamento.
Più in generale, Jerome S. Bruner (polemizzando con Dewey) osservava "che il compito dell'istruzione è duplice. Da un lato il processo educativo trasmette all'individuo parte del sapere, dello stile e dei valori morali accumulati, che costituiscono la cultura di un popolo. Dall'altro, l'istruzione deve contribuire allo sviluppo dei processi intellettivi, per far sì che l'individuo sia capace di procedere al di là dei modi culturali del mondo e cui appartiene, capace di procedere, cioè, a innovazioni, comunque modeste, in modo da crearsi una cultura sua propria." 62; poco più avanti aggiunge che "l'istruzione non ha solamente il compito di trasmettere la cultura," la quale può avere elementi giudicabili diversamente nei riguardi dell'uomo, "ma anche quello di fornire punti di vista alternativi, quale stimolo della volontà di esplorarli." 63. Dewey, in effetti, era un progressista: ma il suo concetto di evoluzione culturale, alquanto datato, era identificato esplicitamente su quello dell'evoluzione biologica: il concetto di "progresso" era pervaso da quell'ottimismo ideologico e metafisico che era criticabile anche in tanti positivisti del Vecchio Continente. Tutto questo ci appare ancor oggi uno dei limiti più stringenti della sua versione strumentalistica del Pragmatismo Classico, che è in revisione nel corrente Neo-pragmatismo.
Molte sono le conseguenze della transizione culturale che stiamo attraversando attualmente, ed è così chiara anche nel contesto educativo: in particolare, si capisce che riesce problematico anche in linea di principio un ipotizzare l'intenzionalità in ambedue i soggetti di una qualsiasi comunicazione educativa. Come ipotizzare, ad esempio, intenzionalità nel neonato, il quale educa chi lo accudisce esattamente come ne è educato? O nello studente (di tutte le età) che educa il docente, in ogni grado di scuola? O nel sanitario, che è educato dal paziente come e per il fatto stesso che lo educa curandolo? O dell'esperto di processi della formazione professionale che è educato dal formando per il fatto stesso che esercita la sua funzione? O dall'allenatore sportivo, da chi si occupa di bambini delle età più tenere a chi si occupa dell'agonismo, che probabilmente (a pari dei precedentemente menzionati) rifiuterebbe la dizione di "educando"? Ma le situazioni metodologicamente analoghe potrebbero essere infinite altre.
Viene dunque da chiedersi: è l'intenzionalità condizione necessaria di educazione? Addirittura definitoria di un atto per essere educativo? Ci sono ragioni per dubitarne: quanto meno, per tutti i casi di educazione non formalizzata e non interamente progettuale; e in tutti gli interlocutori che, come quelli testé esemplificati (il neonato, l'allievo, il paziente, il formando, l'atleta, ...) di progettualità potrebbero non partecipare se non in seconda battuta ed, appunto, non intenzionalmente.
(...)
Innanzitutto, non andrebbe scordato che le intenzioni sono del soggetto e non trasferibili. Leibnitz parlava problematicamente del rapporto tra la verità di fatto e le sue motivazioni (inesauribili, Monadologia, pr. 36).
Quando, anche nel parlare comune, si nega legittimità al "processo alle intenzioni" si intende semplicemente esprimere l'impossibilità a valutare in (e di) qualunque uomo altro, che non siano i fatti da questi compiuti. Nelle cose umane, ogni riferimento all'intenzione che si operi per valutazioni di quella responsabilità piena che, da Aristotele in poi, si lega alla profondità delle motivazioni per lo scegliere e l'agire, ha senso e valore se e solo se trovi riscontri fattuali; e questi sono altra cosa dall'intenzione stessa. Così nel diritto positivo: non esiste alcuna fattispecie di reato che possa configurarsi comunque nelle sole intenzioni interne al soggetto.
Sarebbe da rileggere l'Etica Nicomachea. Premesso che "la lode e il biasimo hanno luogo per gli atti volontari, mentre per gli atti involontari v'è il perdono e talora anche la compassione", mentre altra cosa è il "proponimento" (così Armando Plebe traduce proaíresis, argomentando la scelta), che "è volontario, ma non è la stessa cosa del volontario, poiché il volontario è più esteso; il volontario cioè è comune anche ai bambini e agli animali, mentre non lo è il proponimento, e ciò che si compie improvvisamente diciamo che è volontario, ma non che deriva da un proponimento", non è "desiderio" e neppure "un'opinione" , e dunque "non sarà forse ciò che è l'oggetto di una deliberazione preventiva? Infatti il proponimento è sempre accompagnato dalla ragione e dalla riflessione. E anche il nome di proponimento sembra indicare che qualche cosa viene prima delle altre": c'è in effetti, il concetto di "prendere", o "scegliere", "prima", che ci porta nell'alveo pieno del nostro discorso. Ora, "assolutamente e secondo verità l'oggetto delle volontà è il bene, però a ciascuno di noi oggetto della volontà è ciò che sembra bene: per chi è virtuoso ciò che è veramente bene, per chi è vizioso quello che capita (...) forse l'uomo virtuoso differisce dagli altri soprattutto perché vede la verità in tutte le cose, essendo egli il canone e la misura di esse": si può quindi argomentare che "Giacché oggetto della volontà è il fine, mentre oggetti della deliberazione e del proposito sono i mezzi che riguardano il fine, le azioni che riguardano essi dovranno essere secondo il proponimento e volontarie. Ma l'ambito delle virtù è appunto in queste cose. Quindi anche la virtù dipende da noi e parimenti anche il vizio. In ciò infatti in cui il fare dipende da noi, anche il non fare dipende da noi; e dove sta in noi il non fare, vi sta anche il fare cosicché se dipende da noi il fare il bene, dipenderà da noi anche il non fare il male, e se sta in noi il non fare il bene, starà in noi anche il fare il male. Se dunque sta in noi il fare il bene e il male, e parimenti anche il non farli, e in ciò si disse che consisteva l'essere buoni oppure cattivi, starà dunque in noi anche l'essere probi oppure viziosi." 64. Volontà e virtù sono dunque altra cosa dall'intenzionalità progettuale, in quanto direttamente esperibili. E comunque, per quanto osservato, è escluso che si possa parlare di proaíresis in molti dei casi di interlocuzione educativa, relativamente alcuni dei quali si è esemplificato.
Così nella Bibbia, nella quale i riferimenti all'intenzione sono veramente assai pochi, essi o riguardano il rapporto con Dio, o qualche cosa di pur interiore ma che si fa atto o è comunque suscettibile di farsi atto, e solo in quanto tale riguarda gli uomini. Da cui quel senso di riservatezza nei confronti delle proprie intenzioni nei rapporti con gli altri uomini (es. Siracide, 37, 10) che semmai riguardano il rapporto con Dio che può vederle ed in base ad esse propriamente giudicare (es. Siracide 35, 19-23). Il messaggio evangelico è chiaro al riguardo: "E disse loro: <<Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?>>. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: <<Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo>>." (Marco, 7, 18-23. Testo C.E.I.). Esso è completato, nel senso detto, da Paolo: "A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio." (Epistola prima ai Corinzi, 24, 3-5). Il giudizio delle intenzioni, che è divino, è di principio incompatibile con quello umano, che va ai fatti.
Neppure in psicanalisi, che di tutte le scienze della cultura umana è quella che può sembrare andarci più vicina, vale più alcunché di simile "Prima di Freud, bastava che qualcuno affermasse le proprie buone intenzioni (...). Dopo Freud (...) a parlare per lui sono le sue azioni, non soltanto le parole, e può anzi accadere che le parole dicano poco o nulla." 65. C'è, peraltro, un grosso problema di moventi inconsci,
Ma, per il pedagogista e per tutte le dimensioni educative, il discorso si fa più chiaro ed, insieme, più impegnativo. E', in linea di principio, arduo anche solo l'ipotizzare che si possano individuare gli atti umani come educativi (e non) sulla base di un loro carattere che rimane solo nella mente del soggetto, quale appunto l'intenzionalità. Per cui l'educazionale come definizione, come qualificazione per tale, va ricondotto alla positività dei fatti, ed in particolare alle conseguenze. E, come ci insegna l'Antiseri metodologo delle scienze umane sulla base del Razionalismo Critico e in polemica con qualunque storicismo (in particolare quello hegeliano e marxista), la grande maggioranza della fenomenologia della vita umana e sociale è fatta di conseguenze inintenzionale di atti che pure possono essere intenzionali; e ciò, per i caratteri di apertura (nel senso della "società aperta", transfer dell'"universo aperto" della Logik der Forschung), di evolutività, di complessità della vita umana sociale. Popper ci ricorda, ad esempio, che "solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate mentre la gran maggioranza di esse sono venute su, <<cresciute>> come risultato non premeditato di azioni umane." 66
(...)
Sarebbe quindi arduo contribuire alla valorialità in educazione per via della ricerca all'interno delle intenzioni di chi educa.
 

Qualche idea per la vita dal concetto di curriculum in Didattica

Qualche cosa si può dire anche per quel che riguarda il Curriculum, di interessante anche chi non opera necessariamente nell'ambito dell'insegnamento scolastico.
Il termine latino designa originariamente in senso "attivo" la corsa, anche agonistica, e in senso "passivo" la pista, il percorso, ove essa si svolge, anche con accezione figurativa (cfr. il comunissimo "curriculum vitae", locuzione ripresa da Cicerone).
Il termine tecnico, a volte italianizzato in "curricolo" ovvero pronunciato con inflessione anglo-americana, riprende l'accezione metaforica ri-concretizzandola in un senso che sia anche pratico oltreché applicativo ed operativo.
Tenendosi ancora su di un piano assolutamente generale, va osservato che l'impiego del termine nella letteratura e nella pratica pedagogiche e didattiche è frequente quanto disinvolto e non univoco, come notava Frey 67 già molti anni or sono; peraltro, è di quei termini la cui accezione risente in modo più profondo ed essenziale del contesto culturale nei quale viene avanzato.
La trattazione prende efficacemente due vie di sviluppo: quella della cosiddetta "teoria del curricolo", branca sempre più cospicua della materia educativa, o una delle scienze dell'educazione a seconda del significato che si dà a questo dominio; e la ricerca per l'elaborazione di curricula da proporsi agli insegnanti, o da questi elaborati per la propria didassi quotidiana.
L'origine storica della ricerca curricolare si può collocare negli USA, con significativi precedenti fin dai primi decenni del secolo, verso gli anni '50: i progetti che vennero elaborati a cavallo tra quel decennio ed il successivo ebbero un'egemonia sulla cultura scolastica dell'Europa occidentale durata circa un ventennio. L'iniziativa costituiva un elemento non trascurabile della "guerra fredda" allora in Escalation; essa in effetti ebbe il corrispettivo in ricerche analoghe su nuove procedure, sequenze contenutistiche ed organizzazioni dei piani di lavoro nell'est europeo negli stessi anni.
Tutto ciò costituiva, peraltro, un buon campo per tentare di rispondere alle esigenze, specialmente nel campo della formazione, della realtà socio-economica e culturale del dopoguerra, e del suo divenire cui non erano più adeguate le diverse teorie disponibili prima. Si tratta della necessità di una scientificità, e di una tecnicità, più essenziali nell'educazione e nell'insegnamento; ma altresì di un'evoluzione in senso democratico, e di un'evoluzione dello stesso modo d'intendere la democrazia, l'educazione e la cultura oggi.
Entrambi gli ordini di evoluzione sono ben leggibili nel modo in cui la dimensione curricolare si va sviluppando ed applicando. Il primo ha una sua particolare evidenza nel fatto che i progetti curricolari più importanti sviluppati in quel contesto hanno riguardato proprio insegnamenti di scienze della natura e di scienze dell'uomo, nonché di scienze logico-matematiche, come testimoniato autorevolmente da Jerome S. Bruner 68.
Nell'Europa del blocco orientale è prevalsa per decenni, nella ricerca del settore, la considerazione dei contenuti, della loro sequenza e della predisposizione centralizzata e tendenzialmente rigida delle fasi dell'insegnamento, tradottasi in nuovi programmi funzionali all'edificazione di una società comunista. Questa accezione di curriculum tende a ravvicinarsi al concetto di programma, fino ad identificarvisi, integrato da una congrua opera di guida e direzione degli insegnanti, e da tutta la complessità coinvolta. Di particolare rilievo, in questo senso, l'opera svolta nell'ormai disciolta D.D.R., la quale peraltro riprendeva in via essenziale elementi della tradizione europea e mitteleuropea, e che ha influito in quanto tale sull'opera analoga svolta in altri paesi mitteleuropei del blocco orientale, anch'esso già tramontato per tale e tendenzialmente orientato, in quei componenti, verso il centro del continente.
In realtà, il termine nella sua ripresa statunitense egli anni '50 (e sia pure nella grande variabilità di significati) presenta in linea di massima un maggiore spessore pedagogico: e per questo è bene che lo consideriamo con la dovuta attenzione. E' un termine "aperto" alla società e alla vita.
Il suo significato si estende dalla progettazione di un processo d'insegnamento (in generale od in qualche specifico disciplinare o pluri-disciplinare), con l'allestimento e la previsione delle finalità, dei contenuti, delle metodologie, degli strumenti, delle flessibilità, fino alla pratica applicatività che ne è conseguenza. Si vedano, al riguardo, i complessi di libri di testo, guide metodologiche per gli insegnanti, manuali di laboratorio e di esperienze per insegnanti ed alunni, materiali dedicati, film, più recentemente Software, nonché occasioni di confronto e coordinamento come convegnistica e riviste tra docenti e studiosi accademici, che hanno integrato i vari progetti statunitensi per gli insegnamenti scientifico-naturalistici: il P.S.S.C. (1956) per la Fisica, il C.B.A. (1959) e il Chem-Study (1960) per la Chimica, il B.S.C.S. (1960) per le Scienze biologiche, l'E.S.C.P. (1960) per le Scienze della terra...
Fondamentale in questo è stata la delineazione data dai Nicholls 69, ben imperniata sull'idea di puntare sulle occasioni intenzionali specifiche di un processo d'insegnamento-apprendimento.
Nella visione da tempo dominante, le varie versioni dell'ottica curricolare concorrono nel mettere in evidenza particolare lo spostamento dell'attenzione dai prodotti ai processi, la dimensione sistemica dell'atto educativo (per cui il "tutto" e "più della somma delle sue parti", le quali prese ciascuna isolatamente perdono di senso 70) o di "totalità", la complessità istituzionale accettata e trattata per tale e con strumenti adeguati, la flessibilità, la problematicità anche dalla parte dell'insegnante (e non solo come risorsa per muovere gli allievi). Il che pone in evidenza anche tutta una problematica di carattere metodologico, che Bruner aveva creduto di risolvere in una sintesi tra analisi delle strutture delle discipline insegnate e alcuni aspetti della psicologia della conoscenza, ma con scarso successo.
In Europa, e nel progressivo emergere di un primato nell'elaborazione teoretica che solo per pochi decenni era stato attribuito agli USA, ha fatto da battistrada la B.D.R., attuale Germania unificata. Qui la liberazione dalle sovrimposizioni in materia scolastica da parte degli occupanti nell'immediato dopoguerra è andata di pari passo, dagli anni '70 in poi, con la revisione dei curricoli anziché del programmi, vale a dire anche delle finalità, dei metodi, dei mezzi, delle modalità di controllo docimologico e relativa retroazione. La critica alle proposte statunitensi di 15-20 anni prima si è estesa altresì alla loro origine universitaria, cioè estranea al mondo della scuola e dell'educazione: nel senso del privilegio di considerazioni "interne" alle diverse discipline di competenza degli estensori a scapito di quelle educative, culturali e sociali complessive; e nel senso di sovrapposizione da parte di elementi accademici delle proprie competenze rispetto a quelle più specifiche maturate dagli uomini di scuola.
All'interno della variabilità delle accezioni del termine, in Italia fa da guida alle innovazioni progressivamente introdotte dagli uomini di scuola una legislazione che, profondamente riformata in diverse parti a partire dagli anni '70, è abbastanza coerente (pur se articolata) a questo specifico riguardo.
Le premesse si trovano, come per molte altre potenti innovazioni analoghe, nella legge delega 30 luglio 1973 n. 477, specie nell'articolo 18, e nei due conseguenti decreti delegati nn. 416 e 417 del 30 maggio 1974. Nel primo, soprattutto nell'istituzione dei consigli di classe ed interclasse (art. 3), anche se il termine non appare ancora e non vi si va oltre formule quali "realizzazione del coordinamento didattico" e "rapporti interdisciplinari". Nel secondo, specie nella sanzione della "libertà d'insegnamento", il cui esercizio "è inteso a promuovere un confronto aperto di posizioni culturali la piena formazione della personalità degli alunni" e non quindi come un fatto sindacale o burocratico, bensì professionale nell'interesse dei destinatari (art. 1); e nella delineazione della "funzione docente (...) intesa come esplicazione essenziale dell'attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità." (art. 2).
Questi provvedimenti riguardavano tutta l'istruzione pre-universitaria esclusa la scuola del bambino, che doveva rimanere oltre un ventennio con gli "Orientamenti" del '69 i quali in questo senso erano ancora arretrati.
Ha riguardato solo i due gradi dell'istruzione obbligatoria ex tunc la legge di riforma n. 517 del 4 agosto 1977, che fra l'altro enfatizzava la tecnica di programmazione.
Nella "Premessa generale" ai programmi del '79 per la scuola media di 1° grado, focalizzando "Significato, finalità e struttura dei programmi" si precisa che ad essi, in tutte le materie, "debbono riferirsi il consiglio di classe e i singoli docenti per impostare concretamente, e in relazione della classe e dei singoli alunni i piani didattici, secondo il criterio della programmazione curricolare.". Ed in effetti, in quel testo i criteri di unità e complessità del sapere, di flessibilità e progettualità, di contestualizzazione, di problematicità e di processualità evolutiva, trovano tutti un posto essenziale, anche se non sempre in modo pienamente esplicito.
Anche nei programmi elementari del 1985 i dettami più significativi sotto la prospettiva curricolare non sono etichettati in tal senso, in particolare quelli su "La scuola come ambiente educativo di apprendimento":
"La scuola elementare, il cui intervento è intenzionale e sistematico, realizza il suo compito specifico di alfabetizzazione culturale partendo dall'orizzonte di esperienze di interessi del fanciullo per renderlo consapevole del suo rapporto con un sempre più vasto tessuto di relazioni e di scambi.
(...)La scuola elementare promuove l'acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio e un primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità, delle modalità di indagine essenziali alla comprensione del mondo umano, naturale e artificiale.
Essenziale a tal fine è anche la realizzazione di un clima sociale positivo nella vita quotidiana della scuola, organizzando forme di lavoro di gruppo e di aiuto reciproco e favorendo l'iniziativa, l'autodecisione, la responsabilità personale degli alunni.
Sono queste le condizioni necessarie perché ogni alunno viva la scuola come <<ambiente educativo di apprendimento>>, nel quale maturare progressivamente la propria capacità di azione diretta, di progettazione e verifica, di esplorazione, di riflessione e di studio individuale.
Pertanto, le sollecitazioni culturali, operative e sociali offerte dalla scuola elementare promuovono la progressiva costruzione della capacità di pensiero riflesso e critico, potenziando nel contempo creatività, divergenza e autonomia di giudizio, sulla base di un adeguato equilibrio affettivo e sociale e di una positiva immagine di sé.
La scuola elementare pone così le basi cognitive e socio-emotive necessarie per la partecipazione sempre più consapevole alla cultura e alla vita sociale, basi che si articolano, oltre che nelle conoscenze e nelle competenze prima indicate, anche nella motivazione a capire e ad operare costruttivamente, nella progressiva responsabilizzazione individuale e sociale, nel rispetto delle regole di convivenza, nella progressiva responsabilizzazione individuale e sociale, nel rispetto delle regole di convivenza, nella capacità di pensare il futuro per prevedere, prevenire, progettare, cambiare e verificare.
Per questo la scuola elementare, nell'adempiere il suo compito specifico, è scuola che realizza concretamente il rapporto fra istruzione ed educazione."
Venendo alla scuola 3-6 anni, notiamo come anche a questo riguardo gli "Orientamenti" del '69 ci appaiono più come l'ultimo atto delle riforme fondate su pedagogie remote, od al più un anello di passaggio, rispetto a quasi tutto ciò che si muoverà nella scuola più o meno a partire dalla legge 477/73 predetta, dopo un viraggio nei fondamenti pedagogici, e che negli anni '90 è ancora largamente in corso di promulgazione e di attuazione.
La modifica in senso curricolare è stata subito all'attenzione della commissione scientifica incaricata nel 1988 della riforma. Tale riforma si inserisce in continuità logica e cronologica, teorica e storica, con quella della media di 1° grado (1976/81) e della elementare (1981/1990), ed in parallelo con quella della media di 2° grado. e questo vale anche (diremmo, "sostanzialmente") per gli aspetti di programmazione curricolare che vengono introdotti a tutti i livelli.
In effetti, già nel rapporto di medio termine (di fine dicembre 1988) venivano introdotte profonde modifiche in tal senso, come anche in altri di rilievo per testimoniare la portata dell'innovazione di fondo sul piano pedagogico generale (dall'analisi del ruolo mutato di questa scuola nella società, a quella del progresso della figura docente nei suoi vari aspetti e dell'esercizio della relativa professione). I dettami in proposito spiccavano per chiarezza e univocità, in un testo che (anche essendo interlocutorio) prestava il fianco tra le tante critiche a quella del difetto di coerenza e del carattere di sommatoria di contributi differenti.
Vi veniva precisato, innanzitutto, che "In questi anni il costume professionale della scuola materna dimostra un crescente ricorso a criteri di ordinamento delle finalità, dei contenuti e delle esperienze educative in aree e/o dimensioni. Mediante questi due criteri, si è mirato a rendere l'attività didattica della scuola del bambino più rigorosa, meglio fondata e consapevole.". Il che sanciva fin da allora queste due profonde modifiche (quella presente, e quella del prossimo capitolo), nel senso progressivo che abbiamo posto in evidenza dalle prime righe.
In quel documento, veniva prima posto in generale il curricolo in senso progressivo ed alternativo rispetto al programma:
"Il curricolo si distingue dal programma - che è per lo più un insieme di contenuti educativi e di apprendimento - in quanto organizza il complesso delle condizioni che rendono possibile l'azione educativa e didattica di un livello di scuola.
In termini generali, si intende per curricolo un insieme interrelato di procedure di scelte relative a: finalità, obiettivi (generali e specifici, trasversali e longitudinali), aree e campi di esperienza, metodologie e strategie didattiche, verifiche dei processi e dei risultati formativi. Esso offre dei criteri di riferimento cui si richiameranno gli insegnanti nell'interpretare - attraverso l'attività di programmazione collegiale - gli indirizzi generali degli Orientamenti (o Programmi) ed insieme un metodo di costruzione per una specifica proposta progettuale. Con questa metodologia si può contestualizzare la proposta specifica in rapporto alle condizioni dei bambini con cui l'insegnante opera, ai livelli di competenza, al contesto socio-culturale, agli atteggiamenti dei genitori.". Seguiva una particolarizzazione del concetto a questo specifico grado di scuola; e la proposta delle tre "aree" (due formali espressive ed una "scientifica e ambientale (naturale e sociale").
Si nota una fissazione delle relazioni tra gli obiettivi educativi e gli altri termini (programma, curricolo, orientamenti, ...) alquanto malsicura. In effetti, mancava ancora una chiara posizione del concetto di programmazione, a fianco di quella del curricolo, al di là di qualche cenno non inessenziale. Per trovarla, dovremo attendere la relazione finale (luglio 1990) e, poi, il testo normativo dell'anno dopo.
Qui, comunque, troviamo la statuizione (tecnica e legislativa insieme) più avanzata sul curriculum nelle scuole del nostro paese.
Va qui osservato come la stretta sinergia che si viene a riscontrare nei fatti tra la programmazione e il curriculum non deve indurre in confusione. Si tratta di due sfere contestuali diverse sotto le quali guardare all'atto educativo mediato per la didattica, non disgiunte ed anzi offerenti un'intersezione cospicua sulla quale lavorare.
Mentre il curriculum ha una sfera teorica sua propria oltreché un'applicatività, la programmazione è uno strumento concettuale avanzato della didattica generale, e anche il suo dominio d'applicatività è diverso.
La programmazione costituisce un modo di esercitare la professione educativa; il curriculum un modo si studiare ed esercitare non solo l'insegnamento, ma anche tutto ciò che concorre all'insegnamento (nell'insegnante, nella scuola, negli allievi e nell'ambiente complessivo.
In questo senso, "programmazione curricolare" non indica un'appartenenza del curricolo alla sfera della programmazione, ma un modo di programmare che tenga conto anche degli altri fattori, diversi dall'interazione docente-discente e da ciò che al suo interno si può evocare, ma che a tutto ciò concorrono.
Si può programmare anche tenendo conto della società, del territorio, dei mezzi e delle risorse a disposizione, e di tutta una serie di fattori: fattori il cui studio sistematico finalizzato all'educazione attraverso l'insegnamento è compito, appunto, della teoria del curriculum.

Ora, domanda: sotto quali aspetti, e in che modo, il Curriculum può costituire uno strumento concettuale ed operativo utile anche per la Pedagogia Generale, come lo sono quello di Programma e di Programmazione?
Ricordiamo: complessità, approccio sistemico, pluralità di agenzie educative, rapportarsi dell'educatore e dell'operatore professionale a tutti i fattori in gioco, valutandoli e agendo di conseguenza. E così via.
 

Questioni di genere e di costruzione culturale: alle origini e alla coltivazione di una particolare forma di nonviolenza "al femminile"

Corrispondentemente a quanto si osservava circa la violenza nella coppia e nella famiglia, e soprattutto circa il suo divenire, osserviamo come le donne abbiano maturato nell'arco di due o tre secoli, fra l'altro, una forma tutta particolare di nonviolenza, che consisteva nel vivere positivamente, costruttivamente. quella situazione di violenza sistematica sulla quale si reggeva la famiglia borghese e, per mezzo di questa forma di cellula sociale, la società intera. Ed è di quel tipo di nonviolenza di cui oggi c'è bisogno ben al di là delle ristrette mura familiari.
Quelli che venivano sbrigativamente etichettati come atteggiamenti e comportamenti "normali", di "una buona moglie" e "una buona madre di famiglia", di una donna che nel veneziano di Goldoni si sarebbe chiamata "de sesto", accentuando così aspetti di adattamento e in fondo di passività verso un ordine fissato e indiscutibile, oggi ci appaiono quindi come un campionario di enorme valore di atteggiamenti positivi e costruttivi, essenzialmente nonviolenti da tenersi in situazioni di violenza, onde volgere la situazione con proprio sacrifico all'interesse e alla crescita evolutiva comune.
Dall'agire "normale" della donna borghese, reinquadrato in un nuovo contesto socio-culturale epocale, discende un "pensare rosa la nonviolenza" dell'evo entrante: e da questo apporto umano ci si attendono contributi preziosi, probabilmente indispensabili, ad affrontare positivamente da parte di tutti (e non più solo della Partner-moglie-madre) le nuove situazioni problematiche, e le nuove cariche di violenza in esse essenziali: "nuove" nel senso che non si presentavano prima, e "nuove" nel senso che il loro carattere violento non veniva letto prima ma viene letto con progressiva nitidezza oggi.
Insomma, questa forma specifica di nonviolenza della quale le donne sono latrici e cultrici appare essere la risposta canonica ad una riproposizione dell'esercizio continuo e talvolta, forse, sistematico ed essenziale, della violenza in una varietà spaventosa di forme. La coppia e la famiglia appaiono come luoghi "pedagogicamente" deputati all'elaborazione e alla pratica propositiva di questo tipo di nonviolenza che nuovo non è in assoluto, ma è nuovo come generalizzazione anche al sesso maschile, ed a ruoli diversi da quello della Partnership femminile. Ciò, in particolare, perché la nonviolenza entro la coppia ed entro la famiglia è oggi, all'uscita dell'evo borghese, condizione di evoluzione; d'altra parte la violenza (nelle varie forme) diventa condizione di conservazione, di stasi, di crisi di civiltà: è un ritorno all'evo borghese, un rifiuto di evolvere all'evo nuovo. La paura del nuovo, si sa, può manifestarsi in tante forme, anche in forme violente, appunto
I rapporti coniugali, come anche i rapporti con i figli, erano improntati ad una violenza essenziale: violenza che si manifestava, come sostanza, nella fissità dei ruoli, nella mancata autonomia di ciascuno (sia di chi comandava che di chi obbediva), nella predelineazione dell'agire futuro secondo canoni, modelli, sistemi valoriali ai quali ottemperare supinamente, acriticamente, relativamente ai quali era virtuoso il non porsi domande e l'adeguarvisi senza alcuna comprensione. L'indipendenza mancava in tutti, ed in particolare anche nel coniuge maschio come in quello femmina: e tuttavia è significativo che le prime concrete manifestazioni di ricerca d'indipendenza siano andate, in anni non lontani, sotto il nome di "emancipazione" (usato anche da Fromm, come citato più sopra), proprio come se si fosse trattato di liberare uno schiavo materialmente e venalmente acquistato; il termine era d'impiego e d'accettazione comune, da parte delle donne "emancipande" prima di tutti.
Quanto ai figli, più grave di tanta violenza di relazionamento era, ad esempio, la predeterminazione eteronoma del loro futuro.
Oggi, le carte sono state parzialmente rimescolate attraverso un relazionamento differenziato tra i membri della famiglia, che ha avuto impulso ulteriore con gli allargamenti della famiglia un tempo nucleare, ed in particolare con la Divorce Added Family. Non se ne esce, evidentemente, attraverso la negazione che debbano esistere dei ruoli in quanto tali, o negando le regole in quanto regole, cioè con qualche forma di indeterminatezza anarchica al riguardo, che sarebbe sicura disgregazione di questa come di ogni altra forma di vivere sociale. Se ne esce attraverso ruoli di libera elezione, anche nella consapevolezza che "libera" non significa "arbitraria", e che non presentino rigidità e immutabilità, specie se non razionalmente motivabili e comprensibili.
Sia la scelta, che la progressiva modificazione di questi ruoli, con il relativo apparato di norme metodologiche, sono campi nei quali pedagogista ha molto da dare.
Ripensiamo alla violenza nella famiglia borghese: un tempo, anche l'ipotizzarne l'uomo come vittima faceva pensare o a reazioni sarcastiche, oppure a diagnosi di devianza sociale; comunque, a situazioni in qualche modo afferenti a quella che oggi considereremmo Pedagogia Speciale. E' oggi invece possibile parlare in termini di Pedagogia Generale anche a questi riguardi.
La situazione di violenza nella famiglia nucleare borghese riguardava tutti i componenti, entrambi i sessi (in tutti i ruoli), ed in particolare il Partner maschio assieme al Partner femmina, seppure certo non interscambiabilmente, come si è esemplificato solo in piccola parte. Li riguardava in modi diversi, differenziati per ruolo. Ma era violenza anche quella che caratterizzava la condizione del genere maschile nel ruolo di marito e di padre, quando (ad esempio) per coltivare una maschera ruvida e arcigna doveva astenersi da tenerezze verso la moglie e soprattutto verso i figli piccoli, o dalla sana allegria, oppure dal coinvolgimento in tante questioni di casa: da tante estrinsecazioni umane, insomma, delle quali poteva avere bisogno, per investire tutte le sue risorse più pregiate "fuori" della famiglia massimizzandone la resa e ricaricandosi "dentro" di essa, a spese appunto della Partner-moglie e rendendosi così (cor)responsabile di una violenza istituzionalizzata.
La violenza di base, l'essenza violenta del tutto, può essere chiara oggi e nella sua cospicuità. La differenza fondamentale quanto al genere è che quella reazione nonviolenta che vi si è esercitata e che si è poi consolidata culturalmente stava nel fatto che l'uomo era chiamato ad esercitare le sue prerogative fuori della famiglia (semmai chiedendo nonviolenza alla Partner e ai figli), e dalla donna, appunto, dentro. Per cui, si capisce che quella nonviolenza che ha nella coppia e nella famiglia il suo luogo deputato, e della quale (precisamente della quale) oggi abbiamo bisogno ovunque ed in particolare al di fuori della famiglia e della coppia, è quella esperienzialmente femminile. Femminile, quindi, in senso culturale e storico, come vedremo ulteriormente.
 

Un esempio tratto dalla letteratura

Non sono frequenti, in questa teorizzazione pedagogica, i richiami alla Letteratura come fonte di documento, come base fattuale: essa richiede molte cautele e senso critico sempre presente, e questo per ragioni di fondo che sono state sintetizzate altrove 71.
Tuttavia, l'ideologia borghese che ha pervaso gli ultimi due-tre secoli ha avuto un carattere così totalizzante da influenzare profondamente la Letteratura come la Pedagogia fin a far identificare tra di loro quelli che gli epistemologi chiamerebbero i contesti della scoperta e i contesti della giustificazione, i processi con i prodotti. Ci potremmo riferire, come esempio significativo in tal senso, ad un romanzo breve di un giovanissimo autore, ben dentro la cultura del tempo ma assieme in grado di esaminarne gli aspetti più crudi e violenti, come la totalizzante ipocrisia essenziale, con l'anticonformismo del giovane e il distacco di chi ancora non vi è maturato dentro identificandovisi ed omologandovisi 72. Il protagonista, nella narrazione in prima persona ed all'inizio dodicenne, ha una relazione durante la Prima Guerra Mondiale con una donna sposata, Marthe, che ha il marito al fronte, e da questa relazione nasce un figlio cui la madre dà il nome del giovane amante: la relazione viene osteggiata ma l'ipocrisia così essenziale nel mondo borghese consente ad essa di sopravvivere sotto soglia anche se nota a tutti; la preoccupazione di fondo è fare violenza ai sentimenti di tutti. sia ai due protagonisti, che al marito al fronte, Jacques). Tutto si traduce nel cercare un ristabilimento dell'equilibrio borghese e perbenista violato che poi arriva con la morte della protagonista.
Non è una novità: personaggi romantici e borghesi come Margherita-Margarethe, Violetta Valéry, Mimi-Lucia, Tosca, Madama Butterfly hanno invariabilmente la "delicatezza" di morire non appena abbiano esaurito la loro carica nell'economia della narrazione e siano ormai d'ingombro, salvo completare anche l'aspetto dell'estetica romantica con una morte spettacolare e di facile ascolto commosso.
Tornando al romanzo di Radiguet, a morte avvenuta della protagonista, la preoccupazione della famiglia d'origine di lei si appunta al mettere tutto "a posto" bruciando ogni traccia dell'amore e della vicenda reale (che è violenza erga omnes), fingendo con la complicità del medico la nascita prematura del figlio per far credere al padre putativo una paternità che non c'è stata, facendo rientrare il protagonista-narrante (nella sua gioventù) in seno alla di lui famiglia d'origine, e chiudendo con la confortante sicurezza normalizzata che il padre putativus et putans (altra "maschera" borghese così diffusa e così funzionale!) amava profondamente quel bambino (= gli avrebbe assicurato i benefici della paternità "legale") credendolo suo anche biologicamente, e supponendo che la defunta, morta invocando il nome del giovane amante e padre del bambino, fosse invece morta invocando il bambino per nome.
E' difficile pensare ad un concentrato maggiore di violenza: violenza verso il padre vero che deve rassicurarsi di questa situazione, violenza verso il padre putativo, violenza verso il bambino ed altri familiari, tutti maschi (e maschio è il giovanissimo autore): a noi, che siamo stati educati nell'evo precedente e stiamo vivendo la transizione, può però riuscire anche più difficile individuare queste violenze che facevano parte di quella cultura e di quell'equilibrio familiare e sociale. In effetti, a quel tempo la fattispecie violenta di storie come questa non solo non era neppure ipotizzabile, ma sarebbe stata considerata un'assurdità.
Va notato che il protagonista finisce per disinteressarsi per l'educazione di suo figlio, che non ha più neppure la madre: quello è ormai borghesemente "sistemato" con un padre che lo crede suo, e tanto basta. Avviene esattamente come in famiglie borghesi compiute, nel caso di un figlio laureato e piazzato in un buon posto di lavoro senza vocazione alcuna, od in quello di una figlia sposata ad un "buon partito" senza alcun sentimento e fin alcuna compatibilità, secondo le riflessioni di Demolins 73: a quel punto, l'educazione avrebbe esaurito ogni sua funzione, e la vita umana sarebbe compiuta. Matrimonio, lavoro, figli, casa e quant'altro, visti non come momenti di un'evoluzione umanamente senza fine, e semmai come inizio di problemi di livello enormemente superiore; ma come "lieto fine", happy End, quasi si ipostatizzassero in una telenovela, od in una fiaba... "e vissero sempre felici e contenti".
 

Caratteri del genere femminile culturalmente e storicamente individuati: contributi dalla polemologia...

L'essere ed agire "rosa" si informa a certe scelte di metodo, anche a certe tendenze di fondo, che si identificano con le rispettive polarità le quali vanno ad integrare l'immagine che l'uomo si è fatto della donna, e che le donne si sono conservate tra di loro, nei due o tre secoli dell'evo borghese. Quest'ultima è la donna che, come noto, si può dire anche "vittoriana", con qualche approssimazione.
Si tratta della persona umana che elabora più di istinto ed emotività, più di intuizione sensibile che di ragione di pensiero e di qualità intellettuali, più d'ésprit de finesse che d'ésprit géometric 74; che privilegia alla consumazione dei combattimenti il continuo sforzo di riequilibrio, di assorbimento, di sopimento 75, il prendere su e dentro di sé i problemi, in modo tale che la soluzione "passi attraverso" di sé, attraverso la persona stessa. Viene classificato come "femminile", ed è stato coltivato dalle donne, l'interiorizzazione dei problemi e dei conflitti, pagando il prezzo di un'interiorità ridotta ad un campo di battaglia pur di restituire la pace all'esterno; il rifiuto di strategie di attacco frontale e violento, le quali hanno l'obiettivo essenzialmente penetrante, di presa in possesso, di marchiatura (un "lasciar il segno") sul vinto, per scegliere una strategia fatta di avvolgimento, arretramento, assorbimento; il preferire il controllo al possesso, l'essere controllore piuttosto che avere ciò che poi andrebbe controllato ("essere" in luogo di "avere" nel senso di Fromm 76); il far prevalere in ogni situazione sempre e comunque il supremo interesse dell'equilibrio (o del riequilibrio) dell'ambiente nel quale il problema è sorto; il privilegiare la conservazione alla distruzione, la raccolta alla dispersione, la rielaborazione creativa piuttosto che l'intervento parziale con disinteresse successivo; i tempi lunghi ma umanamente pieni in luogo di quelli cortissimi seppur di intensità corrispondentemente alta; l'inclinarsi sempre verso il dialogo aperto piuttosto che verso quell'assertività apodittica e violenta che chiude le discussioni in luogo di aprirle; e via elencando, per linee note che ciascuno può integrare in punto di cultura e in punto d'esperienza. E c'è dell'altro ancora.
In definitiva, è abbastanza facile riepilogare tutto quanto può rientrare nel concetto di "femminilità ad accezione ampia", la quale si chiarisce per complemento al concetto della mascolinità come "attiva in senso stretto" (o, meglio, in senso culturalmente "ristretto").
Il maschio "vittoriano", cioè nel suo ruolo culturale borghese, punta all'offensività violenta, possessiva, sbrigativa, anche distruttiva, che vada a scapito dell'oggetto del possesso, e ad una propria immediata, pronta ed intensissima soddisfazione; soddisfazione, fra l'altro, di brevissima durata. E' chiara la metafora nel rapporto sessuale, soprattutto in un modo di intendere il rapporto sessuale; la cosa ha interesse specifico oltreché generale per noi, se si tiene conto di quanto problematica sia sempre stata, e ancor più lo sua oggi, una visione del genere dell'esercizio della sessualità fisica 77.
Che la difensiva faccia parte della strategia militare, arte per secoli maschile, offre già molto su cui riflettere 78. Il grande polemologo Karl von Clausewitz (1780-1831) vi dedica ampie parti del suo Vom Kriege 79. Di particolare rilievo è il concetto, più volte ripreso, di "Ritirata all'interno del paese" 80, dei vantaggi militari e politici del combattere entro il proprio territorio, nel cuore dello stato e sulla difensiva 81, seppure con i sacrifici intuibili che ciò ovviamente comporta. Era la strategia indicata, non impropriamente e non a caso, a chi degli antagonisti è più debole quanto a forza dirompente; andrebbe aggiunto che egli deve essere, reciprocamente, più maturo come totalità. Clausewitz aveva ben presente l'esempio della sconfitta di Napoleone in Russia, avendovi combattuto come volontario zarista e poi avendo partecipato alla di lui caduta fino alla presa di Parigi; ma non certo di meno aveva presente la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) che Federico II di Hohenzollern (il Grande) alla fine vinse nonostante le gravi sconfitte tattiche grazie ad una strategia di questo tipo portata avanti fino all'esaurimento della spinta degli aggressori, cioè al ritiro dello zar Pietro III. L'arte della guerra comprende sia strategie di penetrazione e possesso rapidi (come il Blitzkrieg) e violenti, sia anche e non secondariamente né subordinatamente strategie di ritirata interna con grande sacrifico e distruzione per sé, ma vittoria a tempi non brevi. Questo secondo non costituisce quindi un comportamento etichettabile come "femminile", più di quanto il precedente non lo sia come "maschile", se non per metafora: ed erano entrambi comportamenti polemologicamente efficaci 82. Quest'ultimo, lo era e lo è: si pensi all'altra difesa della Russia, o meglio dell'URSS, davanti all'Operazione Barbarossa del III Reich, che fu vinta in quel "cuore dello stato" che era nelle città di Mosca e (allora così chiamate) Stalingrado e Leningrado; si pensi al Vietnam, e più di recente alla Bosnia. Contro-esempi, la guerra del III Reich interamente divergente, dirompente ed esterna fino all'ultimissimo periodo (il più grave e drammatico, quanto militarmente e politicamente inutile), la condotta militare divergente ed estrema del Duca d'Aosta nell'ultima guerra in A.O.I. (Africa Orientale Italiana, della quale il Duca era viceré), e la condotta analogamente divergente dei Serbi (Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic) contro i Croati (Franjo Tudjiman) e i Bosniaci (Alija Itzebegovic). Sono esempi di condotte umanamente equilibrate, e non "femminili", e contro-esempi di condotte le quali, oltre ad essere sinnlos e perdenti, pretendevano anche quella mascolinità che non possiedono se non in una metafora riuscita male e capita peggio. Tutte erano guerre di conquista; non erano pacifisti né meno inclinati ad arricchire il proprio stato né i Romanov né gli Hohenzollern, né Ho Chi Min né i bosniaci (od i croati). Solo, le seconde condotte di guerra di attacco divergente, frontale, senza margine di manovra, di avanzamento incondizionato e miranti al possesso assoluto e distruttivo erano informate ad un'idea di conquista idealisticamente dovuta, scontata, scritta nella pretesa ed asserita superiorità del conquistatante, con evidenti analogie ideologiche (e non biologiche) con il ruolo maschile nella famiglia e nella coppia borghese.
Si tratta, propriamente di un Männerkrieg, corrispondente (con Clausewitz) ad una guerra intesa come "non (...) solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi" 83, riferita cioè ad un Männerstaat molto particolare: non della politica dello stato moderno, assoluto, ma di quella dello stato dell'evo successivo, appunto dello stato borghese. Ciò è a dire, dello stato entro la cui cultura quei particolari caratteri e quei particolari comportamenti sono stati etichettati come maschili, e quegli altri come femminili.
Reciprocamente, si rifletta sull'evidenza che sulla vittoria dei croato-bosniaci della recente guerra di Bosnia si appuntano come emblema e come significante molto più le donne dell'assediata Sarajevo, esempi di dignità e resistenza nel mantenere a tutti i costi un impossibile equilibrio ed una padronanza di sé tremendamente ardua a fronte di attacchi penetranti (e da lontano, appendici quasi esterne ad un corpo non coinvolto altrettanto), numi tutelari della vita che continua contro la morte incombente, più che non le truppe croate e bosniache stesse, pur valorosissime e alla fine vincenti sul campo.
Semmai, si può considerare che quella, "femminile", è proprio la strategia che non è mai stata impiegata da Napoleone, vale a dire dalla punta di diamante bellica della massima rivoluzione borghese, ed invece essa era canonicamente indicabile per lo stato pre-borghese tipico ("moderno" in senso proprio, cioè assoluto), come la Prussia degli Hohenzollern o la Russia dei Romanov, appunto.
 

... e l'ampiezza del discorso. Che cosa è maschile, e che cosa femminile?

Quanto alle donne in guerra, stride il contrasto tra le donne di Sarajevo e, più recentemente, le donne di Kabul, già eroine di una città assediata più o meno come a Sarajevo, e dopo la vittoria dei Taliban segregate, costrette al burqa, precluse al lavoro, allo studio e ad ogni forma di vita di relazione che non sia entro le mura domestiche. In questi due esempi non cambia il sesso, e nemmeno la religione: cambia la cultura, in particolare sia la Kulturgesellschaft sia la Kulturgemeinschaft (l'un termine accentua l'aspetto di associazione, e l'altro di comunanza).
E' altresì un fatto culturale che al maschio del genere umano si attribuisca un ruolo attivo, proiettivo-progettuale, razionale, esterno ed esternante, dall'energia esplosiva e di breve durata, forte, di imposizione della propria vita sulle altre, e via dicendo; e alla femmina un ruolo passivo, interiorizzante, assuntore-recettore, emotivo, sensibile, dall'energia lenta e a lungo termine, resistente, e la disponibilità al sacrificio personale e fin al rischio della propria vita per affermarne altre. Rimane controverso a chi spetti la volubilità e a chi la costanza, a chi la decisionalità e a chi l'incertezza: ciò in quanto sulle donne erano proiettate entrambe. Vi erano le donne "sennate", costanti a qualunque prezzo, con un indiscutibile progetto di vita già scritto e inciso indelebilmente; e vi erano le donne "di vita" sempre e comunque volubili, e pure latrici di un progetto di vita altrettanto decisamente perseguito. In certi contesti, "la mascolinità significava intensità di sentimenti e serietà, mentre la femminilità era espressione di superficialità e spesso di frivolezza" 84; in altri, più centrati sul costume e l'educazione che non su una "natura" dei generi presunta e peraltro asserita, si insiste sulla necessità di saldezza della donna quanto a rapporti con l'altro sesso (saldezza in positivo verso un uomo, e saldezza analoga in negativo verso chiunque altro, qualunque cosa accada, e comunque si comportino l'uno e gli altri), mentre questo non si richiede all'uomo che sarebbe invece "naturalmente" precario ("si sa, sono uomini") e socio-culturalmente portatore di una mai giustificata licenza ("l'uomo può, la donna non deve").
Altrettanto controversa come attribuzione di genere è la tendenza a spostare sul lavoro la soluzione dei problemi interiori, in modo di interiorizzare ogni pena anziché combattere fuori: era predicato nell'educazione della donna otto-novecentesca, specie quanto a lavori domestici e "donneschi", ma era altresì un segno di controllo e rispettabilità borghesi nel maschio.
D'altra parte, al maschio si attribuisce iniziativa e attività che può esser costruttiva come distruttiva, con i due termini che in certe ideologie guerrafondaie si possono identificare, fin a quella che Fromm ha chiamato "necrofilia" non riferendosi alla nota perversione sessuale bensì ad una personalità patologica 85. Alla femmina si attribuiscono per passaggio al complementare passività e remissività; quest'ultima qualità può essere conservazione di vita ("biofilia" in Fromm) come pensiero "in negativo", decadenza, fatalistico abbandono al destino (alla "destinazione", prima dell'evo borghese), laissez-faire che non è libertà (come, d'altra parte, non lo è l'arbitrio). Non è difficile comprendere che si tratti di un complesso di giochi di ruolo ritualizzato: basta pensarci e non appoggiarsi al pregiudizio rassicurante, allo slogan vuoto che però esime dall'onere, dal "sacrificio", di pensare.
Probabilmente, non va emblematizzata oltremodo la figura di Otto Weininger (1880-1903), con i suoi concetti assoluti di polarità maschili e femminili delle quali gli sfuggivano (non foss'altro) la storicità e la relatività culturale, e le sue prospettive di fondarvi una nuova spiritualità. Questi, pure, incarna l'idea metafisica estrema delle polarità "naturali" del genere, un'idea contraddittoria con le matrici prossime positivistiche dello stesso Weininger, e richiamante anch'essa analogie forti tra la sessualità e il razzismo. L'attenzione va piuttosto alle sue matrici platoniche, più remote, alle quali però egli si richiamava direttamente, e che sono in forte corrispondenza con il giustificazionismo che Platone stesso offriva all'aristocrazia, alla dittatura e al razzismo come fondati anch'essi "naturalmente".
I "ruoli di genere" dell'evo borghese erano già ben sistematizzati nella psicanalisi tardo-ottocentesca; peraltro, ne erano chiare la contestualizzazione socio-culturale e la contestualizzazione storico-epocale. E' da manuale al riguardo il richiamo a Karl Gustav Jung (1875-1961), fondatore della Psicologia Analitica, come quello operato da Fabrizia Antinori: "Secondo la terminologia Junghiana, l'uomo, questo <<solitario sociale>>, è anche originariamente androgino, contiene in sé uomo e donna, non in competizione, ma tesi verso un equilibrio che dona serenità. La personalità umana pienamente realizzata non può essere che <<maschile-femminile>>, Animus-Anima. Se l'Animus, maschile, progetta, si preoccupa, realizza, l'Anima, femminile, riposa in una profonda tranquillità." 86
Anche Erich Fromm è su posizioni raffrontabili. Ci si riferisce, ad esempio, ai suoi discorsi sull'amore materno e paterno: "L'amore materno è incondizionato, protettivo, illimitato; poiché è incondizionato, non può essere controllato o conquistato. La sua presenza dà alla persona un senso di benessere; la sua assenza suscita un senso di disperazione e di squallore. (...) La caratteristica dell'amore paterno è che il padre fa delle richieste, stabilisce principi e leggi, e che il suo amore per il figlio dipende dall'obbedienza di quest'ultimo alle sue richieste. Egli ama di più il figlio che più gli rassomiglia, che è più obbediente e il più adatto a diventare il suo successore" 87. Con la differenza essenziale però che si tratta, in tutta evidenza e come lo stesso Fromm scrive in più parti, di metafore nelle quali il sesso biologico non c'entra, e non c'entrano neppure le madri ed i padri realmente esistenti nella storia e nella cultura: l'"amore materno" (incondizionato, per chi ne ha bisogno vitale) differenziato dall'"amore paterno" (condizionato, d'elezione) si riferiscono ad immagini culturali dei sessi. Possono le madri biologiche e fisiche (anche quelle non biologiche) amare d'amore maschile e altamente selettivo nel senso di cui dianzi, e questo succedeva spesso anche nell'evo in uscita. Possono amare i figli d'amore frommianamente "femminile" anche i padri, biologici e non.
Già Freud aveva chiara la bisessualità (culturale) di ciascuno di noi, e che la fenomenologia osservata era costituita da comportamenti maschili e femminili, più che non da "uomini" e "donne" in astratto.
Semmai, vi sono proiezioni forti delle immagini dei due coniugi-genitori nella famiglia nucleare. Già per Stuart Mill "la biologia non può costituire la verità ultima del rapporto tra i sessi; le donne odierne sono il prodotto dell'educazione, educazione di conseguenza modificabile" 88; né si tratterebbe dell'unico grande studioso citabile. Commenta Rosalba Spagnoletti, egli teorizzò "Negando, sulla base di un positivismo scettico di stampo humiano, la pretesa di certe affermazioni ad essere vere solo perché generali e universali (...) demistificando quella immagine della femminilità che la tradizione patriarcale giudaico-cristiana spacciava per naturale e che era così radicata nella mentalità e nella cultura occidentale da essere presente anche in pensatori come Rousseau, Hegel, Prudhon e Freud." 89
Fromm, peraltro, critica Freud un po' su tutta la linea. In particolare, ne considera le teorie "parzialmente influenzate dallo spirito del diciannovesimo secolo", pur essendo in "reazione con i rigidi costumi dell'età vittoriana" in quanto "inquadrato nella struttura del capitalismo. Per provare che il capitalismo corrispondeva ai bisogni naturali dell'uomo bisognava dimostrare che l'uomo era per sua natura pieno di ostilità e di rivalità per il prossimo". E si noti: "Mentre gli economisti <<dimostravano>> questo concetto nei termini dell'insaziabile brama di guadagni economici, e i darwinisti nei termini della legge biologica della sopravvivenza del più idoneo, Freud raggiunse lo stesso risultato attraverso il concetto che l'uomo è guidato da un illimitato desiderio sessuale di tutte le donne, e che solo la pressione della società gli impedisce di agire secondo i suoi desideri" 90. In definitiva, "la concezione dell'uomo di Freud non trascese mai quella della borghesia del diciannovesimo secolo" 91. Ed ancora, la già criticata "assunzione del naturale diritto dell'uomo a controllare la vita della moglie faceva parte delle idee di Freud sulla superiorità del maschio. Un tipico esempio di questo atteggiamento è la sua critica a John Stuart Mill" 92. Freud, in effetti, pur apprezzando Mill, giudicava assurde e perfino disumane le idee di questi sull'emancipazione della donna e sulla donna più in generale; come lo stesso Fromm riporta da una lettera di Freud alla fidanzata poi moglie Marthe: "questo è il punto nel quale Mill non si dimostra umano... Quello di spingere le donne nella lotta per l'esistenza esattamente come gli uomini, è proprio un'idea abortiva." 93
Oggi ci riesce immediato cogliere quanto evidentemente non parve altrettanto visibile a quel tempo (sino al 1939, quindi non molti decenni or sono), che il discorso era gender-oriented: non si capirebbe come mai il transfer biologico-evoluzionistico-darwiniano riguardasse solo un sesso, dato che la società esercitava una "pressione" di impedimento molto più forte sui suoi componenti dell'altro sesso, quello femminile. Ed è da notarsi che il padre dell'evoluzionismo attuale Charles Darwin (1809-1882) non aveva inserito nella sua teorizzazione evoluzionistica nessun riferimento al sesso; come, del resto, non l'aveva fatto neppure l'altro grande positivista britannico con Mill, Herbert Spencer (1820-1903). Sia allora che più di recente, tentativi di spiegare evoluzionisticamente alcune caratteristiche della sessualità femminile più rilevanti nell'evo borghese, come l'esistenza dell'imene o la frigidità allora diffusa, sono falliti.
In effetti, Fromm muove questa critica a Freud antivedendo l'evo successivo a quello del quale lo stesso Freud era stato uno dei massimi teoreti, pur se nei vittoriani poteva anche suscitare quel forte scandalo che, di fatto, suscitò. Nel suo pensiero Fromm vede chiare anche le basi per quegli asserti della teoria marxiana del Materialismo storico che lo superano, nel senso che "non il corpo, né l'istinto in quanto bisogno di cibo o di possesso, sono la chiave per risolvere il problema umano, ma il processo di tutta la vita dell'uomo, la sua <<pratica di vita>>" 94. E' proprio un pedagogista di dichiarata ideologia marxiana come Schmiedt-Kowarzik a controproporre, citando proprio Die deutsche Ideologie, il fatto che sono "gli esseri umani che fanno quotidianamente in modo nuovo la propria vita, iniziano a fare altri esseri umani, a generarsi - il rapporto tra uomo e donna, genitori e figli, la famiglia,", dopo aver ricordato che "tutta la storia del mondo non è altro che il prodotto dell'uomo attraverso il lavoro umano: non è altro che il divenire naturale dell'uomo." 95
Del resto i richiami alla "natura", sia ai "bisogni naturali" che alle teorie evoluzionistiche di Charles Darwin (teorie che sono e rimangono scientifico-naturalistiche), mettono fuori gioco ogni estrapolazione arbitraria, immediata, meccanica al culturale 96. Che poi esista un "divenire naturale dell'uomo" è affermazione pesantemente arbitraria, sinnlos a meno che il relativo Sinn non sia estremamente debole e generico.
Un esempio ulteriore di fenomeno culturale con attribuzione sessuata sul biologico può esserci dato dalla storia di un equivoco colossale riconosciuto dalla medicina clinica solo di recente dopo millenni. Riguarda l'isteria, e per questo rimandiamo a quanto potremo accennarvi nella Parte II. Tale sindrome sta perdendo la sua etimologia sessuata anche nel nome (ora "dissociativa" o "di conversione", ad esempio), e fu considerata sessuata dai tempi di Ippocrate (460-377 a.C. circa). Ma l'utero non c'entra: e si pensi che "la prima fotografia di uomo affetto da questo strano male risale al 1888" 97.
A lungo, questa sindrome nevrotica ha preso l'uomo maschio solo marginalmente perché la cultura nella quale erano immersi entrambi i sessi portava più la femmina che non il maschio a quel tipo di possibili sintomatologie (e il maschio a tipi diversi). Al giorno d'oggi, invece, la manifestazione di una sintomatologia isterica diviene meno eccezionale presso i maschi, in relazione ad una vita odierna repressa, compressa, sacrificata, senza rispetto umano, vissuta come una costrizione: tanto, che si tende a non chiamarla più così 98.
La preoccupazione di cambiare il nome alla malattia in considerazione del malinteso che vi era in origine circa la sua eziologia è comprensibile; vi sono anche problemi di political Correctness, e anche questi il pedagogista deve comprenderli. Ciò precisato, rimane il fatto che, per noi, l'etimo non ha mai alcunché da limitare o da pregiudicare circa le accezioni dei termini in gioco: possiamo benissimo chiamare "isteria" una malattia nella quale siamo certi che l'utero non c'entra, così come possiamo chiamare "Pedagogia" un campo d'esercizio umano nel quale i bambini o fanciulli non entrano più di quanto non entrino gli adulti o gli anziani, od ancora può parlare di "Psicologia" anche chi non creda nell'esistenza dell'anima (psyché in greco significa anima), o di matematica chi sia autodidatta (mathetés in greco è l'allievo). L'etimo aiuta a comprendere l'origine storica, e qualcosa degli sviluppi; ma non ha funzioni normative, o preclusive 99.
Ma per tornare all'intervento d'aiuto, anche in questo caso, molto avrebbero da chiedere e da imparare i maschi proprio dalle femmine, cioè da chi per secoli e millenni ha conosciuto quella malattia coltivandone la cultura e le tecniche di sopravvivenza cioè alle donne, e soprattutto ricavandone strumenti concettuali ed operativi per una cultura della salute.
Venendo infine ad un ultimo esempio biologico che si porta spesso per validare ideologie sessuate: l'eventuale diversa lateralizzazione cerebrale, ove provata, e ricordato che si tratta di un asserto scientifico quindi fallibile, non porta altro contributo al discorso che non qualcosa che riguardi la diversa storia biologico-evolutiva in seguito alla differente collocazione dettata dalla cultura. Metodologicamente è come voler riconnettere la maggiore quantità di melatonina nella pelle con l'attitudine migliore a certe imprese sportive o a certe performance musicali: l'unica inferenza che appare ragionevole è che quelle stesse condizioni ambientali che hanno selezionato per evoluzione biologica quel carattere premiale (protettivo dal sole), per sé stesso assai marginale, hanno fatto maturare negli abitanti una cultura della prestazione fisica che non ha trovato altrove analoghe condizioni per maturare. I neri, insomma, non sono grandi atleti (o pugili, ad esempio) perché neri: possono semmai aver maturato al loro interno attitudini superiori in questi ed in altri campi per lo stesso complesso di motivi per il quale hanno consolidato il nascere con la pelle nera.
Le donne non hanno minori possibilità in qualche campo perché meno lateralizzate: caso mai, possono essere meno lateralizzate perché hanno avuto meno possibilità di applicazione in certi campi: ancora una volta, è un fatto culturale che detta la sua prevalenza sul biologico.
E' questa prevalenza che ci consente di educare, cioè di agire al culturale. Agissimo sul biologico, ci occuperemmo di tutt'altro: di osservazione, innanzitutto; poi, di Imprinting, di assestamento, di allestimento d'ambiente di vita biologica, di mangime, di vivaistica, di raccolta dei risultati e dei prodotti, e via elencando. Faremmo gli zootecnici, non i pedagogisti,
 

Il pedagogico: caratteri culturalmente e storicamente individuati come di genere

In tutti questi casi, e negli altri innumerevoli che si potrebbero portare ad esempio, non si tratta quindi di un agire "sessuato" in senso biologico, anche se vi sono delle analogie biologiche evidenti: queste analogie, queste metafore, aiutano certo a comprendere i fatti e i fenomeni, ma solo quando e a condizione che non vengano confuse con le relative cause, ipotesi questa nella quale l'incomprensione diverrebbe (diviene) totale. A parte che il culturale è fattualmente prevalente sul biologico, il voler anteporre il biologico al culturale, il "naturale" al "fatto dall'uomo", ideologicamente in qualsiasi modo significa veramente anteporre nella specie umana ciò che la caratterizza come un animale tra gli altri alle sua prerogative esclusive e più forti. E' difficile assai essere cattolici, o idealisti, o liberali di qualche forma, o socialisti o liberal, o marxisti nelle forme attualmente residue, con una simile premessa di fondo. Comunque, sembrerebbe proprio impossibile essere pedagogisti.
Va molto più sul pedagogico, ancora una volta, Gamm quando premette "Pedagogicamente c'è invece da dire che la capacità di tener testa ai conflitti, di disputare e di vivere con le differenze conta tra le abilità meno sviluppate. Questo è dovuto all'immagine falsa che si ha dell'amore. L'amore suggerisce una fusione tale di due persone in cui, di lì in avanti, regnerebbe costantemente l'armonia. Si può contrariamente a ciò constatare che solamente personalità forti sono capaci di amarsi reciprocamente, non esigono soggezione l'uno all'altro o gesti di remissività di altro genere, ma lavorano assieme l'uno con l'altro" 100. Ci sono molti dei concetti frommiani riguardo l'"amore erotico" 101 o circa "L'amore e la sua disintegrazione nella società occidentale contemporanea" 102: ma è da notare come anche in questo caso non ci siano considerazioni articolate per genere.
Questo, tuttavia, non lo esime dall'osservare (anche attraverso riflessioni circa la paternità biologica, la contraccezione, l'interruzione di gravidanza) che ancora "si nascondono fantasie totalmente non rimosse sulla procreazione e sulla potenza che non sono però conciliabili con la categoria della responsabilità sociale, né sono collocabili in alcun orizzonte educativo. (...) gli uomini (...) si sono appropriati, fin dalla rivoluzione neolitica, del diritto del signore sulle donne e che le donne sono rimaste sempre ancora esseri di tipo inferiore, un genere di oggetti di concepimento" 103. Ne consegue ragionevolmente che "Se entrambi i sessi hanno bisogno di un'educazione più approfondita per comprendere la situazione globale e di conseguenza anche la loro, gli uomini necessitano, sotto il profilo storico, di un rafforzato dispendio pedagogico. Molti di loro permangono in uno stato puro e semplice di diseducazione; esigono, infatti, l'attività sessuale come un loro diritto, ma non dispongono di un sensorio altrettanto sviluppato nei confronti della vita nuova che sorge." 104
Ad ogni modo, il genere inteso come la particolarità sessuale strettamente fisica non c'entra, si tratta di portati culturali. Semmai, va notato che il nesso tra l'atto sessuale umano e la generazione non è poi di così immediata instaurazione presso popoli primitivi: troppo lontano nel tempo, troppo diverso nelle fenomenologie avvertibili.
Là, poi, dove la corrispondenza con il biologico vi fosse e fosse non casuale, essa è evidentemente frutto di un'ispirazione che al culturale giunge dal biologico, di una suggestione metaforizzata che la cultura ha ricavato dalla natura. Un po' come l'invenzione del radar rispetto alla conoscenza dell'orientamento dei chirotteri; o la mutuazione dai branchi di lupi di certe tattiche militari, o dai gatti selvaggi di certe azioni sindacali: indubbiamente estranee (le une e le altre) al mondo animale e naturale in genere.
Un ulteriore esempio può consolidare il convincimento al riguardo: pensiamo ad una modalità d'azione, che è poi anche una strategia esistenziale e parte di obbiettivi educativi come quella così formulata: "saper reggere l'urto primo ed immediato, a costo di sacrificio proprio, per poi vincere la battaglia più a lungo tenuta". Questa stessa, nel medesimo significato, ci può apparire una importante norma polemologica, quindi che considereremmo culturalmente "maschile", oppure una indicazione per la donna nel rapporto di coppia otto-novecentesco, che peraltro si impartisce anche in altre culture 105; oppure una prescrizione di strategia produttiva aziendale, e commerciale, che sarebbe poi interessante particolarizzare "al maschile" o "al femminile".
Anche quando parliamo di capacità di interiorizzare e risolvere al proprio interno conflitti e problematiche per restituire all'esterno proposte di soluzione e di costruzione, parliamo di prerogative femminili per via di storia, per via di cultura. Certo, anche qui la metafora anatomica e fisiologica può aiutare: la donna che ha i propri organi sessuali profondamente all'interno, e l'uomo all'esterno come appendici; la donna che risolve l'esercizio sessuale al suo interno, con le eventuali emissioni aventi funzione interna a sé, e l'uomo nella necessaria eiaculazione all'esterno di sé. E', si argomentava 106, un modo particolare di vedere la sessualità, come funzione esclusivamente riproduttiva della donna, per la quale l'orgasmo femminile non si riesce a vederlo più che come "un dono gratuito della natura", e un elemento di soddisfazione del maschio e di equilibrio della coppia (attraverso una privazione aprioristica e culturalmente giustificata che è sempre e comunque violenza, come la si considera oggi), il quale a sua volta accondiscende alla mansione riproduttiva in quanto accattivato da una pretesa sagacitas naturae a senso unico. La biologia richiede sessualità da entrambi; e il coinvolgimento orgasmico del solo uomo che si traduce di necessità nella penetrazione è un fatto puramente culturale, e per tale va visto e studiato. In biologia pura ne mancherebbe l'altra ragione, quella della Partner.
Fromm rimproverava a Freud la sua teoria secondo la quale "la libido ha una natura maschile, senza nemmeno considerare che ci sia una libido anche nella donna." 107
Se si capisce tutto ciò, si capisce anche come quel modo di vedere e d'affrontare problemi e conflitti sia "femminile" solo in senso culturale, come (esattamente come) il porre e l'affrontare problemi e difficoltà "all'esterno", con prospettiva distruttiva ed espulsiva, sbrigativa e noncurante, diretta e lacerante, sarebbe "maschile". Molti uomini sono capaci del primo come molte donne ne sono incapaci, e analogamente passando al complementare: se chiediamo alle donne di aiutarci in questo è esattamente perché per secoli esse sono state a questo educate, e lo hanno sviluppato come cultura; mentre noi uomini, che si sarebbero voluti educare "meglio", ne siamo stati privati. Semplicemente.
Vale lo stesso per l'esercizio della creatività. L'uomo non è culturalmente meno creativo della donna, così come (del resto) in biologia entrambi i sessi mettono la metà dei cromosomi e tutta la biologia della quale sono dotati. L'idea di una creatività tipicamente "femminile" fa semmai pensare ad una sessualità e a una gravidanza che siano oggetto di cura esclusivamente femminile e oggetto di disinteresse per il maschio: cioè (nuovamente) un fatto culturale e non biologico; e, aggiungiamo, un ulteriore fatto esemplificativo di violenza.
Anche in questo caso, un viraggio culturale si ebbe verso la fine del '700. Ancora Randolph Trumbach ce ne riferisce, in un contesto più ampio che riguarda il concepimento e la contraccezione, la gravidanza e tutte le leggende su di essa (astinenza sessuale, voglie, caratteri patologici...): segno ne fu l'avvicendarsi dei medici (maschi) alle levatrici, che si radicò saldamente nelle classi che potevano permetterselo 108. Sostanzialmente: "Negli anni 1770 molte cose cambiarono" e, in definitiva, "Il mettere al mondo dei figli non era più una malattia, ma una funzione naturale, per la quale anche gli uomini potevano avere un interesse legittimo." 109.
Ma era un discorso generale, che investiva altri aspetti della vita familiare, ad esempio (per quel che più ci interessa) l'educazione: "Dopo il 1750 i padri aristocratici, sotto l'influenza dell'ideali di intimità domestica, cominciarono a fornire ai figli genitori-sostituti, sia ristrutturando le grandi public schools, sia mandandoli in piccole scuole private." 110.
Sarebbe un errore pensare che questa istruzione derivasse essenzialmente dalle maggiori esigenze di cultura nella società (qui si trattava di cultura generale, non di formazione professionale; di imparare il latino, non l'agraria); deve essere oggetto di riflessione pedagogica il nesso, evidente, tra l'allontanamento dei figli dal padre nella famiglia borghese, messo sullo sfondo come mito o "spauracchio" almeno fino ad una certa età dei figli, e i nuovi ruoli coniugali. Il fatto è che, con una coppia nella famiglia strutturata sull'intimità e sull'"amore" o preteso tale, oltreché con il nuovo impegno nella società del padre-capofamiglia, egli ha un bisogno maggiore della moglie, della "sua donna", il che richiede che i figli non interferiscano troppo in questo rapporto di "intimità domestica". Rispetto alla famiglia nobiliare che ha locali in abbondanza, e rispetto alla famiglia patriarcale contadina e pastorale nella quale tutti dormono nello stesso giaciglio dove i genitori consumano il loro rapporto sessuale senza alcuna intimità e con altre conseguenze, nella famiglia borghese gli spazi sono ristrettissimi, e il maschio ha bisogno della sua intimità con la moglie; ed ecco allora tutti quei comportamenti tendenti a creare le condizioni del rapporto intimo nascosto, dal mandare i figli a dormire quando non vogliono (di pomeriggio o a prima sera), alla pretesa di aiutare il marito nel cambiarsi, al mandarli fuori quando vorrebbero stare dentro casa, salvo il richiamarli con altrettanta convinzione quando non è più necessario che stiano fuori. E tutto un discorso andrebbe fatto, al riguardo, circa l'atteggiamento che i figli ne maturano circa il sesso, a volte di perversa curiosità, altre volte di totale estraneità (tanto, poi si sposeranno e al sesso ci arriveranno). Si veda, più avanti, la citazione da un'altra opera fondamentale di Erich Fromm su "Il bambino <<non deve sapere>>" 111
Sono comportamenti, questi di assicurazione al marito-Partner di quell'intimità di cui lui ha bisogno, facenti parte del repertorio ordinario della "buona moglie".
Come, d'altronde, la moglie aveva modo di servirsi di tale debolezza del rapporto per rifiutare l'uomo, ad esempio portandosi i bambini piccoli nel letto, oppure tenendo aperte le porte, o sincronizzando gli orari di sonno; o, già quando sono troppo piccoli per "capire", fissando le poppate proprio all'ora tale da inibire il marito, oppure condizionandone la consumazione ai pianti del bambino, e via elencando. Ma qui siamo già alla parte operativa, si capisce che la distinzione è puramente espositiva, e non sussiste nel pratico esercizio della professione pedagogica.
Tornando all'aspetto dell'istruzione, anche Gamm contestualizza il fenomeno, dimostrando ancora una volta il ruolo della riflessione pedagogica: "nella società borghese continuerà a sussistere l'educazione privata." 112 intesa, è chiaro, come "non pubblica" (non sta parlando di educazione "domestica"...).

Siamo, insomma, ben al di là (ed altrove) di quel che avvenne ad esempio in Germania alla fin de siècle, quando "La maggior parte del movimento femminista adottò prevalentemente lo stereotipo della femminilità, asserendo che la società aveva bisogno <<delle doti peculiari>> delle donne, e <<di un po' del loro amore>>" 113. In effetti, "l'alleanza tra femministe e puritani", che prevalse largamente e decisamente in quel periodo e dopo, "soffocò ogni occasione di cambiamento negli atteggiamenti tradizionali (...) consentì al movimento di mantenersi entro i confini della rispettabilità" 114.
Ad esempio, noi diciamo che il "think pink" 115 suggerisce di non considerare come l'unica risolutiva l'azione di attacco frontale diretto, violento ed eventualmente distruttivo, cieco e di penetrazione e possesso immediato a qualunque costo (costo per il Target). Diciamo altresì che si deve cominciare anche a pensare in termini di recepimento, di disponibilità di comprensione (in senso reale prima che metaforico), di capacità di coniugare Sein und Sollen, essere e dover-essere, di accerchiamento e via dicendo. Ebbene, per trattare argomenti come questi o come negli innumerevoli di analoghi che si potrebbero portare il rimando all'analogia sessuale è improprio, riduttivo e, soprattutto, fuorviante. L'organo sessuale maschile sa indubbiamente penetrare e non comprendere, quello femminile sa comprendere (nel senso di prehendere cum, "prendere con") e non penetrare; ma la cultura del genere umano ha prodotto ben altro, riducendo queste evidenze biologiche a non più che simboli, che metafore.
La femmina può aggredire e violentare un elemento dell'altro sesso, quanto il maschio: ne cambiano le modalità, la tecnica, ed altresì le condizioni di fattibilità (che comunque devono sussistere in ambo i casi), ma il fatto rimane dello stesso significato moralmente, civilmente e soprattutto personalmente negativo. In questi giorni si parla di madri che violentano i figli maschi, e di maestre che molestano (o peggio) bambini, di donne adulte che seducono pre-adolescenti, e di pedofilia al femminile; è plausibile che fatti del genere siano sempre avvenuti, è invece notevole che oggi li si denunci e li si tratti come concreti, quando fino a non molti anni or sono la sola eventualità generica della violenza sessuale dalla femmina al maschio si sarebbe vista rifiutare ogni approccio serio, ogni credibilità, perfino (e contro ogni realismo) ogni possibilità.
Come emergono gli atti di violazione delle prerogative umane compiti nel chiuso della famiglia nucleare, i "drammi della camera da letto", una violenza la quale aveva una funzionalità e comunque era metabolizzata nell'evo borghese, acquista (con maggior fatica, a dirla come sta) anche una sua praticabilità dialettica la denuncia di ogni possibile forma di violenza "di genere" rivolta dalla femmina al maschio, anche dentro la coppia, anche dentro la famiglia. Esistono anche forme di "violenze reciproche", sia nell'atto sessuale nel quale ciascuno dei due amanti segue propri pensieri, proprie fantasie e, talvolta, anche proprie azioni indipendentemente dall'altro, sia in altre relazionalità all'interno della coppia e della famiglia, nelle quali ciascuno "va per conto suo", indipendentemente dall'altro ed incurante ciascuno della maggiore o minore soddisfazione, della funzionalità positiva o negativa, di ciò che egli va facendo sull'altro.
E, come il concetto di violenza si estende (anche rispetto a quanto abbiamo fatto sinora) a comprendere l'abbandono, la trascuratezza, la disistima, l'insulto, il disprezzo, la negazione di quegli aspetti di complementarità vitali che ci sono per quanto di rispettivo possesso, si parifica vieppiù la virtualità del fatto negativo: non solo la donna può violentare l'uomo in analogia all'uomo che può violentare la donna; ma anche l'uomo è violentabile dalla donna come lo è la donna dall'uomo
Ci si dovrebbe domandare piuttosto come mai, mentre la violenza del maschio disorientato ed in crisi diventa oggi sempre più frequente oltreché più palese e di gruppo, la violenza femminile verso il maschio non sia poi così praticata e diffusa, pur potendo essere (se del caso) anche più drammatica di quanto non sia sempre stata quella maschile.
Ma di più: ci sono casi nei quali il maschio violentatore esercita la sua violenza fuori della coppia, e considerando quell'esercizio sessuale l'unico di cui è capace, o finisce per ricercarla anche dentro la coppia; oppure, considerandolo profondamente un fatto "sporco" e distruttivo, finisce per non penetrare più la propria partner. Invece, pur registrandosi casi di femmine violente e violentatrici, queste non hanno un comportamento analogo, riescono cioè a vivere meglio che non il maschio un equilibrio tra uno o più rapporti violenti, e un rapporto che violento non è.
Rispondere a questa domanda significa comprendere come vada intesa la nonviolenza nella coppia e nella famiglia oggi. Vale a dire, sinteticamente e programmaticamente, così come le donne della famiglia nucleare egemonizzata dal maschio hanno imparato a praticarla lungo i due o tre secoli di esistenza di quella famiglia come nucleo della società borghese, da prima rivoluzione industriale, "vittoriana": come scriveva Simone de Bouvoir, "Non si nasce donna, lo si diventa".
Oggi, tutto ciò che è stato patrimonio culturale delle donne dell'evo borghese, ed è stato erroneamente attribuito alla "natura" femminile,  possono impararlo tutti: anche le donne che non si trovano in questa situazione; ed anche i maschi, vi si trovino o non.
 

La prevalenza del culturale sul biologico

La donna, per quanto siamo stati tutti portati e indotti ad identificarla quale realtà naturale, è in sostanza una costruzione culturale. Essa non è una costruzione "tradizionale" o storicamente remota senza residui, ma è semmai prevalentemente una costruzione recente.
"Quella" donna, nella sua storia relativamente breve ma molto intesa, problematica, impegnativa, ha maturato enormi capacità concettuali ed operative di agire in senso umanamente positivo, costruttivo, evolutivo, secondo canoni di nonviolenza in situazioni di violenza. Le ha maturate in particolare nel rapporto di coppia e nella famiglia, più che non il maschio che, se mai, li ha maturati altrove. E di quegli strumenti abbiamo bisogno tutti, particolarmente oggi.
La Pedagogia può essere un campo di elaborazione teorica, di prassi, e di applicatività come mediazione tra teoria e prassi, particolarmente indicato per rendere leggibile, fruibile, trasferibile in modo pieno tutto questo complesso di necessità che dalla femmina borghese si auspica si propaghi alla società intera dell'evo nel quale stiamo entrando, a fatica, negli anni correnti.

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Note:

1      La locuzione "Neo-pragmatismo pedagogico" e i primi risultati delle ricerche per la costruzione di questa teoria sono stati da noi proposti nel 1989 (Educazione e scienza, citato; materiali di quell'anno degli IRRSAE Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo, Puglia; Atti del Convegno su "Università e spazio di ricerca" (Padova (23-24-25/10/1989; Alfasessanta, Padova 1991, pag. 255-266). Il discorso nel merito si è sviluppato da allora, e ne sono testimonianza (tra le altre) tutti i maggiori volumi successivi (Educazione 2000, Scienza e pedagogia, Didattica scientifica, Un'introduzione allo studio dell'educazione, nonché in particolare i contributi agli Atti degli ultimi cinque congressi internazionali di Praja a Mare, e le altre opere espresse nello stesso contesto, sopra ricordati.
Peraltro, nel volume II de La pedagogia tedesca contemporanea a cura di M. Borrelli (Pellegrini, Cosenza 1996), Lutz Rössner riferisce (pag. 151) dell'importanza per il suo pensiero pedagogico "del <<neo-pragmatismo sistematico>> e della <<teoria generale dei modelli>> di H. Stachowiak", con un rimando alla collettanea Modelle-Konstruction der Wirklichkeit (Monaco 1983) da questi curata nella quale lo Stesso aveva inserito uno scritto dal titolo, appunto, "Erkenntnisstufen zum Systematischen Neopragmatismus und zur Allgemeinen Modelltheorie". La prima, prematura formulazione del termine si deve a Jean Piaget, ad un suo scritto giovanile verosimilmente inedito (Educazione 2000, pag. 350-351).
Un volume dal titolo provvisorio Per un Neo-pragmatismo pedagogico è in preparazione da tempo, ma richiede molta cura e non si intende esprimerlo prematuramente. Molti elementi in tal senso sono apparsi sulle riviste, in particolare su "Qualeducazione".

2 La pedagogia italiana contemporanea, per i tipi di Pellegrini di Cosenza: volume I (1994, 19952), II (1995) e III (1996).

3      La pedagogia tedesca contemporanea, per le stesse edizioni: volume I e Il (1993) poi ristampati in un nuovo volume I (19952), e volume II (1996); con alcune variazioni, stampati anche in edizione tedesca Deutsche Gegenwartspädagogik (1993-1996, Schneider Verlag Hohengeren, Baltsmannweiler).

4      Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 27 sgg.

5      Educazione 2000, pag. 15-23.

6      Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 30 sgg..

7      Ed. it.: Eclisse della ragione - Critica della ragione strumentale (Einaudi, Torino 1968).

8      In particolare in To have or to be? (1975). Ed. It. Avere o essere? (Mondadori, Milano 1996 rist.).

9     La pedagogia italiana contemporanea, cit., volume II, pag. 182-184 e passim. Qui, egli opera rimandi sono al classico La condizione postmoderna di J.F. Lyotard (Feltrinelli, Milano 1981), e a Die postmoderne Kultur di P. Koslowski (Beck, München 1987), La società trasparente di G. Vattimo (Garzanti, Milano 1989), Sul postmoderno di G. Patella (Studium, Roma 1990).

10     Educazione 2000, "Posizione del problema", pag. 7-25.

11     The Powerty of Historicism (1945). Ed. it.: Miseria dello storicismo (Feltrinelli, Milano 1975 riediz.), pag. 106.

12    Op. cit. "Parte I", pag. 29-176. Da notare che vi si critica la pretesa di considerare l'educazione dell'evo borghese come "educazione tradizionale".

13     Concetti svolti ampiamente, e con un traguardo strettamente pedagogico, in Un'introduzione allo studio dell'educazione, part. pag. 27-76. A questa ed altre opere dello scrivente, quelle citate in nota (1) e quelle che si citeranno, si rimanda per tutti gli sviluppi dottrinali ed applicativi ai quali si potrà, in questa sede, dare solo qualche cenno.

14     Educazione degli adulti (con una presentazione di Duccio Demetrio), Guerini, Milano 1997, pag. 20.

15     The Rise of the Egalitarian Family. Aristocratic Kinship and Domestic Relations in Eighteenth-Century England (Academic Press, New York - San Francisco - London 1978); ed. it. La nascita della famiglia egualitaria - Lignaggio e famiglia nell'aristocrazia del '700 inglese (Il Mulino, Bologna 1982).

16     Ivi, pag. 15.

17     Ibidem, pag. 17.

18     "Considerazioni sull'educazione - Elementi di una teoria dell'educazione" in La pedagogia tedesca contemporanea II volume (a cura di M. Borrelli; Pellegrini, Cosenza 1993), pag. 95.

19     Ibidem, pag. 96-99.

20     "Profilo di una critica storico-materialistica dell'educazione" in op. cit. a cura di M. Borrelli, pag. 189; vi è un rimando agli Ausgewälte pädagogische Schriften di Friedrich Schleiermacher (1859).

21     Citato in Geneviève Fraisse "Dalla destinazione al destino"; in Storia delle donne - L'Ottocento a cura di Geneviève Fraisse e Michelle Perrot (opera in 5 volumi di George Duby e Michelle Perrot; Laterza, Bari 1991), pag. 115.

22     Sessualità e nazionalismo - Mentalità borghese e rispettabilità (Laterza, Bari 1996 n.e.), pag. 186.

23     Ibidem, è una citazione testuale.

24     Ibidem.

25     Avere o essere?, ed. cit., pag. 248.

26     "Educazione e libertà. Note teorico-educative" in op. cit. a cura di Michele Borrelli, pag. 7.

27     "Profilo di una critica storico-materialistica dell'educazione" in op. cit., pag. 210.

28     La critica all'educazione borghese, anche nei suoi caratteri di mistificazione delle eredità del passato e di impiego strumentale di storiografie distorte e di pretese "tradizioni", è stata condotta in Educazione 2000 (Pellegrini, Cosenza 1993), parte I, e in Un'introduzione allo studio dell'educazione.

29     Stéphane Michaud "Idolatrie, rappresentazioni artistiche e letterarie" in Storia delle donne - L'Ottocento , cit., pag. 131.

30     E' il titolo del suo terzo saggio sulle donne (1869; ed. it.: La schiavitù delle donne, Sugarco, Milano 1971; questa reca la traduzione e la prefazione di Anna Maria Mozzoni, ed è ristampa anastatica dell'edizione del 1907 per i tipi Carabba di Lanciano; altre edizioni italiane si sono avute più di recente), fortemente influenzato (ed in parte fondamentale anche concepito) dalla sua compagna e poi moglie Harriet Taylor.

31     Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 37-39: "il pregiudizio sistematico (...); il perbenismo (...); il culto di una forma che prenda il luogo della sostanza (...); una certa comprensibile disposizione all'ipocrisia mascherata da virtù (...); un comportamento (...) "snob" in senso etimologico; la famiglia chiusa ed auto-consistente (...); insieme, la ricerca di un qualche paternalismo pressoché ovunque (...); il restringimento di qualsiasi produttività sostanziale sotto forme ossessivamente ripetute; la cristallizzazione della cultura (...); il rifiuto della creatività (...); il trasformismo (...)." E via elencando.

32     "La repubblica", anno 17, numero 59, mercoledì 11 marzo 1992, pag. 1-4.

33     The open Society and its Enemies (Routledge & Kegan, London 1945). Ed. it.: La società aperta e i suoi nemici (2 voll., Armando, Roma 1973/74), vol. 1 pag. 278. Compongono quello che A. Zimmermann chiamò "l'arsenale di armi dei movimenti autoritari" di origine hegeliana il Nazionalismo, la guerra come ragione di esistenza dello stato, l'a-moralità dello stato, l'eticità della guerra, il mito del Grand'Uomo, l'ideale di vita eroica; e sono solo degli esempi, seppur grandi.

34     To have or to be?, ed. cit., pag. 99.

35     Educazione 2000, pag. 75-114.

36     Ma anche in filosofia non mancano le corrispondenze. Si chiedeva Otto Weininger, all'estremo antifemminismo, se fosse possibile chiedere alla donna di abbandonare la sua schiavitù per diventare infelice...

37     Dal caso (1973) di quelle quattro ragazze svedesi che si sono innamorante dei due rapitori che le avevano tenute prigioniere per sei giorni

38     E' questa la concezione applicativa dell'educazione (tradotta in modo approssimato in pedagogia nera) che prendeva il nome dal titolo di una raccolta di scritti curata da Katharina Rutschky, base importante per il noto Am Anfang war Erziehung (1980; ed. it.: La persecuzione del bambino - Le radici della violenza; Bollati Boringhieri, Torino 1987) di Alice Miller, nota psicanalista dagli spiccati interessi nella materia educativa. Alla base vi è "La convinzione che ogni diritto sia dalla parte dei genitori e che ogni crudeltà - cosciente o inconscia - sia espressione del loro amore rimane radicata così profondamente nell'essere umano perché si fonda sulle introiezioni che avvengono nei primi mesi di vita, ossia nel periodo che precede la separazione dall'oggetto." Op. cit., pag. 16-17 dell'ed. it. I pensatori che vi afferiscono sono poco noti in Italia, gli scritti si collocano a cavallo tra la fine del '700 e i primi dell'Ottocento, cioè proprio in corrispondenza alla transizione epocale precedente. Il titolo del paragrafo, "I focolai dell'odio: due secoli di letteratura pedagogica" (Ibidem, pag. 19-60), è estremamente significativo in tal senso, e ci permette altresì di collocare storicamente in modo più proprio il fenomeno.

39      (1980) Edizione italiana: La persecuzione del bambino - Le radici della violenza; Bollati Boringhieri, Torino 1987.

40     Op. cit., pag. 16-17 dell'edizione italiana.

41     Ibidem, pag. 19-60.

42     Über die Liebe zum Leben (1974-1983), serie di radio-conferenze tenute alla SDR (Locarno-Zurigo) a cura di H. J. Schultz. Ed. it.: L'amore per la vita (Mondadori, Milano 1984), part. pag. 66-67 riportate anche in Educazione 2000, pag. 37-38. Cfr. anche Escape from Freedom (1941); ed. it.: Fuga dalla libertà, Ed. di Comunità, Milano 1963.

43     L'amore per la vita, edizione italiana citata, pag. 66-67.

44     Ed. It.; Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, pag. 63.

45     E' chiaro che ci si riferisce a quel contesto dottrinale che si è illustrato nelle opere ricordate nella nota d'apertura.

46     Op. cit., part. capitolo I, pag. 7-56.

47     Ivi, pag. 30.

48     Ibidem, pag. 54.

49     Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 27-41.

50     Cfr. La pedagogia italiana contemporanea (3 voll. cit.). Non occorre compiere citazioni collimate in quanto pressoché tutti gli autori, da posizioni e con metodologie diverse, concorrono nell'individuare un nodo problematico fondamentale della Pedagogia in generale, ed in particolare nella Pedagogia odierna, nella tensione tra teoria e prassi, tra filosofia e materie scientifiche. Motivi coerenti si ritrovano anche entro le antologie tedesche sopra citate. E' chiaro che il parlare della Pedagogia come "Scienza dell'educazione" comporta un impiego del termine "scienza" in un'accezione completamente differente; mentre il parlare di "scienze dell'educazione", al plurale, comunque non esaurisce la Pedagogia e non consente di definirne i contorni generali di disciplina o campo d'integrazione tra discipline.

51     Dagli anni '80 in poi: si veda, ad esempio, C. Sitia et al.: L'educazione scientifica nella nuova scuola elementare (Le Monnier, Firenze 1987), pag. 54-56.

52     In op. cit., pag. 112.

53     Op. cit., pag. 83

54     L'apertura è condizione d'educabilità di qualunque interlocutore di und dialogo educativo, come dire condizione di praticabilità del dialogo stesso: "(...) una abitudine a rimettersi sempre in discussione come idee di fondo e come progetto di vita, una disponibilità a divenire e al divenire evolutivo, e un convincimento profondo del valore del pluralismo e della divergenza, che abbiamo denominato apertura. Non solo questo volume, quindi, ma nessun atto pedagogico ha od avrà mai alcunché da apportare di non banale, a chi aperto non sia" (Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 7-8. Cfr. Educazione 2000, pag. 246-259. Non si tratta, quindi, di una possibile finalizzazione (o scelta metodologica) all'interno della materia educativa. Si vede, tra l'altro, riconfermata la non onnipotenza dell'educazione: ci sono dei casi, dipendenti dall'interlocutore, nei quali il dialogo educativo è precluso; precisiamo che parliamo di educazione senza età, senza sedi preferenziali, senza direzionalita (o è un dialogo bi-direzionale, o non è dialogo educativo), senza direzione seppur con un verso.

55     Alcuni esempi, che non guastano neppure in questa sede e con finalità diverse, e che in parte riguardano anche quanto diremo circa il Curriculum: Stenhouse 1977, Pellerey 1983 ma elaborato negli anni '77-'78) D. Brown: Usiamo il cervello - Pedagogia e programmazione (SEI, Torino 1976); R. Maragliano e B. Vertecchi: La programmazione didattica. (Editori Riuniti, Roma 1977): M. Pellerey:  Progettazione didattica. (SEI, Torino 1983, ma elaborato negli ultimi anni '70); J. Schwab et al.: La struttura della conoscenza e il curricolo (La Nuova Italia, Firenze 1971); L. Stenhouse: Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo (Armando, Roma 1977).

56     Ne L'esistere pedagogico (La Nuova Italia, Firenze 1988); esistono poi due livelli di definizione dell'esperienza educativa caratterizzati da intenzionalità e volontà, l'uno ispirantesi a teorie esterne al dominio dell'educazione, e l'altro a teorie non predeterminate ideologicamente al di fuori dell'esperienza educativa.

57     Opera citata, pag. 30.

58     Ibidem, pag. 79-84.

59     The Open Society and its Enemies (London 1945); ed.it.: La società aperta e i suoi nemici (2 voll.; Armando, Roma 1973-74), il cui primo volume è dedicato appunto a Platone totalitario.

60     G. Giugni in Popoli Culture Stati (a cura di M. Borrelli L. Corradini A. Pieretti G. Serio; Pellegrini, Cosenza 1994), Atti dell'VIII Congresso Internazionale di Praja a Mare, pag. 177.

61     Ibidem.

62     Op. cit., pag. 48.

63     Idem, pag. 49.

64     Dal volume settimo dell'edizione delle Opere di Aristotele a cura di Gabriele Giannantoni (Laterza, Bari 1973); libro terzo, pag. 48-60 (Gamma, i-5, 1009b-1113b).

65     E. Fromm: Über die Liebe zum Leben, ed. it. cit, pag. 46-47.

66     The Powerty of Historicism (London 1957); ed.it.: Miseria dello storicismo; Feltrinelli, Milano 19752, pag. 68. Cfr. anche The Open Society and its Enemies, citato.

67     K. Frey: Teorie del curricolo. Ed. it.: Feltrinelli, Milano 19833.

68     Tra la sua cospicua produzione in materia limitiamoci a ricordare il notissimo saggio The Process of Education - A serching discussione of school education opening new paths to learning and teaching (Vintage Book, New York 1960); ed. it.: Armando, Roma 19641, più volte ristampato, sotto il titolo Dopo Dewey - Il processo di apprendimento nelle due culture.

69     A. e H. Nicholls: Guida pratica all'elaborazione di un curricolo. Ed. it.: Feltrinelli, Milano 1975.

70     Iniziatore di tale visione è stato il biologo Ludwig von Bertalanffy (1901-1972). Di lui abbiamo in edizione italiana Il sistema uomo e Teoria generale dei sistemi, entrambe le opere stampate nel 1971 per i tipi ILI di Milano.

71     "Qualeducazione" n. 46 (anno XV, n. 1-2 1996), pag. 50-54.

72     Ci si riferisce a Le diable au corp, scritto da Raymond Radiguet (1903-1923) a diciott'anni, parzialmente autobiografico come molte opere prime e pubblicato postumo.

73     A quoi tient la supériorité des Anglo-saxons (1897) sembra non essere reperibile in italiano nonostante il suo alto significato storico.

74     Peraltro, quei convincimenti epocali non erano poi così monolitici: "Al di fuori del trucco della natura che perpetua la volontà di vivere, principio fondamentale della metafisica di Schopenhauer in genere, ogni sesso riceve in retaggio una funzione nella trasmissione dei caratteri ereditari: al padre il carattere o volontà, alla madre l'intelletto." Geneviève Fraisse, "Dalla destinazione al destino" in Storia delle donne - l'Ottocento, pag. 99.

75     Questo può fare pensare al "Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire" che il conte Zio manzoniano non a caso attribuiva ad un ecclesiastico (Promessi sposi, capitolo XIX); ma si trattava comunque di un agire violento non "femminile" nel senso culturale del quale stiamo trattando.

76     To have or to be?, cit.

77     Molte tecniche di terapia sessuologica di coppia si basano su una complessa ed articolata serie di manovre reciproche nella e quali a lungo si esclude la penetrazione, cercando altre zone erogene (specie nel maschio) ed altre fisicità, e poi anche nella penetrazione rinviando il più possibile l'orgasmo maschile. L'idea da affrontare criticamente è quella che vede, appunto, il rapporto sessuale centrato su un maschio che riduce tutto alla eiaculazione, scartando il più possibile qualunque altro aspetto.

78     Non sembri fuori luogo un richiamo allo studio della guerra in un Convegno dedicato alla nonviolenza: si tratta dello studio scientifico di una creazione umana nella quale l'uomo può essere letto e va letto. Semmai, qui ed altrove, lo studio scientifico va distinto di principio dalla sua applicazione, propriamente "tecnica". Chi fa pedagogia dovrebbe saper leggere l'uomo in tutto ciò che è umano: e d'altra parte, le conclusioni convergono con quelle raggiunte per altre vie.

79     L'opera è rimasta incompleta alla morte dell'A. (1831) ed è uscita postuma a più riprese. In italiano ha avuto edizione nel 1942, per la cura dello Stato Maggiore del R. Esercito, e poi nel 1970 (A. Mondadori, Milano 1970, 2 voll. con apparato introduttivo).

80     Pag. 615-630.

81     La strategia era indicata anche, ad esempio, dai grandi della polemologia russa: cfr. S. Andolenko Histoire de l'Armée russe (Flammarion, Paris 1967); ed. it. Storia dell'esercito russo (Sansoni, Firenze 1969).

82     Circa il cambiamento ideologico della guerra dall'evo moderno all'evo borghese, si veda l'ottimo Quell'antica festa crudele - Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese di Franco Cardini (Mondadori, Milano n.e. 1995) di Franco Cardini, tenendo presente egli impiega un altro lessico per i periodi storici (parla di "lungo medioevo" ad includere anche l'evo moderno).

83     Concetto tra i più noti, forse il più noto in assoluto, della dottrina polemologica del grande prussiano: nell'ed. cit., a pag. 38 e sgg. Anch'esso era già presente, peraltro, nella dottrina di un altro grande degli eserciti zaristi, Nikolaj Petrovic Rumiancev-Zadunaiskij (1725-1796), figlio naturale dello zar Pietro il Grande e riorganizzatore dell'esercito di Caterina di Russia dopo i rovesci dell'impero di Pietro III: "L'efficienza dell'esercito si basa sulla prosperità della nazione (...) E' la politica che indica gli obiettivi alla strategia". Cfr. l'op. cit. di S. Andolenko, pag. 80-84 e passim.

84     G. L. Mosse op. cit., pag. 18.

85     Cfr. ad es. Die Seele des Menschen - Ihre Fähigkeit zum Guten und zum Bosen in Gesamtausgabe (a cura di Rainer Funk, 1980-81), pag. 159-258; ed. it.: Psicoanalisi dell'amore - Necrofilia e biofilia nell'uomo (Newton Compton, Roma 1971). La personalità necrofila viene da lui esemplificata in memorabili scritti su Adolf Hitler, come Über die Liebe zum Leben, ed. it. cit., part. pag. 138 sgg. Cfr. anche, come fonte letteraria, il romanzo I proscritti di Ernst von Salomon (1930; ed. it: Baldini & Castoldi, Milano 1994).

86     La lezione pedagogica della scienza - Da una pedagogia per la conservazione a una pedagogia per l'evoluzione (F. Angeli, Milano 1988), pag.
136.

87     The Art of Loving (1956). ed. it.: L'arte di amare (Mondadori, Milano 1986 rist.), pag. 72.73.

88     Geneviève Fraisse, op. ult. cit., pag. 112. Cfr. l'op. cit di John Stuart Mill, in particolare il capitolo III (ed. it. cit.: pag. 93-144).

89     "Presentazione" all'ed. it.

90     The Art of Loving, ed. it. cit., pag. 98.

91     E. Fromm: Sigmund Freud's Mission. An Analysis (Harper & Row, New York 1966); ed. it. La missione di Sigmund Freud; Newton Compton, Roma 1989, pag. 169.

92     Op. cit., pag. 120.

93     Ibidem. La lettera è del 5 novembre 1883.

94     The Art of Loving, ed. it. cit., pag. 97.

95     Citazioni alle pagine 193 e 192.

96     Opere citate, in particolare: Educazione 2000, pag. 233-275, Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 108-140; ed inoltre Scienza e pedagogia, pag. 29-65.

97     "Dietro le quinte" di Alain Corbin; in Histoire de la vie privée (1986) a cura di Philippe Ariès e Georges Duby; ed. it. La vita privata - L'ottocento (IV volume; Mondadori, Milano 1994), pag. 455.

98      Ancora nel 1983, l'autorevole Mini DSM-III (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, edizione italiana dell'originale dell'American Psychiatric Association; Masson, Milano rist. 1984) parlava di "Disturbo da Conversione (o Nevrosi isterica, Tipo Conversione)" (pag. 147-148) e di "Disturbi Dissociativi (o Nevrosi Isterica, tipo Dissociativo" (pag. 183 sgg.) mentre per altre sindromi isteriche rimandava a voci diverse; mentre già nell'edizione del 1988 (rist. 1991) la voce era sparita e c'era dei rimandi al "Disturbo di conversione" e ai "Disturbi dissociativi"; e nel Mini DSM-IV, edizione del 1996, è sparita del tutto la parola "isteria" e derivati. Anche nello IDC-10, Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali decima revisione (Masson, Milano 1992), non c'è una voce sull'isteria; sotto la voce "Sindromi dissociative (da conversione)" (pag. 145 sgg.) si spiega perché "ora sembra meglio evitare il termine <<isteria>>, per quanto possibile, considerati i suoi molteplici e differenti significati."

99     Cfr. Educazione 2000, pag. 184-197; Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 77-82.

100     Op. cit., pag. 90.

101     Op. cit., pag. 62-66 e passim.

102     Ibidem, pag. 89-11; da notare che l'aggettivo "contemporanea" non è da riferirsi tanto agli anni di espressione dell'opera (1956), bensì al Trend di superamento della visione borghese dei generi e dei ruoli, che sarebbe divenuto sempre più chiaro nei decenni successivi.

103     Ibidem, pag. 91; il contributo è stato scritto per l'antologia, pubblicata appunto nel '93.

104     Ibidem, pag. 92. Il discorso si sviluppa sul problema della genitorialità nuovamente con la tendenza a distaccarsi da stratificazioni relative al genere.

105    In Educazione 2000 si è ipotizzato un parallelo tra l'educazione della donna borghese alla rinuncia sessuale, e le pratiche della clitoridectomia e dell'infibulazione ancora diffuse presso certi popoli (pag. 106-110) e, oltre a tutto, con questi entranti pesantemente anche nel nostro paese. Dà da riflettere che la motivazione è sostanzialmente sempre quella: vincere con il maschio la battaglia che conta di più.

106    Educazione 2000, part. pag. 78-84 e pag. 103-116.

107    The Art of Loving, ed. it. cit., pag. 46.

108    Opera citata, 247-275, part. da pag. 267.

109    Ibidem, pag. 274-275.

110    Ibidem, pag. 348.

111    Escape from Freedom (1941); edizione italiana Fuga dalla libertà (Mondadori, Milano 1994 dopo molte altre edizioni, pag. 194.

112    Opera citata, pag. 99.

113    G. L. Mosse, op. cit., pag. 126.

114    Ibidem, pag. 124. Va notato che il termine "rispettabilità" va preso come termine tecnico, ad indicare uno degli obiettivi di fondo del comportamento borghese che riguarda la conservazione di tutti gli stereotipi comportamentali-relazionali, familiari, lavorativi, politici (in particolare il Nazionalismo) sotto un'immagine pubblica che avesse quel requisito ben preciso. Sui tratta di uno del Leit-motiv del prezioso saggio.

115    Dovremmo impiegare meglio la locuzione italiana "pensiero in rosa" o derivate, per intendere "pensare al femminile" (nel senso culturale che si va delineando), in quanto l'espressione inglese si presta ad un'ambiguità di fondo valendo anche per "pensare positivo", come si direbbe oggi.

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PARTE II
 
ELEMENTI APPLICATIVI E PRATICI
PER UNO STUDIO PEDAGOGICO DI CASISTICHE
AL FINE DI UNA RELAZIONE D'AIUTO
TRAMITE INTERLOCUZIONE DEL PEDAGOGISTA PROFESSIONALE
 
 
 
 
"l'amore non è un sentimento al quale ci si possa abbandonare senza aver raggiunto un alto livello di maturità (...) ogni tentativo d'amare è destinato a fallire se non si cerca di sviluppare più attivamente la propria personalità (...).
E' l'amore un'arte? Allora richiede sforzo e saggezza. (...)
L'amore è un'arte, così come la vita è un'arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l'ingegneria."
(Erich Fromm, 1956)
"le cose, piuttosto, diventano complicate se ci si domanda che cosa intendiamo esattamente parlando di <<amore>>. Si tratta semplicemente e solo di protezione amorevole o di quell'<<approvazione da parte dei genitori>> tanto dibattuta, o è una volontà meno drammatica di darsi la pena di rispondere ai bisogni espressi o inespressi del bambino? (...)
Le condizioni della vita moderna hanno reso molto più difficile ai genitori creare un ambiente in cui, sia i loro bisogni legittimi, sia quelli dei loro figli possano essere soddisfatti con una certa facilità. Ecco perché l'amore solo non basta e deve essere integrato con interventi deliberati da parte del genitore."
(Bruno Bettelheim, 1950)
 
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Grandi ordini di casi, casistiche comprensive riprese sinteticamente

In questa Parte II prenderemo in rassegna un buon numero di casistiche, singole situazioni problematiche o complessi di situazioni problematiche riconducibili ad idee di fondo in comune, che presentano interesse pedagogico, e sul trattamento delle quali mediante interlocuzione pedagogica 1 lo scrivente ha avuto (ed ha) esperienza diretta. Ciò vale anche per casistiche la cui posizione e la cui sommaria descrizione saranno ricavate dalla letteratura o dalla comunicazione di massa; sono situazioni che si trovano nella vita, in molti casi con frequenza.
Nei paragrafi che seguiranno daremo l'essenziale presentazione delle casistiche in esame, alternando situazioni problematiche molto comprensive e di grande entità a situazioni problematiche più limitate, consapevoli che l'insegnamento è lo stesso. E faremo seguire alcune indicazioni per l'approccio pedagogico nei casi che vi si possono ricondurre, e per l'eventuale intervento di consulenza pedagogica in coppie nelle quali si presentassero casi ad essi riconducibili.
Quelli che prenderemo in esame saranno solo in parte casi singoli; per lo più, si tratterà di ordini di casi, di quelle che abbiamo chiamato "casistiche": insomma, di presentazioni sintetiche di problemi che riguardano una quantità di casi singoli comprensibilmente considerevole. Anche quei casi singoli che prenderemo in esame non saranno considerati tanto nella loro singolarità, quanto per l'insegnamento che ne potremmo ricavare per l'esercizio della professione pedagogica quanto più ampio sia possibile, in casi che presentano qualche analogia di fondo.
Per presentare meglio, onde meglio affrontarle, un certo numero di queste casistiche, di questi ordini di casi, troveremo efficace ed economico far riferimento alle parole del saggio già citato, testo obbligatorio per il corso, The Art of Loving (1956) di Erich Fromm 2. Le citazioni saranno tratte dall'edizione economica nella Collana Bestsellers Oscar Mondadori del gennaio 1996.
Ricordiamo, di passaggio, quanto abbiamo scritto in Un'introduzione allo studio dell'educazione circa l'impiego funzionalmente positivo delle edizioni economiche e supereconomiche, soprattutto oggi: già questo costituisce un "caso" pedagogico importante.
Altre casistiche prenderanno spunti più direttamente dall'esperienza diretta di singoli casi, oppure da episodi di cronaca di una certa rilevanza, o da altre fonti ancora. La voluta eterogeneità dei componenti la casistica e delle fonti dovrebbe consentire di apprezzare meglio ciò che c'è di comune: la visione pedagogica, e il relativo trattamento per interlocuzione.
Non tutte le casistiche e non tutti gli esempi, del resto, sono direttamente riconducibili a problemi di coppia, di Partnership, di famiglia, di genere, anche se il nesso con questi è evidente ed, in genere, abbastanza forte. C'è una parte comune molto più forte di ordine metodologico, che è quindi di diretta pertinenza pedagogica, e parte essenziale della formazione del pedagogista.
Insomma, l'insegnamento che se ne può ricavare, come professionalizzazione e come contributo all'elaborazione teorica e dottrinale, rimane comunque assolutamente generale. In una corretta ottica di metodologa "per temi e problemi", ritroveremo qui come sia possibile apprendere sulla professione pedagogica e sulla Pedagogia anche partendo da problemi ben ristretti e singolare senza che questa particolarità sia d'ostacolo all'allargamento a piacere del campo di studio.
A tale fine, intercaleremo delle considerazioni di natura pedagogica a due problemi di fondo tra i tanti, rilevanti come quello dell'isteria, e quello dei paradigmi familiari.
Tutta questa esperienza, va precisato, è stata resa come aiuto e contributo del tutto volontario, per ragioni di incompatibilità professionale, e garantendo la segretezza assoluta.
Una significativa esperienza analoga è stata fatta anche relativamente a tutte le casistiche che si evocheranno facendo ricorso a fonti librarie. In particolare, si è maturata dell'esperienza anche relativamente ai casi nei quali è evidente che Erich Fromm ha potuto praticare effettivamente la sua attività di psicologo (o psicanalista) sociale, e dall'alto di tutt'altra scienza. Si parva licet componere magnis.
A Fromm certo dobbiamo molto, e chiaramente non v'è chi non se ne renda conto. Ma attenzione: la sua produzione nel campo delle Scienze dell'Educazione (Psicoanalisi, Psicologia sociale, ...) va da noi mediata e riprocessata nel dominio pedagogico, volgendone le conquiste e i risultati a finalità specifiche del nostro settore, finalità pedagogiche. E' quello che dovremmo fare con qualunque contributo proveniente dalle Scienze dell'Educazione, lo si è visto.
Del resto, basta leggere che cosa egli intenda per educazione, per rendersene conto: "può essere definita in vari modi. A noi però interessa considerarla da punto di vista sociale." e fin qui potremmo anche esserci; ma "La funzione sociale dell'educazione è di preparare l'individuo ad operare nel ruolo che in seguito dovrà svolgere nella società; cioè di modellare il suo carattere affinché i suoi desideri coincidano con le necessità del suo ruolo sociale." e qui non ci siamo certo più. Ed ancora: "Il sistema educativo di ogni società è determinato da questa funzione; perciò non possiamo spiegare la struttura della società o della personalità dei suoi componenti mediante il processo educativo; ma dobbiamo spiegare il processo educativo alla luce delle necessità derivanti dalla struttura sociale ed economica di una determinata società." ecc. ecc. 3. Insomma, qui il suo insegnamento è decisamente "datato", come l'insegnamento di uno studioso che sta ben dentro il Novecento e l'Evo borghese e non come quel precursore della non lontana transizione epocale che apprezziamo altrove; ed è ben etichettato ideologicamente come marxista.
Quanto al principio di "sincerità", all'"etica dell'onestà con l'etica della regola aurea (...) essere leali nello scambio con gli altri" (pag. 134-135 e sgg.), esso vale anche per noi: con l'avvertenza che la sincerità e la lealtà, diremmo piuttosto la coerenza, per noi deve avere lo stesso significato nei riguardi di sé stessi come nei riguardi d'altri, nei riguardi del (più o meno) chiuso della coppia come nei riguardi della società intera.
 

Generalità sulla relazione d'aiuto tramite interlocuzione pedagogica finalizzata al trattamento di casi

Circa elementi generali per l'esercizio della interlocuzione pedagogica da parte di un pedagogista professionale, non possiamo qui riportare un sommario di norme pronte per l'uso e in qualche modo meccanicamente ripetibili. Oltre a tutto, si tratta di materia ancora in formazione; e comunque, qui ci interessa più dare le basi per un lavoro di ricerca personale e collettivo, che non la pericolosa illusione che ci sia una tecnica prestabilita per un lavoro così complesso. Insegnare a pescare, per riprendere un'allegoria orientale che per un pedagogista dovrebbe essere presente sempre, piuttosto che non fornire dei pesci: cioè, non sfamare per un giorno con certi prodotti, ma per sempre, avviando la necessaria processualista.
Ad ogni modo: ricette preconfezionate non ne abbiamo; è da dubitare che ve ne siano, e comunque non ne andiamo in cerca; e, anche le avessimo, non le daremmo.
Possiamo però fornire molte indicazioni, utili sia all'operatività, sia alla comprensione generale, sia anche (o soprattutto) come base per la riflessione di mediazione tra l'una e l'altra: quest'ultimo costituirebbe il terzo piano del discorso pedagogico. In un certo senso, almeno metodologicamente parlando, anche la presente va intesa come una "relazione d'aiuto".
Ricordiamo dunque, in estrema sintesi 4, innanzitutto che è fondamentale ipotizzabile, e in via di espletamento pratico, l'intervento professionale e libero-professionale del pedagogista in situazioni problematiche (onde farne problemi 5) come quelle qui affrontati della Partnership e della famiglia; queste problematiche si vanno facendo particolarmente acuti alla transizione epocale corrente.
Si tratta di un intervento dialogico, di un let's talk!, da compiersi solo su richiesta dei soggetti interessati; rimane da vedere in quali ipotesi sia sufficiente la richiesta di uno solo dei soggetti, ed eventualmente fino a quando lo sia, in casi di coppia od i sodalizi più ampi 6.
E' questa, essenzialmente, un'interlocuzione educativa, che si svolge sul piano culturale.
Non è quindi in questione, ovviamente e in nessun caso, una qualche forma di "terapia", non esistendo nella Pedagogia d'oggi lo stato "fisiologico" la deviazione dal quale integri patologie da curare.
E' invece possibile, e legittimo, parlare di "clinica", per le evidenti ricorrenze nel dialogo educativo di elementi di comunicazione presenti proprio nel campo clinico 7: ad esempio il realismo, l'attenzione per il destinatario, la problematicità, la relazionalità diretta, la professionalità, l'attenzione per la dottrina, la possibilità di considerare ogni forma di variabilità individuale (e la reciproca esclusione delle tipizzazioni "medie" che intervengono in procedimenti, anche pedagogici, di tipo statistico), ...
Nell'impiego di questo aggettivo, e del sostantivo corrispondente se del caso, si può ravvisare anche un lontano significato ulteriore di tipo etimologico. In greco classico, quello impiegato anche dal grande medico greco Claudio Galeno (130-291 d.C.), klinikós era aggettivo 8 riferito all'intervento sul letto o lettuccio (klíne) dove il paziente si trovava; come dire, un intervento propriamente "in situazione".
Un tale intervento postula nell'interlocutore quella che abbiamo proposto nelle opere di riferimento citate di chiamare l'"apertura": vale a dire (in buona sostanza, e per capirci), la disponibilità piena e senza riserve a cambiare, a divenire e al divenire evolutivo; a rimettersi sempre in discussione come idee di fondo e come progetto di vita, a ripensare le proprie scelte, specie quelle fondamentali; a rimettere in discussione anche le cose considerate e prese come le più fisse, tra le quali sé stesso, a cominciare da sé stesso; e un convincimento profondo del valore del pluralismo e della divergenza.
Un tale intervento postula nell'interlocutore quella che abbiamo proposto di chiamare "apertura", vale a dire la disponibilità piena e senza riserve (in particolare senza riserve mentali) a cambiare, a divenire e al divenire evolutivo, a rimettere in discussione con tutto sé stesso, e a cominciare da sé stesso, le proprie idee di fondo e il proprio progetto di vita, le proprie scelte (specie quelle fondamentali) e le proprie relazionalità e relative modalità d'instaurazione e d'esercizio; a rimettere in discussione anche le cose considerate e prese come le più fisse, fino ai Grundprinzipien, senza escludere (almeno come ipotesi interlocutoria) neppure il "keines Prinzip" di Bruno Bettelheim; ed ancora, un convincimento profondo del valore del pluralismo, della divergenza, del divenire evolutivo.
Un esempio tipico di intrattabilità del caso, per evidente assenza di apertura, è quello dell'interlocutore che cerca e mantiene stretto il proprio monologo: in particolare, riprendendo esattamente il suo discorso da dove l'aveva lasciato dopo l'interlocuzione del Pedagogista e senza tenerne alcun conto; o che ha già una pretesa "risposta" prima ancora di aver ascoltato la domanda; oppure che riprende a parlare interrompendo l'interlocutore prima di aver avuto la possibilità di capire che cosa stava dicendo, cioè troncandone il dire prima che abbia senso compiuto. Spesso, questo soggetto soliloquente chiude l'incontro con noi chiedendo ex abrupto delle decisioni o delle scelte che è chiamato a prendere relativamente all'oggetto dello sperato dialogo ma realmente monologo. Spesso si tratta di questioni gravi e cruciali. Sono risposte che non possiamo dare perché non abbiamo potuto interloquire, e che se anche potessimo non dovremmo dare perché non abbiamo alcuna legittimazione a sostituire con la nostra quella qualità umana che è pedagogicamente tra le più rilevanti, cioè la responsabilità.
Noi risponderemmo: "discutiamo ancora per vedere insieme di giungere alla determinazione migliore", ma lo faremmo con ogni probabilità inutilmente.
Senza di questa, il pedagogista in quanto tale non può far, propriamente, nulla; è una delle concretizzazioni della non onnipotenza dell'educazione, ed altresì una "debolezza" che è forza all'atto pratico 9. E' il corrispettivo (forse l'analogo) della Compliance per il trattamento psicanalitico: anche se non disponiamo di strumenti oggettivi per misurarne l'entità od, almeno, l'adeguatezza; rimane un fatto di dialogo umano appurarlo.
Per dirla con A. Cunti, si tratta anche di "prendere decisioni sulla base delle risorse e dei vincoli" e di "trovare soluzioni idonee rispetto ad eventi nuovi" 10; S. Tramma concordando con Lucio Pagnoncelli fa notare che "L'essenzialità dell'educazione degli adulti (...) è dovuta anche alla necessità di contribuire a preservare alcuni livelli di benessere psicofisico, relazionale ed economico e alla capacità di interpretare il mondo, oggi fortemente a rischio di compromissione irreversibile.
La bi- (o pluri-) direzionalità di qualsiasi interlocuzione educativa, in quanto tale, vale anche per l'esercizio della Pedagogia professionale e libero-professionale. Anche il pedagogista è "educando", per essere pedagogista ed applicarsi in tal senso deve avere per primo l'apertura evolutiva.
Inoltre, è pesante il ricorso che il pedagogista è chiamato a fare all'empatia; o a qualche cosa che ci assomiglia; e qui ci vuole un discorso apposito.
In effetti, relativamente a quest'ultima, si è proposto di impiegare (o di riprendere) preferenzialmente il termine Einfühlung. Il ricorso a termini tedeschi è coerente con l'alta vocazione pedagogico e filosofica di questa lingua che ci permette di rendere meglio concettualità sensibilmente differenti con termini che in quella lingua sono distinti anche nel caso di corrispondenza alla stessa parola in italiano o, ad esempio, in inglese 11. A volte, si cerca di considerare Einfühlung come la traduzione tedesca di "empatia" o dell'inglese Empathy, pur esistendo in tedesco il termine Empathie che ha la stessa grafia del corrispettivo francese salvo che per la maiuscola; e tuttavia, indica qualche cosa di non sovrapponibile, più o meno un'immedesimazione piuttosto che non un "in pati", un semplice "provare dentro", un etimologico "'en páthos" 12; Fühlung, peraltro, indica una relazione di contatto, la quale quindi postula una qualche premessa volontaria nel contraente. Esso è dunque impiegabile allo scopo di indicare un atto, intenzionale, e che può essere professionalmente coltivato. Non un rimanere interessato, magari anche passivamente, per coinvolgimento dall'esterno: bensì, un prendersi dentro anche emotivamente un problema per restituirlo meglio risolubile, come da una qualità che abbiamo visto essere stata a lungo ritenuta "femminile" in senso culturale, e che ha peraltro un'indubbia e chiara metafora nella fisiologia riproduttiva femminile..
Questo potente e sistematico ricorso all'empatia-Einfühlung da parte del pedagogista nell'esercizio della sua professionalità ne fa comprendere chiaramente anche uno dei limiti più stringenti: al momento, non disponiamo di qualcosa che assomigli al distacco clinico e che ci eviti il rischio di un logorio umano enorme. Non è quindi umanamente possibile neppure ipotizzare un dialogo pedagogico prolungato, per esempio dell'ordine dei mesi o degli anni a cadenze settimanali, come avviene nella terapia psicanalitica.
E' questo uno dei modi per rendersi conto nei fatti, e non solo per via di proclamazioni teoriche e ideologiche, della non onnipotenza dell'educazione, e di chi per essa opera.
Il pedagogista si consideri, quindi, uno degli elementi della complessa e variegata relazionalità umana, e lo ricordi sempre nell'agire per tale: una volta ammessa la non onnipotenza dell'educazione (e quindi sua), il pedagogista opererà quindi perché la sua interlocuzione abbia limiti e collegamenti con altre figure culturali professionali (medico, giurisperito, psicologo, sociologo, ....) e non (familiari, colleghi, sodali, amici, partner, ...), operando un sistematico dépistage dovuto, e cercando di non cadere nella trappola dell'interlocuzione chiusa, che sarebbe trappola per entrambi. Non a caso, il termine dépistage si sovrappone solo in parte con l'accezione (preventiva) che esso assume in genere nel campo sanitario.
Se vogliamo riprendere la metafora riproduttiva femminile: la gravidanza deve svolgersi ovviamente all'interno del soggetto materno là dove gravidanza esista, vale a dire per l'uomo come per tutti i viventi vivipari, ma poi deve necessariamente terminare perché il nuovo essere umano affronti altri problemi nella sua evoluzione e in quella della sua specie. Che sia per questo che la Pedagogia è prevalentemente femminile? Ovviamente no: ma ci servono considerazioni come queste per capire quanto reciprocamente dannosa sia la mancanza del dépistage di cui sopra, cioè la pretesa o l'illusione che il rapporto madre-figlio non cambi sostanzialmente dopo il parto, e con il parto. Come scrive Fromm, "Sono (...) i problemi e non le soluzioni a costituire l'essenza dell'uomo" 13
Il dépistage porta a riconsiderare correttamente la Pedagogia come un campo di incontro, di sintesi e di volgimento a finalità educative di competenze e strumenti concettuali ed operativi mutuati da una pluralità di discipline: si tratta, almeno in una prima istanza, di Scienze dell'Educazione, le quali per buona parte sono scienze in senso stretto (Antropologia, Sociologia, Giurisprudenza, Docimologia, Didattica si è visto,...), ed un sottoinsieme delle quali è costituito da scienze della natura applicate all'uomo (scienze mediche, igieniche, auxologiche e neurologiche; scienze psicologiche; scienze dell'ambiente e dell'interazione uomo-ambiente; ...), e via elencando.
Ogniqualvolta l'interlocuzione pedagogica riguardi sodalizi di più persone, come nella coppia (familiare o comunque partenariale), il dépistage più essenziale e che va cercato fin dal principio, o comunque quanto prima, è un dialogo il più aperto possibile tra i partner. Non basta che "si parlino", che pure è già qualche cosa; occorre che si parlino di loro stessi e dei loro problemi, sia dei problemi di coppia sia di quei problemi di ciascuno che possano avere una qualsiasi conseguenza fattuale sull'altro; è questa, secondo noi, la prima reazione che debbono opporre a siffatti problemi. Se invece prevale, o al principio o nello svolgimento del dialogo, una qualsiasi altra reazione, violenta o dispettosa, di rivalsa o di ripicca, ma anche di sopportazione e di "tirar avanti", allora manca qualche cosa di essenziale; per prima cosa, parlatene, parlatene, parlatene. Non ne parlerete mai troppo, e non consideratelo mai inutile.
All'esperienza di chi scrive, il dialogo nella coppia è largamente insufficiente; nella coppia borghese otto-novecentesca la sistemazione dei ruoli andava considerata già data ed acquisita all'atto della sua costituzione, ed in particolare le donne erano educate a non parlare mai dell'esercizio sessuale; mentre nella coppia attuale imperano i luoghi comuni, che sono un modo come un altro di non parlarsi fingendo di farlo, ed in particolare nel sesso maschi e femmine sembrano educati dai Mass media a ripetere frasi senza senso anziché cercare di capirsi (capirsi tra partner, capire ciascuno sé stesso, e capire entrambi la coppia).
 

Ma altre indicazioni di carattere assolutamente generale emergeranno nel contesto della trattazione casistica, sempre seconda la metodologia "per temi e problemi" che consente ampliamenti d'orizzonte in qualunque situazione motivante.
Qui vi è un'assonanza molto significativa, Da un lato, vi è il rapporto tra il Fromm "descrittivo" cui faremo riferimento e il pedagogista; dall'altro, il rapporto tra descrittivo e prescrittivo in Popper. Si ritrova qui come il pedagogista sia anche, ma essenzialmente, un metodologo: come tale, egli non ha il compito di descrivere, bensì di fornire degli imperativi ipotetici (se vuoi... allora...) i quali abbiano il requisito necessario della controllabilità con i fatti.
Si comprende ancor meglio qui come per tutto quello che segue non si tratti, e non si debba trattare, di una qualche sorta di "manuale di approccio ai casi". Quelli che seguono sono spunti, suggestioni, per affrontare il caso dal punto di vista pedagogico, in una sana ottica di ricerca che è l'unica proponibile per un corso universitario, e che non dovrebbe suonare estranea ad un pedagogista.
Ovviamente, non si prenderanno in esame tutte le casistiche che si possono trovare in quel saggio, né solo di queste. Le opportunità di trattare casistiche di ben altra ampiezza saranno a volte troppo opportune per non coglierle.
L'esperienza professionale di chi scrive, riguarda in un modo o nell'altro e significativamente anche tutti questi esempi che si trarranno dall'autorevolissima fonte.
In qualche caso si sono presi degli appunti: ma essi, per lo più, non sono risultati fruibili positivamente in questa sede. Lo scrivente ha molto materiale manoscritto, ma non strutturato e comunque non assimilabile ad un archivio di un libero-professionista, in particolare non trasferibile. Solo in due paragrafi si farà ricorso a degli appunti personali che sono, per ragioni diverse, leggibili e trasferibili.
Manca ancora qualche tecnica consolidata per protocollare le interlocuzioni pedagogiche. Ci sono state, anche in sede A.N.Pe. (Associazione Nazionale dei Pedagogisti professionali), delle discussioni in merito: ma questo è uno degli esempi di situazioni nelle quali il pluralismo intrinseco nella Pedagogia, l'assenza di paradigmi unificanti, fin la mancanza di un lessico comune, il carattere composito della cultura di fondo, diventano un ostacolo.

Il fatto che l'intervento di interlocuzione del pedagogista professionale e libero-professionale del pedagogista sia dialogico, fa emergere delle apparenti similitudini con l'intervento dello psicologo clinico, in particolare dello psicanalista. Ora, ribadiamo, si può impiegare anche qui il ricordato invito-simbolo "let's talk!"; purché però sia e rimanga chiaro si tratta di un parlare diverso, come metodologia e come fini, come forma e come sostanza. Il pedagogista professionale interloquisce, dialoga: non esprime diagnosi, prognosi e terapie come il medico, né offre soluzioni come l'avvocato o il commercialista o l'ingegnere, né le fa emergere come lo psicanalista od altri. Piuttosto offre un contributo, il suo, di dialogo critico, condivide riflessioni e comunicazioni od esprime non condivisione (e la motiva), contribuisce a che non siano perdute di vista la realtà e la concretezza, stimola il confronto con l'esterno di ciò che emerge dall'interno, un atteggiamento interrogativo e disponibile, favorisce le relazionalità, la comunicazione e l'ascolto, un atteggiamento realistico e prospettico, e via elencando per linee che si vanno facendo sempre più chiare e diffusamente note.
Rivestono un ruolo essenziale la Einsicht o, meglio, le Einsichten le quali sono sì "viste", "visioni", ma in qualche modo precedenti e fondanti l'esperienza, indimostrabili, strumenti concettuali auto-evidenti ed inconfutabili ma insieme necessari per il processo educativo (gli uomini sono uguali, cercare il meglio, evolvere, relazionarsi, ...), e comunque necessarie all'esperienza stessa, non ammettendosi più dal tempo del crollo del Positivismo alcuna ipotesi di "esperienza pura". Esse non sono quindi sovrapponibili allo psicologico Insight, che entra nella soluzione dei problemi come percezione subitanea e sintetica delle relazioni fondamentali tra gli elementi costitutivi del problema stesso; né allo Insight psicanalitico, come facoltà di comprensione di sé e degli altri.
Due caratteristiche evidenti che differenziano l'interlocuzione educativa dalle altre interazioni simili per la dialogicità sono riscontrabili nel suo carattere esplicito, nel ricorso all'empatia in via essenziale e sistematicamente.
Dell'empatia-Einfühlung si è detto l'essenziale.
Quanto alla particolare differenza rispetto all'agire professionale dello psicologo, l'agire del pedagogista attraverso il dire non ha molto a che vedere con il "far dire" dello psicanalista di molte scuole. Vi sono semmai delle compatibilità, tra gli psicologi, con l'agire del "testista": ciò, anche se quello del pedagogista è un dire non sempre riferito a metodi statistico-operazionali, ma spesso (forse più spesso) riferito a metodi "casistici", nel senso della contrapposizione storica ed attuale tra statistica e casistica clinica.
Si capisce, anche in questo caso, che la competenza del pedagogista deve essere anche, in modo essenziale, competenza nel campo della metodologia generale, le cui acquisizioni e i cui strumenti concettuali ed operativi egli metterà a disposizione dei suoi interlocutori, oltre ad impiegarli sistematicamente lui stesso.
Rimane il fatto che anche in educazione, come in terapia medica o psicologica, nulla si può contro il volere e la convinzione, e senza la collaborazione fattiva, dell'interlocutore (dell'"educando", propriamente).
Quanto alla complessiva scarsità, insufficienza comunque, del dialogo all'interno della coppia, della Partnership, della famiglia: essa è facilmente riscontrabile da chiunque. Lo è. in particolare di fronte a problemi come quelli che si prenderanno in esame, od altri analoghi; e lo è, in genere, anche riguardo altri problemi, ad esempio l'educazione dei figli.
Un solo esempio al riguardo. Se si deve acquistare una casa, spesso si discute e ci si impegna (non è un'esagerazione) cento volte di più, che non ad esempio per la scelta del corso di studio universitario dei figli. Dica ciascuno quante (poche) ore si son dedicate ad una scelta che segna la vita; ora, è chiaro a tutti che una casa sbagliata si può sempre rivendere o permutare, mentre invece una laurea no.
Quelle che il pedagogista presenta possono essere chiamate le sue Anschauungen, le sue visioni (esperienziali e non) di quanto oggetto di comunicazione; queste, meglio al plurale, possono essere frutto d'esperienza, oppure no. Precisiamo che esse non sono, né generalmente né necessariamente, Welt-anschauungen, visioni dell'universo mondo, cioè teorie filosofiche. Anche in questo, egli deve essere esempio di confronto: di confronto delle proprie Anschauungen con quelle degli interlocutori.

Tra gli strumenti concettuali di fondo ai quali fare ricorso nell'esercizio della professione pedagogica si indicano il progetto di vita, la relazionalità evolutiva, la coerenza logica e metodologica, l'evolvere, lo storicizzarsi, il propiziare il divenire.
Lo stesso Fromm ci offre uno strumento operativo ulteriore, utile per i pedagogisti non meno che per gli psicologi sociali, E' quella che chiameremmo "educazione all'attività", che poi è anche educazione mediante l'attività.
"l'attività non significa <<fare qualche cosa>>, ma avere un'attività interiore, l'uso produttivo dei propri poteri (...) La situazione paradossale per un gran numero di persone, oggi, è quella di essere mezzo addormentate quando sono sveglie, e mezzo sveglie quando vogliono dormire. essere ben desti è condizione indispensabile per non annoiarsi (...) Essere attivi nel pensiero, nel sentimento, con gli occhi e con le orecchie, durante tutto il giorno, evitare di perdere il proprio tempo (...) E' un'illusione credere che si possa scindere la vita in modo tale da essere produttivi (in una sfera) e improduttivi in tutte le altre." (pag. 133-134); e viceversa. Sono riferiti, come da soggetto del volume, all'amore: per noi, sono riferibili a qualunque significativo campo di umanità, e relativa educazione, nonché intervento del pedagogista.
Infine, un'avvertenza. Ci può capitare di parlare di un caso intitolandolo come del caso "di una famiglia", "di un rapporto madre-figlio" o "padre-figlia", di "una coppia", di "una Partnership", di "una casa" e via elencando. Non è sbagliato e non va corretto, purché si abbia chiaro che si tratta di sineddoche, cioè di figure retoriche molto comuni, dall'impiego peraltro lecitissimo. La sineddoche consiste nell'indicare il tutto per le parti, come nella fattispecie (o la parte per il tutto, e ne esistono significati più ampi): più o meno, come quando si dice che "l'Italia intera saluta gli Azzurri campioni del mondo", per indicare con un certo effetto, appunto, retorico ciò che hanno fatto gruppi consistenti di cittadini italiani.
Noi, però, abbiamo per interlocutori degli uomini. I nostri casi sono casi di uomini. E' su quelli che intende essere efficace l'interlocuzione, è loro che aiutiamo con questa come con altre relazioni d'aiuto di competenza pedagogica.
Ovviamente, noi interloquiamo con uomini che non sono in vitro, astratti dall'ambiente; al contrario, essi sono in vivo e "in situazione", e la cosa è fonte di problematicità (e quindi di spinta propulsiva) oltreché segno di realismo. Vale a dire che sono in situazione e in vivo, ed è proprio questo che consente di espletare l'opera nostra. Ma, quando aiutiamo (ad esempio) "una coppia" o "una famiglia" o "una casa", aiutiamo gli uomini che vi afferiscono, mentre l'aiuto indiretto è solo presuntivo, non mirato, e non è neppure sempre necessario.
Dobbiamo precisarlo, perché per noi l'unica essenza, l'unica realtà non strumentale, è e rimane l'uomo. La famiglia, la coppia, la casa, il rapporto di genitorialità e figliolanza (e quant'altro) è per l'uomo, mai viceversa. Almeno per noi. Fuor di retorica, noi pedagogisti in quanto tali non aiutiamo "la famiglia", non interloquiamo con "una coppia"; ma noi aiutiamo uno o più suoi componenti, interloquendo con essi, (anche) per il fatto che ne sono componenti.
Ciò premesso, allora si capisce che la modalità di presentazione delle casistiche che segue è la più immediata e, forse, quella didatticamente più efficace. Ma teniamo a mente che ad essa dovremo imparare a sostituire una presentazione del caso centrata sul soggetto: non il caso della famiglia con il padre X assente la madre Y sacrificata e che si riversa sul figlio maschio W e porta ad atteggiamenti viziati verso l'altro sesso la figlia Z"; bensì, il caso del signor X, ferroviere, cultura media, 52 anni, appassionato di bocce (ecc. ecc.), coniugato con la signora Y (ecc. ecc.) che hanno due figli (ecc. ecc.), il quale si trova nella situazione problematica descritta.
Quanto segue non reca nomi né pseudonimi né iniziali, come usa in certe indagini mediche o psicologiche o sociologiche casistiche, salvo che per il brano letterario nel quale l'autore parla di sé stesso. Ma dovremo imparare a prendere i casi da altra prospettiva.
Questa asserzione va sotto il vaglio dell'esperienza futura. Come vi vanno e vi andranno tutte le asserzioni di nostra pertinenza.
 

La casistica del "Don Giovanni", al maschile...

Dopo aver sommariamente delineato i "caratteri" maschile e femminile (noi diremmo: quelli culturalmente determinati come "maschile" e "femminile") e aver ricordato che comunque entrambi i caratteri coesistono nei maschi e nelle femmine reali seppure in misura diversa, senza peraltro parlare di "temperamento" diverso e di determinazione socio-culturale e non biologica di questa diseguaglianza, Fromm osserva:
"Spesso, se nel carattere maschile i tratti sono indeboliti perché emotivamente è rimasto infantile, egli tenterà di compensare questa mancanza col sesso. Il risultato è Don Giovanni, colui che ha bisogno di provare la sua virilità fisica perché è insicuro della sua virilità di carattere. Nei casi estremi, il sadismo (l'uso della forza) diventa il principale sostituto della virilità." 14
Il discorso è chiaro nella sua sinteticità, psicologicamente corretto, ed evoca molti fenomeni evidenti all'esperienza di tutti.
Lo psicologo, in effetti, ravvisa bene il nesso, ma non è in grado di suggerire strategie e progetti di vita alternativi.
Noi osserveremmo, innanzitutto, che qui si apre un campo notevole di educazione, che questo "Don Giovanni" ha bisogno di una potente azione educativa nel carattere (nel temperamento, o "carattere attuato", tra carattere "dato" o dalla nascita, e carattere "acquisito" nella vita): e che questa può avvenire nel dialogo con il pedagogista, come in un'interlocuzione a tre che prenda anche la partner,
Potrebbe essere preziosa anche un'interlocuzione con quel genitore o quei genitori che avessero concorso efficientemente a tale debolezza di carattere; lo diciamo consapevoli della estrema difficoltà, per una prevedibile non apertura da parte di questi, se anche disponibili.
Si tratta di capire che questo "Don Giovanni" trova nella ricerca affannosa e nevrotica di espressione di virilità fisica, e talvolta di sadismo (con possibili temperie tra i due atteggiamenti) solo un magrissimo sollievo; si appaga poco del sesso, ed ancor meno della pratica violenta quale che sia. Vi sono rischi di assuefazione e di Escalation vertiginosa ed inarrestabile, e sempre in un quadro di totale insoddisfazione (per non dire dello squilibrio).
Situazioni problematiche, probabilmente, ne avvertirà di tali da non essere in grado di metterle direttamente in relazione con il suo comportamento sessuale: segni di debolezza in altri rapporti umani, nel lavoro, nella famiglia, nelle interazioni culturali, nello sport, nella politica; probabilmente senza cogliere che in un esercizio della sessualità sempre invariabilmente abnorme, e sempre altrettanto insoddisfacente, cerca una compensazione impossibile, e trova una insoddisfazione certa e costante.
Tali segni di debolezza, si capisce, possono anche prendere la forma di auto-dimostrazione del contrario, mediante l'esercizio di violenze e soprusi nei confronti di chi è chiaramente più debole, o non è in grado di difendersi,
Può darsi che egli non avverta il problema del mancato appagamento sessuale, e che anzi seguiti a cercarlo appunto nell'Escalation. Non lo troverà: ma il pedagogista dialogherà sulle altre innumerevoli manifestazioni di debolezza di carattere, e seguirà tecniche di autobiografia 15 (non è la regressione all'infanzia della psicanalisi) più o meno formalizzate per cercare di riprendere le fila di un processo educativo evidentemente inadeguato.
Un riconducimento della pratica sessuale a dimensioni proprie per sé e la o le Partner, ed insieme a soddisfacimento reciproco, può essere perseguito quindi per vie esterne al discorso sull'esercizio della sessualità.
 

... e il suo reciproco al femminile

Di seguito, c'è un'ancor più sintetica, e altrettanto chiara e fertile, prospettazione del caso reciproco: "Se la sessualità femminile è indebolita o impoverita, è trasformata in masochismo o possessività." 16
Verrebbe da dire: se si incontrano i due soggetti, trovano un equilibrio di coppia, che potrebbe funzionare anche bene, e che verrebbe (psicanaliticamente) vissuto in modo positivo, magari soddisfacente. Del resto, né il semplice masochismo né il semplice sadismo, presi a loro stessi, integrano una patologia neurologica, a meno di estendere smisuratamente il significato di questa locuzione; non si tratta, comunque, necessariamente di nevrosi. Il carattere sado-masochistico non è una perversione.
Il problema è che le cause sono altrove. Per cui questa donna eventualmente in possesso di un equilibrio sessuale, o questa coppia che trova dentro di sé un ménage ottimo a sé considerato, ha problemi altrove.
Così, sui tratta di vedere come certi episodi, ad esempio, di fallimento nel lavoro dell'uno o dell'altro, o di improvvise e apparentemente immotivate crisi di violenza dell'uno o di auto-violenza dell'altro, od altri fenomeni distruttivi, oppure atteggiamenti non realisticamente rinunciatari nella vita, vanno ricondotti nel discorso pedagogico a questa pratica della sessualità per soddisfacente e non patologica che possa sembrare.
Signora (o signore), se lei ha di queste crisi inspiegabili, di queste sconfitte non meritate, di queste fughe dalla realtà ritenendosi non in grado di affrontarla, pensi a come esercita le pratiche sessuali, a quanto sono d'amore maturo e compiuto e quanto di altro genere. Le sconfitte non sono meritate, ma non vincerà mai e non farà molta strada (nel lavoro, nella famiglia, nella cultura, nello sport,...) se non ripensa a quale carattere si manifesta nel sesso.
Viceversa, non troverà nel sesso che poca soddisfazione, al massimo un qualche riequilibrio (magari notevolmente stabile, o fin stabilissimo, peraltro...) perché nel lavoro, nella cultura, nello sport,... si comporta in quel modo.
In più, qui si prospetta un altro dominio problematico: quello del rapporto di possessività verso il Partner, di violenza anche da codice penale verso la Partner; ed un altro ancora, quello del rapporto di possessività castrante e tarpante verso i figli.
Molte "madri latine" 17 si formano anche così.

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Cerchiamo di non dimenticarci, considerato il contesto teorico di sfondo della nostra ricerca pedagogica, che ai nostri tempi "Al posto dell'amore incondizionato (...) noi troviamo immesso nell'immaginario della madre il sentimento di possessività tipicamente borghese." 18.
 

Le "madri latine": la non indipendenza dei figli

Ed ecco quindi una casistica ben nota, e quasi scontata.

Un "tipo d'amore nevrotico che si verifica spesso al giorno d'oggi, riguarda uomini che nel loro sviluppo emotivo sono rimasti legati alla madre in modo infantile. Si tratta di uomini che non si sono mai distaccati da lei. Questi uomini sono ancora come bambini; vogliono la protezione della madre, la sua tenerezza, le sue cure e la sua ammirazione; vogliono l'amore materno incondizionato" (pag. 101). I metodi escogitati nei millenni dalle cosiddette "madri latine" perché i loro figli, nel crescere, non si rendano indipendenti da loro sono innumerevoli. Sono talmente numerosi, e talmente fantasiosamente variati, che non è neppure il caso di tentarne una tipizzazione.
Diciamo però almeno una cosa al riguardo: che non è un cordone ombelicale non tagliato, è semmai la costruzione di un cordone ombelicale artificiale, che postula nel figlio una qualche impossibilità a provvedere a talune sue necessità (o tali ritenute) da solo e per proprio conto.
Molti sono i metodi, ma la fattispecie problematica è la stessa: "madri che si dedicano ai figli in modo vampiresco e distruttivo. A volte in nome dell'amore, a volte in nome del dovere, vogliono tenere con sé il bambino, l'adolescente, l'uomo; egli deve essere in grado di respirare, ma attraverso loro; non deve essere in grado di amare che in modo superficiale, degradando tutte le altre donne; non deve essere in grado di raggiungere libertà e indipendenza, ma deve restare un eterno succubo o un criminale. (...) La madre può dare la vita e può toglierla. E' lei che crea, è lei che distrugge; può compiere miracoli d'amore, e nessuno può nuocere più di lei." (pag. 103).
E' compito del pedagogista rilevare tanto, specie quando si manifesta sotto fattispecie benevole e amorevoli. E da lì iniziare l'interlocuzione.
Ribadiamo che si tratta di "non indipendenza", e non di "eteronomia": "etero-nomia" significa, anche etimologicamente, che i soggetti non si danno da sé le regole in base alle quali condurre la loro vita, ma le assumono da fuori, da altri: non significa anarchia, e neppure auto-archia: le regole per la vita uno se le dà tenendo conto del contesto nel quale vive. Si tratta, ancora una volta, di creazioni umane, e la creatività umana, umanamente significativa, non è mai arbitraria, in nessun caso, come sappiamo 19.
Anzi, il darsi regole compatibilmente con i contesti nei quali si vive o si intende vivere (e relative regole) è, fra l'altro, parte di una sana indipendenza, anzi un passaggio obbligato (una condizione necessaria, ovviamente non sufficiente) per essa.
In un certo senso, invece, la permanente dipendenza dalla madre latina passa anche attraverso la negazione di tutto ciò. Una forma di anti-pedagogia sagace, patrimonio non virtuoso delle madri latine, le conduce con sicurezza allo strumento (in questo caso, al viceversa o complementare, condizione sufficiente, largamente sufficiente). La "madre latina" da parte sua "sa" che suo figlio rimarrà sempre non indipendente da lei, se ed in quanto egli non saprà essere auto-nomo entro le norme e le leggi (nómoi) del loro contesto di vita.
Da un lato, egli svilupperà una sostanziale insicurezza nei riguardi della madre, nel senso che non sarà rispetto a lei stessa auto-nomo. A ciò corrisponde una sostanziale ripulsa verso l'accettazione delle regole necessarie a vivere la vita indipendentemente dalla madre, e quindi che sostanzialmente egli non sarà neppure etero-nomo: svilupperà più rifiuto per gli oneri che ciò comporta, e minore anelito per i vantaggi che ne derivano, ed insieme maggiore attaccamento verso l'apparente a-nomia del contatto di dipendenza con la madre.
La madre latina non emenda il figlio delle sue più importanti asocialità, cioè anomalie e anomie sociali. Presso la madre latina si possono confessare le proprie mancanze e trovare credito e remissione infiniti ma, soprattutto, incondizionati: basta un insincero proponimento di non ricaderci, a volte non occorre nemmeno quello, e non occorrono soprattutto né atti concretamente di riparazione e di espiazione, né azioni miranti a rimuovere cause e disposizioni proprie che portano ad azioni censurabili.
E' da notarsi che anche nella religione cristiana, in particolare in quella cattolica, si trova remissione totale, assoluta, illimitata dei peccati; ma non incondizionatamente, anzi a condizioni a volte durissime: ci vogliono il riconoscimento esplicito dei peccati, il dolore, il proponimento di non più ripetere, la penitenza, e alla base un rimettersi totalmente a ciò che il Ministro di Dio rappresenta. Anche secondo Fromm, la religione cattolica è una "religione del padre", nel senso ormai noto; egli è stato anche uno studioso delle religioni di grande lucidità ed acume 20.
La madre non solo è quella che rimette sempre a posto i guai combinati dal figlio per anarchia ed anomia esterne: è quella che si manifesta proprio in quell'atto: quanto più il figlio è incapace di assumersi le sue responsabilità derivanti dagli atti compiuti in siffatto stato patologico nei confronti delle leggi e delle norme, quanto più e a-nomo e an-archico, tanto più sarà dipendente da lei che le regole le norme e i poteri li ha acquisiti, e quindi è in grado di ricevere e dare ciò che al figlio manca.
Nella madre che copre e rimedia a tutte le magagne dei figlio, gli paga i debiti, gli sistema i malanni combinati, ne mantiene lo stato di tossicodipendenza, lo lascia a poltrire fino ad età incredibili senza terminare gli studi e senza lavorare, tollera e fin seconda abitudini di vita incompatibili con la società (tirar tardi la sera, dormire fino a mezzogiorno, svuotare la vita di senso costruttivo,...), che incolpa sempre e immancabilmente gli altri (società, compagnie, partner, insegnanti, datori di lavoro, lo stato, la società, la collettività,...) per tutti i fallimenti esistenziali del figlio, non manifesta amore, in particolare nel senso di Fromm: manifesta possesso e desiderio di dipendenza del figlio da lei. Finché avrà debiti da pagare, finché combinerà guai ai quali rimediare, finché non sarà capace di prendere su di sé stesso la propria vita e le proprie responsabilità, rimarrà della madre.
A volte pare masochismo, ma è il reciproco: una forma di violenza verso il figlio, una forma gravissima e perversa, ipocrita nella sua cappa di buonismo, che sta così bene con la mentalità borghese tanto essenzialmente violenta quanto essenzialmente costituita di comportamenti insinceri, inautentici, dissimulatorii. Ricordiamo il romanzo di Radiguet.
In certi casi, almeno, pare corretto e doveroso "comprendere l'egoismo", con Fromm, "confrontandolo con l'avida preoccupazione per gli altri, quale, ad esempio, la troviamo in una madre iperprotettiva e dominatrice. Mentre ella crede consapevolmente di amare in modo particolare il suo bambino, in realtà ha nei suoi riguardi un'ostilità profondamente repressa. E' iperprotettiva non perché ami troppo il bambino, ma perché deve compensare la propria incapacità di amarlo." 21
E' solo un esempio: un esempio di egoismo avido, come altri.
La madre che lascia suo figlio parcheggiare all'università a tempo pieno senza laurearsi fino a trent'anni ed oltre, apparentemente accontentandosi di patetiche e incredibili bugie, in realtà sa od intuisce perfettamente che sono bugie: e difatti, in genere, non compie neppure quel minimo di indagini semplicissime che le permetterebbero di smascherarle anche nei fatti. Non vuole smascherarle. Vuole le bugie, che mantengono il figlio incapace di terminare gli studi e poi di cercarsi un lavoro e con il lavoro l'indipendenza. Può sembrare un po' paradossale un cordone ombelicale che eroga soldi per inutili tasse universitarie e spese che non dovrebbero essere fatte dai genitori: ma, appunto, si tratta di un cordone ombelicale artificiale; e le madri latine riescono a questo ed altro.
Si è mai pensato a come si sviluppa l'assurda situazione del nostro mondo del lavoro, per cui a fronte di milioni di disoccupati ci sono milioni di occupati extracomunitari, anche in regola e con contratti di lavoro tutt'altro che da disprezzare. "Fanno i lavori che gli italiano non vogliono fare" è un modo sostanzialmente falsato di guardare alla realtà; in molti casi, è documentato, gioca in modo determinante la non volontà a muoversi da casa (cosa che ora capiamo meglio), e a volte c'è una perversa alleanza tra la madre e la partner. In tutt'altri contesti, qualche decennio fa, il giovane si muoveva non solo da un capo all'altro dell'Italia, ma da un capo all'altro dell'oceano e del mondo, quando i trasporti non erano quelli di oggi, né la trasmissione ei messaggi, e neppure le condizioni. Senza un soldo, senza un lavoro, senza nulla, e per questo mio...
Lavoro, studi: ma sono innumerevoli le inadempienze del figlio sulla via del suo pieno insediamento sociale sussidiate e mantenute dalla madre. Vita disordinata, regole violate, improduttività in tutti i sensi, assenza di obiettivi concreti, tirare a campare...
Anche il lavoro saltuario, spesso nero o quasi, può diventare non un modo di accedere al mondo del lavoro, o di supplire ad una condizione di vita autonoma desiderata per stabile, ma un modo rassicurante di non accedervi, Gattopardescamente, cambiamo qualche cosa perché non cambi nulla.
Ha preso un diploma di ragioniere, oddio con un voto basso ma quella commissione era prevenuta e c'era chi gliel'aveva giurata, c'erano insegnanti invidiosi, e poi è il pezzo di carta che conta, no? Poi si è iscritto in una delle Università più prestigiose d'Italia per il suo corso; è ancora lì, ma che vuoi, con questa università, in questa società... ha fatto domande nelle migliori banche, nelle assicurazioni, nei migliori ministeri, nelle municipalizzate, nel parastato... e aspetta, povero e buonissimo figlio mio, caro di mammà...
Qualche madre aggiunge una (per solito risibile) lista di pretesti per i quali il figlio non avrebbe colto (o mantenuto) concrete possibilità di lavorare: per lo più, che non sarebbe stato adeguatamente realizzato, valorizzato, che lo sfruttavano schiavisticamente, che non lo capivano, che il lavoro non gli conferiva, che aveva altre vocazioni...
Qualcun'altra, invece, non aggiunge niente: si ferma là, più vicina (meno lontana) alla descrizione della situazione reale.

E' probabile che non pochi di questi casi ci vengano poi sottoposti, per lo meno là dove arriva la consapevolezza di che cosa possa fare, di che cosa si possa occupare, il pedagogista professionale. In effetti, come si è visto e come si può facilmente intuire, il pedagogista ha parecchio da fare in casistiche come queste. Lo psicologo, forse, un po' meno.
L'attività ha un legame stretto con quella di orientamento che, come dovrebbe essere noto, non è la scelta degli studi, ma un aiuto alle scelte di vita delle quali quelle degli studi sono una parte, peraltro importante, ma che non può essere trattata a parte o secondo propri ed interni principi.
A parte questo, e per quel che ci interessa di più in questa sede: si tratta, in sostanza, di vedere fin dove arriva l'apertura della madre, prima ancora che non quella del figlio che è dipendente anche a questo riguardo.
E' un complesso di casi nel quale si vede bene, ancora una volta, come il pedagogista debba essere un buon metodologo, secondo regole note: problematicità, coerenza logica e formale, controllabilità con i fatti, senso della storia, senso della critica, idea per l'uomo, seguendo vie già largamente tracciate 22.
Il pedagogista non è lo psicologo che cerca di far dire le cose al paziente, di fale emergere: noi abbiamo interlocutori, con i quali abbiamo noi qualche cosa da dire: il modo di dirlo andrà ovviamente calibrato sull'interlocutore stesso, ma le nostre norme metodologiche diventano deontologia.
Ci risulta efficace il felice paragone che Freud operò tra le "rievocazioni" breueriane e le sue "associazioni libere", con reminiscenza leonardesca. Nel primo caso si tratterebbe di procedere come per la pittura per via di mettere: le suggestioni del terapeuta si sovrappongono al sintomo patologico senza eliminarne le cause. Nel secondo, ritenuto per ciò evolutivo, si tratterebbe di procedere come nella scultura per via di levare: quanto di patogeno viene portato al conscio è levato dall'inconscio nel quale agisce.
Il punto di vista pedagogico manifesta bene la sua differenza focalizzando l'attenzione, in luogo dell'entrare in una dialettica chiusa tra il mettere e il levare, sulla categoria del modificare evolutivamente.
Individuare i problemi, motori e occasioni di evoluzione; le eventuali incoerenze e l'imprescindibilità della coerenza (non contraddittorietà, univocità, terzo escluso, presa in carico di tutte le conseguenze logiche delle ipotesi di scelta, ridiscussione del sistema di premesse se anche una sola conseguenza non è o accettabile o realistica), disposizione a confrontarsi con la realtà cercando le falsificazioni ai propri convincimenti, dubbio sistematico e disponibilità alla revisione, disponibilità a far vivere le idee proprie nell'evoluzione storica e quindi a farle evolvere, sottomettere qualsiasi idea (compre se quelle "indiscutibili" dell'educazione materna) a criteri di congruità e di strumentalità per l'uomo al quale esse si applicano. E così via.
Il nostro lavoro, in questo caso, è relativamente facile, anche perché c'è un dépistage "canonico" (direttamente ovvio) da operarsi ad altre figure del mondo del lavoro da operarsi abbastanza presso.
Il limite della non onnipotenza dell'intervento educativo è quello, appunto, dell'apertura degli interlocutori, in particolare della madre.

N.B.: è appena il caso di aggiungere che "madre latina" è anch'essa locuzione culturale, non biologica. La "madre latina" può essere il padre, e di fatto lo è sempre più spesso; anche se le madri biologiche seguitano ancora a detenere una prevalenza notevole, come per secoli e più.

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E torniamo a Fromm e al "figlio latino" (la locuzione è nostra; "maschio latino" indica tutto un altro concetto... o no?) che cerca nella partner una madre non nel senso di esserne dominato ma nel senso di averne tutto ciò di cui ritengono di aver bisogno per il solo fatto di ritenere di averne bisogno.
"Se trovano la donna giusta si sentono sicuri, sentono di avere il mondo in pugno (...) Ma quando, dopo un certo tempo, la donna cessa di appagare le loro fantastiche aspirazioni, conflitti e risentimenti cominciano a manifestarsi. Se la donna non è sempre in ammirazione davanti a loro, se pretende di vivere una vita sua, se vuole essere amata e protetta lei stessa e, in casi estremi, se non acconsente a perdonargli relazioni amorose con altre donne (o anche ad avere interesse o ammirazione per esse), l'uomo si sente profondamente offeso e deluso, e di solito giustifica il proprio stato d'animo dicendo che la donna <<non lo ama, è egoista e tirannica>>."
La donna, insomma, ha violato le "regole": quali? Quelle che l'uomo ritiene essere tali, quelle mutuate dalla propria madre, o a questa attribuite, od anche da questa pretese, nel senso inglese di pretended (= finte). La madre che lo ammirava incondizionatamente (conoscete casi di madri che esaltano ogni minima azione insignificante del figlio?), che rinunciava ad una vita sua per la simbiosi con il figlio, che non aveva esigenze (salvo quella di avere il figlio con sé) o per lo meno fingeva molto bene di non averne, e che non poteva essere gelosa in quanto il figlio tornava "sempre a mangiare la sua minestra, dopo tutto".
Fromm è coerente lungo tutto il suo pensiero nel rifiutare ogni forma di "simbiosi" come rapporto non di amore, o meglio come "incomplete forme d'amore che possono chiamarsi unioni simbiotiche". Ce ne possono esser di tanti tipi: simbiosi del genitore (la madre, nella nostra cultura) con i figli o con uno dei figli, o simbiosi tra Partner, come in casistiche che vedremo più avanti. E su tutti questi casi, ed altri analoghi, dobbiamo avere non minore chiarezza di quanta ne ebbe lui: "In contrasto con l'unione simbiotica, l'amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità. L'amore è un potere attivo dell'uomo; una forza che annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare il senso d'isolamento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere se stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell'amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due." (pag. 32-33)
L'amore fa superare ben altro che le pareti: e fin qui ci siamo. Ma quante volte mi è capitato di dire: se è amore, deve dare bene tutt'intorno! Credo di averlo detto, per lo più, inascoltato.
Sono, semmai, i concetti di "sadismo" e di "masochismo" che andrebbero visti in tutta la loro complessità e in tutte le loro diversificate fenomenologie, anziché ridurne oltremodo il significato.
Ma, tornando alla casistica: qui non si tratta di tentare un impossibile equilibrio tra un "uomo latino" e una donna che vuole essere moglie non "madre latina"; si tratta semmai di vedere di riprendere un discorso educativo che a quel maschio è stato negato. E gli è stato negato sotto le mentite spoglie di fare "il suo bene".
Se il maschio non vuole?
Non si può fare, ovviamente; ma neppure può cambiare Partner all'infinito, alla ricerca di quello che non può esserci.
Domandiamoci semmai quali discorsi si possano fare alla Partner, od aspirante tale, che crede di poter accettare quella posizione impropria e viziata (in cambio di qualche cosa, una posizione sociale ad esempio) e si illude di poterla tenere all'infinito; e che magari subito dopo comincia a rendersene conto, accusando ogni sorta di contraccolpo...

Fromm stesso ci spiega che non sempre l'amare la Partner come madre sfocia in patologie neurologiche (pag. 102-103): è così. E non sempre sfocia neppure in patologie socio-culturali, o in anomalie pedagogicamente rilevanti.
In non pochi casi, la "vita amorosa, se non quella sociale, sarà una seria delusione; conflitti, e spesso intensa ansia e depressione sorgeranno non appena il soggetto è lasciato solo." Esistono casi più gravi, ed allora "il desiderio non è, simbolicamente parlando, di tornare tra le braccia protettive della madre, e nemmeno al suo sesso, ma nel suo grembo che tutto riceve e tutto distrugge (...) il che significa sfuggire alla vita."
C'è tutto un dialogo da fare, che riprenda il filo di quest'educazione materna mancata o, meglio, negata. L'interlocutore maschio propriamente non ha avuto una madre, come figura educante. E si deve vedere in che misura poi risentisse anche direttamente di scompensi con il padre, come ha sentito indirettamente degli scompensi tra i suoi genitori.
E' un discorso, insomma, che non potrà essere molto breve: ma esso va ma per linee note. Riguarda un amore che si finalizzi all'autonomia dell'amato, insieme condizionandosi ai gradi del suo effettivo conseguimento. Non ti amo di più e più pienamente se fallisci nella vita, insomma, ti amo nel tuo riuscire. O nel tuo non riuscire.
Guardiamoci con la massima diffidenza, con Fromm, dalla datività che si auto-definisce "disinteressata".

Si badi bene, che c'è il rischio di un'interferenza pesante: che è quella accennata, della Partner (aspirante, od effettiva) che segue un ragionamento non molto lontano da quello della madre-suocera, cioè che vede nei difetti dell'uomo (questi, od altri) un modo di tenerlo più strettamente legato a sé. O è un calcolo cinico e ipocrita: mi basterà fingere di ammirarlo, dissimulare, recitare di non sapere; e poi le mie soddisfazioni me le prendo da me, tenendomi il "buon partito". Oppure è un calcolo sbagliato, i sacrifici che impone quella coppia non andranno senza conseguenze negative, da un parte o dall'altra, probabilmente da entrambe.
Non è improbabile che queste ricadano sui figli: nuova "madre latina" frustrata ed insoddisfatta di un rapporto con il marito che pensava di accettare; nuovi "figli latini" che poi cercano una nuova "madre latina" nella Partner la quale sarà insoddisfatta. E così via.
 

Un brano letterario (Alberto Bevilacqua e la madre)

Probabilmente non è la stessa cosa.

Ma leggiamoci, alla luce di quanto discusso, un brevissimo estratto da una raccolta di scritti brevi nei quali Alberto Bevilacqua affronta una quantità enorme di sfaccettature dell'erotismo.
Conosciamo già le critiche che Fromm muove a quello da lui stesso definito "Amore erotico". Qui Bevilacqua riesce ad essere di un garbo eccezionale.

"<<Vieni>> mi disse quando le fui tanto vicino da riconoscerla, con un senso di meraviglia che superò il mio batticuore. Afferrò la coperta e scoprì il lato del letto accanto a lei.
Era Ada Vitali.
La notte tornavo a Ghiare e, il giorno dopo, tremavo. Mi chiudevo in bagno e non facevo che guardarmi il pene.
Mia madre cominciò ad aspettarmi sveglia.
<<Vieni>> mi diceva anche lei. Ora, con una dolcezza che non le conoscevo. Mi portava in bagno. Mi apriva i calzoni e mi controllava. Mi lavava accuratamente con acqua e sapone, poi mi cospargeva con una soluzione contenuta in una bottiglietta, che mi bruciava. La lasciavo fare.
Capii più tardi che non era una fissazione, ma l'atto d'amore materno più grane in cui si fosse espressa fino a quel momento." 23

Discussione
 

Riflessioni da una reminiscenza classica mitica: le vulnerabilità di Achille e di Sigfrido

Il "tallone d'Achille" è una diffusa metafora ad indicare il punto debole di una persona: meglio, un punto debole di una persona di qualità enormi e fondamentalmente tetragona, un lato vulnerabile di carattere abbastanza marginale, ma tale da consentire di averne ragione. Ci sono grandi professionisti, il cui "tallone d'Achille" è la scarsa capacità di "vendersi"; e commercianti e finanzieri capaci e di grossi capitali, che si rovinano avendo il "tallone d'Achille" del gioco sui cavalli.
Achille, protagonista con la sua "ira funesta" dell'Iliade, era figlio del "mortale" Peleo e della nereide Teti, ninfa del mare. Questa, consapevole di non aver generato un immortale, volle renderlo invulnerabile immergendolo nelle acque del fiume Stige; ma lo fece tenendolo per un tallone, che rimase (appunto) l'unico segmento del suo corpo vulnerabile; e lì lo colpirà Paride, rapitore di Elena al marito Agamennone, durante la guerra di Troia, uccidendolo.
E' notevole che un'analogia fortissima si presenta anche nella mitologia germanica, precisamente nel Nibelungenlied o Canto dei Nibelunghi, poema medievale. Anche in quella sede, distante millenni come ordine di tempo e altrettanto in termini di cultura, il principe e guerriero Siegfried o Sigfrido da giovane acquisisce l'invulnerabilità immergendosi nel sangue del drago Fafnir ucciso, ma tale invulnerabilità è solo parziale a causa di una foglia di tiglio che gli cade su una spalla, coprendola: e lì sarà colpito e ucciso da Hagen, per opera della sua ex amante Brunhilde gelosa della felicità della sua sposa Crimilde..
Vi sono molte altre differenze: in particolare, i ruoli femminili, di sfondo e come prede nell'epica greca, Walkirie protagoniste e fattori volitivi e decisivi di storia nell'epica tedesca.
Ma, a parte questo e a parte le diverse maledizioni o predisposizioni che intervengono nelle due epiche, da pedagogisti notiamo un motivo di fondo: che per quanto l'uomo possa anche solo immaginarsi di fare per raggiungere una sorta di perfezione (che sarebbe l'invulnerabilità per un guerriero), non ci riesce, per un motivo o per l'altro, comunque per un motivo necessario, o naturale. Qualcosa sfugge sempre; può sembrare cosa piccola, e con certi criteri si può anche pensare che lo sia (è una porzione della superficie corporea minima); non gli impedisce di essere eroe, prode guerriero, di amare ed essere amato, di essere cantato; ma non lo esime dall'umanissima morte.
Siamo, insomma, sempre all'imperfezione umana: la quale per un guerriero (o per un poeta epico) può anche essere vista solo come un difetto, ma per il pedagogista è il rovescio della medaglia della perfettibilità. Si è detto e ripetuto 24: siamo soggetti di storia, di cultura, di arte, di scienza, di tecnica, di evoluzione culturale, e di educazione, proprio perché siamo imperfetti (non "nonostante la nostra imperfezione", che sia chiaro); e quindi perché siamo anche perfettibili. Semmai, dovremmo educare a questo, alla deontologia umana della ricerca del meglio, consapevoli che il Bene assoluto (se anche esistesse) non lo raggiungeremmo mai.

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E questo è già un primo punto. Ma c'è dell'altro.
Queste semplicissime reminiscenze sono importanti per il pedagogista, che rimane prima di tutto un operatore culturale. Ma le abbiamo collocate proprio in coda al discorso sulla "madre latina" perché ci offre elementi per un po' di riflessione ulteriore.
Presso Sigfrido e nel Canto dei Nibelunghi, si diceva, le figure femminili sono diverse che non nella cultura greco-antica. Per quel che riguarda Achille (non ci sono solo l'Iliade e un passaggio dell'Odissea, c'è dell'altro, ad esempio l'Achilleide di Stazio) la madre si è preoccupata della sua invulnerabilità come guerriero: e, aggiungiamo, quel figlio da un mortale come Peleo lei l'aveva voluto perché le era stato predetto che sarebbe stato il più forte di tutti.
Insomma, madri o non madri, è la riuscita nelle sue qualità intrinseche che preoccupa, in quelle culture.
Ci si domanda, invece, quante volte nella cultura delle "madri latine" non finisca per prevalere il senso protettivo materno anche a scapito e a negazione di tale inclinazione: inclinazione umana all'attuare le proprie potenzialità e a proiettarsi sempre "oltre". dal "Ricordate la vostra semenza" di Dante in poi.
E da temere che molte "nereidi" latine abbiano la possibilità di immergere il loro bambino in qualche Stige: ma che esse lo facciano preoccupate più della protezione materna immediata (che non prenda freddo, che l'acqua non sia sporca, che non si ferisca, che non rimanga bagnato al vento...) piuttosto che non di ben altre invulnerabilità che varranno più avanti e soprattutto lontano da loro. Così, lo immergeranno solo dopo averlo amorevolmente coperto in tutto il corpo dei vestitini da loro stesse acquistati o confezionati.
Poi, per tutta la vita si raccomandano che i figli si mettano la maglietta di lana, che si rimbocchino i colletti, che si chiudano stretta la sciarpina, che abbiano per girare per le nostre città esibendo attrezzature anti-freddo dello stesso tipo di quelle che Reinhold Messner ha impiegato per scalare tutti gli "Ottomila" del mondo e per raggiungere il polo...
E d'estate: il berrettino, attenti al sudore, i rischi d'eritema, non bere troppo, non bere troppo poco, gli U.V.A. e gli U.V.B....
L'educazione, spesso, è stata quella: un non potersi rafforzare nei confronti degli impegnativi cimenti della vita, perché tenuti da ciò "amorevolmente" al riparo da madri possessive. "Io mio figlio lo ho amato tanto, che l'ho sempre protetto da tutto e da tutti.".
E va notato che non si tratta solo, né sempre, di eccesso d'amore malinteso; si tratta proprio di repressione, di un tarpare ali, tagliare gambe e castrare, come ci insegnava Freud prima di Fromm. E sempre Freud ci insegna assai bene che le nevrosi hanno una grande capacità di mimetizzarsi sotto mentite nobili spoglie: come l'inibito con le donne dirà che è un gentiluomo, e il fobico che è prudente, così la madre egoista e oppressiva dirò che il suo è amore materno. Il quale, chissà mai perché, dovrebbe essere il più grande.
E', insomma, un discorso educativo da riprendere daccapo, con tutti quei soggetti che si rivolgono a noi con una storia di questo tipo (così consueto) alle loro spalle. Un discorso "materno" in senso culturale, che può compiere il Pedagogista (maschio o femmina che sia) ricominciando dalle prime interazioni contrastate con la realtà: dalla maturazione, per la quale l'affrontare le difficoltà, con impegno e sacrificio, ma anche con rischio, anche facendosi male quando occorre, è condizione necessaria, e imprescindibile 25.
Anche questo, è un soggetto d'interlocuzione abbastanza facile, e generalmente si tratta di un'interlocuzione a due: ma una tale relazione d'aiuto va svolta con molta pazienza, e su tempi prevedibilmente non brevi; il che va controbilanciato con l'attenzione per i rischi della Einfühlung.
Qualche insidia c'è, nel rimediare ai guai delle "mamme latine"...
 

La non onnipotenza dell'intervento educativo, in un caso di tele-interlocuzione

"Navigando" per reti telematiche, mediante quegli strumenti che la tecnologia mette sempre più ampiamente a disposizione di tutti (un Computer e un Modem, un linea telefonica, nonché il Software necessario), si ha anche la possibilità di scambiare interminabili conversazioni con interlocutori che acquistano tutta una loro identità che non è quella fisica e diretta, ma non è meno umanamente rilevante.
In molte conversazioni, si parla un po' di tutto (e di niente), del più e del meno (più "meno" che non "più", nella maggior parte dei casi).
E pure, capita di fare il pedagogista anche in questi casi.
E' noto a chi ci lavori che i messaggi telematici sono quanto di più scarno ed essenziale si possa pensare: spesso, sono scritti di getto (senza neppure curare l'ortografia), con trasmissione e dialogo che possono anche essere "in tempo reale", con il cosiddetto Chat Mode, cioè la modalità (più o meno) della chiacchiera, od in Log-off, vale a dire nel breve messaggio che si prepara (per lo più) sul momento all'atto della disconnessione. Ma anche quando sono messaggi pre-stilati, e scambiati volta a volta uni-direzionalmente, non sfuggono mai alla scarna essenzialità. Non per questo, tuttavia, si deve credere che abbiano un significato umano minore: certo, è un significato umano più difficile a cogliersi che non in pagine e pagine di lagrimosi romanzi d'appendice.
Ed inoltre, è interessante l'impiego (che vedremo largamente esemplificato) di brevi riprese del messaggio immediatamente precedente, od anche di più messaggi precedenti, con la scrittura della sigla dell'autore con il simbolo ">": in termine tecnico, Quoting. Per evitare fraintendimenti, estrapolazioni arbitrarie ed altre scorrettezze che minano ogni dialogo, e per rimanere nell'alveo di un discorso che interessa, tenendovici anche l'interlocutore, è prezioso alla sola condizione che non se ne abusi. Per esperienza, posso affermare che in tanta interlocuzione postale "tradizionale" ho sentito spesso la mancanza di un accorgimento del genere 26.

*****

Il mio interlocutore telematico, del quale intendo parlare, è un soggetto simpatico e disponibilissimo con il quale ho una certa assiduità telematica. Ha circa 35 anni, è professionista nel settore sanitario, e ha da sempre una grande competenza informatica, nonché molta attitudine per il bricolage informatico e di casa. Sulle prime lo avevo scambiato per un professionista del settore dei Computer; invece, quello che fa (ed è molto) in questo settore lo fa assolutamente gratis e per diletto, con uno spirito di volontariato raro, con disponibilità umana enorme, ma solo sul piano personale (oppure nella categoria professionale). Non è un medico, è un operatore di elevato livello nell'ambito sanitario.
Abita a circa 3-4 ore di macchina dalla mia casa. Non l'ho mai visto di persona.
La cadenza media degli interventi non va oltre l'uno (per verso) alla settimana.
Ad un certo punto, nel corso degli anni, dopo lunghi preliminari la conversazione prende a riferirsi anche ad un suo assenteismo dalle riunioni e dai momenti conviviali delle associazioni dei "navigatori" della sua zona. Lo si indica con le iniziali maiuscole, che sostituiremo con "XY". Si riportano i brani come stanno, con la sola espunzione di una informazione che ne consentirebbero la localizzazione geografica.
L'avvio di questo segmento della ben più complessa comunicazione è in coda ad una mia missiva elettronica, dopo aver parlato del suo interesse per il sistema operativo Linux al quale aveva dedicato intere giornate di festa:
 

FB>>  Tu fuori di casa non ti ci fai trascinare: ma una telefonata
FB>>  amichevole l'avresti gradita, oppure ti avrebbe distratto?  :-? :-*

XY>   Avrebbe risposto la segreteria, probabilmente.

   Ma tu ci fai, o ci sei proprio????   '-)
 
   Tu non  esci di  casa, immagino  neppure per  la "pizzata"  del 13.  Ma
quella volta  ti ci  eri barricato  talmente, che  neppure  rispondevi  al
telefono?
 
   In compagnia  di Linux,  oppure di una qualche Lina o Linuccia (aggettivi che si riferiscono alla sua zona), con  tutte le Subdirectories a posto???? Ultima aggiornatissima Release, tecnicamente perfetta??
 

Ed ecco la sua prima risposta.
 

 FB> Ma tu ci fai, o ci sei proprio????   '-)
 FB> Tu non  esci di  casa, immagino  neppure per  la
 FB> "pizzata"  del 13.

Vero.

 FB> Ma quella volta  ti ci  eri
 FB> barricato  talmente, che  neppure  rispondevi  al
 FB> telefono?
 FB>

Quando lavoro non rispondo mai.
Forse e' opportuno dirti che io non ci sono mai, al numero che conosci, la
sera, poiche' sono solo, e abito coi miei. E quando anche ci sono, lascio
andare da sola la segreteria (i pazienti li ho abituati cosi') o il BBS (non gli servo, se la cava da solo). Quando ci sono faccio contabilita', studio, o metto a posto l'ambulatorio o il magazzino....(o gioco a Warcraft, gioco stupendo dove ormai me la cavo proprio bene!  ... :-)

 FB> o Linuccia (omissis), con  tutte le
 FB> Subdirectories a posto????

Purtroppo non mi hanno voluto quando era il momento giusto, ora non ci penso proprio piu'. Solo lavoro e computer.

All'interlocuzione, si capisce non viene data una piega monocorde. Al messaggio successivo si discute di mille cose, per lo più di soggetto informatico, come sempre: ma c'è una domanda.
Non è più che un cenno, ma il pedagogista sa che questo è ciò che può e deve fare.

 FB>>  Ma tu ci fai, o ci sei proprio????   '-)
 XY>   (risposta molto precisa, riassumibile in un "ci sono proprio")

   Spero di  non essere  stato inopportuno. scusami, ma il mio mestiere mi
porterebbe...
 

   XY>   Purtroppo non  mi hanno  voluto quando  era il momento giusto (le
   XY>   donne), ora non ci penso proprio piu'. Solo lavoro e computer.

   Alla tua eta'?
   Non e' una risposta professionale, ti assicuro.

La settimana dopo arriva la risposta, tra mille altre
 
  XY>>   Purtroppo non  mi hanno  voluto quando  era
  XY>>   il momento giusto (le donne), ora non ci penso proprio piu'.
  XY>>   Solo lavoro e computer.

FB>    Alla tua eta'?

E' cosi'.

 FB>    Non e' una risposta professionale, ti assicuro.

..ma e' cosi'...

Nuovamente, dopo tempo, tocca a me; e, tra mille altre cose:

 XY>    E' cosi'.

   Vuoi parlarne?

Passano alcune settimane, per ragioni esterne: impegni di uno dei due interlocutori.
Ed ecco, alla fine di un ricco messaggio successivo:

 RZ>>   E' cosi'.
 FB>    Vuoi parlarne?

No, meglio parlare di computer.

*** Risposta al msg. 144.

Msg. seguente ( S)i', N)o, A)ncora, R)ispondi, C)ancella, *)Area seguente ): s

E non c'è stato seguito nello specifico, anche se sono continuati regolari i messaggi di posta elettronica. Il pedagogista rimaneva lì.

L'interlocutore sa bene che può contattarlo senza nessuna difficoltà in qualsiasi momento, per via telematica, o ad uno dei recapiti telefonici (compreso il telefono mobile), oppure che quattro ore scarse di macchina o poco più di treno vogliono dire accessibilità senza alcun problema.
E' poco?
E' trascurabile?

Ad ogni modo, sono andato a riprendere altri brani di questa comunicazione che ora si legano a questi.

Circa sei mesi prima, ad una proposta di trovarci un sabato od una domenica, anche con mia moglie e miei figli, in qualche osteria delle sue parti, aveva risposto (sempre all'interno di comunicazioni aventi altri oggetti principali):
 

 FB> Mia moglie concorda che un sabato o una domenica...

Io lavoro ANCHE il sabato e la domenica. La mia domenica e' il mercoledi'.
E quando ho finito di lavorare sono spesso cosi' stanco che desidero solo
un lettone morbido.

 FB> potrebbe venire in gita dalle tue parti: e trascinarti
 FB> fuori (in quattro) da qualche osteria locale.
 
 

Apprezzo il pensiero, ma bada che io proprio non sono affatto abituato, e
per me sarebbe molto stressante. Guarda, ti faccio ridere: sono cosi'
disabituato che non ho neppure un vestito adatto. O camici, o abiti fin
troppo alla buona. Non ho neppure la macchina (benche' sia patentato da 10
anni) , tanto non mi serve.
Va bene, lo so, sono al limite della patologia, ma io adoro la mia casa, i
miei computer, i miei libri. Fuori e' freddo e non ci vado se non ho uno
scopo preciso.
 

E un paio di mesi prima ancora, ad una domanda relativa alla sua partecipazione ad una precedente manifestazione dello stesso circolo di amatori delle reti telematiche, era uscito questo passaggio:

 FB>  Bella la festa di domenica 29 settembre?

Non ci sono andato. Io non esco mai di casa, ci sto troppo bene. L'unica e' cominciare a spararmi addosso; forse nel tentativo di scappare potrei
imboccare la porta..

Il dialogo permane. Quello è sicuro. Per entrambi.

AFAIK si dovrebbe scrivere in gergo telematico, cioè "as far as I know" (a quel che ne so), che può essere un'ottima formula di Understatement.

E' tutto.

########
 

Tornando ora a trattare di "madri latine", e ad affrontare problemi che presentano qualche analogia, ecco un'ampia casistica da studiare.
 

Lo squilibrio delle figure materna e paterna, culturalmente intese come le intende Fromm, nella maturazione, e le patologie che possono insorgervi dal punto di vista psicologico e da quello pedagogico

Innanzitutto, Fromm ricorda e chiarisce ulteriormente il suo parlare delle figure "paterna" (amore condizionato, esistenza umana, insegnamento, direzione) e "materna" (amore incondizionato, natura e fabbisogno naturale, origine della vita,...), e che si tratta sempre di immagini culturali.
Il passaggio logico successivo sta nel concetto che ciascuno deve finire per riassumere in sé stesso equilibratamente (capitolo "L'amore tra i genitori e il bambino", pag. 48-55).

E già qui c'è tutto un discorso di carattere pedagogico da fare: si noti come la dimensione educativa manchi del tutto in queste riflessioni di Fromm, peraltro molto acute e stimolanti: o il processo si compie regolarmente, quasi "da solo", oppure è patologia. Viceversa, tra i compiti dell'educazione vi è il fare sì che processi di maturazione come quello che Fromm delinea, e che non sono né facili né automatici né naturali né "naturali" (ovvii), siano portati felicemente e positivamente a compimento, superando le difficoltà che c'è da attendere che intervengano sempre, e cercando di prevenire le possibili patologie.

Ciò detto, sono sicuramente tutte interessanti le casistiche ipotizzate nel merito di sviluppo nevrotico, patologico di una patologia di rilievo psicologico:

"un ragazzo ha una madre troppo indulgente o troppo autoritaria, ed un padre debole e distratto. In questo caso può restare legato infantilmente alla madre e sviluppare una personalità subordinata ad essa; è un debole, ha bisogno di essere protetto, curato, e manca di qualità paterne: disciplina, indipendenza e capacità di costruirsi la vita." (pag. 54) L'aggettivo "paterne" non va virgolettato nel contesto, essendo chiaro che cosa Fromm intenda; fuori del contesto le virgolette si impongono, assieme ai chiarimenti necessari.
"Se, d'altro conto, la madre è fredda, indifferente e autoritaria, lui potrebbe trasferire il bisogno di protezione materna nel padre - nel qual caso il risultato finale è simile al precedente - oppure il padre si svilupperà in un padre unilaterale, completamente votato ai principi della legge, dell'ordine e dell'autorità, e privo della capacità di aspettarsi o di ricevere amore incondizionato. Questo processo si intensifica se il padre è autoritario e al tempo stesso attaccato al figlio." (pag. 54). Sta pensando (anche) a Hitler, al quale dedicherà trattazioni ampie in altre opere 27.
Insomma, molte patologie sono leggibili impiegando lo strumento concettuale del mancato equilibrio all'interno del soggetto delle figure "paterna" e "materna" nel senso di Fromm. "Ulteriori analisi possono dimostrare che certi tipi di nevrosi, come la nevrosi ossessiva, si sviluppano più facilmente nei casi di unilaterale attaccamento paterno, mentre altri, come l'isterismo, l'alcoolismo, l'incapacità di affermarsi e di affrontare realisticamente la vita, e le depressioni, sono il risultato di un carattere materno accentratore." (pag. 54-55).
Più avanti, ritorna sul concetto: "la causa principale dell'amore nevrotico sta nel fatto che uno degli amanti (e talvolta tutti e due) è rimasto ancorato all'immagine di uno dei genitori e trasferisce i propri sentimenti, speranze e timori, che un tempo sentiva per il padre o la madre, sulla persona amata nell'età adulta.". Anche il participio passato "amata" andrebbe, secondo noi, messo tra virgolette. Ci chiederemmo, nuovamente e per quanto già detto, se non abbia un significato molto preciso anche dal punto di vista pedagogico che le coppie si formino, non di rado, su un presunto equilibrio tra squilibri reciproci.
Questo squilibrio, ad ogni modo, rimanda ai discorsi fatti più sopra sulle "madri latine".

E' chiaro che queste patologie, come disequilibri che si riflettono e si riscontrano nella relazionalità umana, nella cultura, nei rapporti sociali e familiari, hanno anche rilievo pedagogico.
Per ciascuno di essi si può ipotizzare quindi un intervento educativo anche quando si sia constatato che lo sviluppo non è stato equilibrato nel senso prospettato da Fromm. E proprio in casi come questi diviene opportuno.
Noi sappiamo che l'educazione non ha mai fine, e che qualunque sia la situazione del soggetto egli è sempre passibile di evoluzione culturale e quindi un possibile interlocutore educativo, a condizione che presenti la necessaria apertura.
L'intervento del pedagogista professionale è quindi ipotizzabile per un soggetto umano che si trovi all'interno di ciascuno di questi grandi raggruppamenti di casi. Si tratta di dialogare sugli effetti relazionali esterni dei disequilibri "di maturazione" indotti da cause come quelle ipotizzate da Fromm, discutendone l'evidente incongruità umana: vediamo insieme come il tuo atteggiamento verso i figli sia da "madre latina", tu non riesca ad affermarti nella vita per quanto realisticamente ti sarebbe possibile, la tua visione della vita sia dimostrabilmente errata per irrealismo, ... Si tratta di discuterne altresì le condizioni nelle quali ciascuno è cresciuto relazionandosi con figure "paterne" e "materne" in modo non promozionale: raccontami come era il tuo rapporto con tuo padre, non per quello che riguardava esplicitamente il suo prepararti a leggere la realtà o ad affermarti in essa, ma per come vi relazionavate reciprocamente; e ragiona sul come questo possa aver avuto effetto sul tuo relazionarti con la realtà. Oppure: vediamo quali differenze, e quali nessi non espliciti ma ricostruibili, vi siano tra come tua madre trattava te, e come tu tratti tuoi figli; se il tuo eccessivo atteggiamento di possesso su tuoi figli sia caduto dal cielo, o abbia qualche riconducibilità nella tua vita e nella tua autobiografia; e via dicendo e pensando.

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Per quel che riguarda l'isteria, che è malattia non sessuata e che non riguarda per nulla l'utero come sarebbe da etimo, ci vuole qualche riflessione specifica. sarà un'occasione buona per parlare anche d'altro.
 

Qualche nota d'approfondimento sull'isteria

L'isteria è un caso particolarissimo di sindrome la cui immagine clinica si è storicamente consolidata attorno all'idea di malattia sine materia, di sintomatologia fisica senza base organica e di ascendenza psicologica. Tra i suoi caratteri più rilevanti vi sono un'affettività intensa ed insieme immatura e labile, suggestionabilità, dipendenza, e una tendenza alla drammatizzazione esasperata che arriva alla teatralità e all'esibizionismo.
Ippocrate (460-377 a.C. circa), che è il primo grande medico dell'antichità (il secondo è Galeno) aveva avuto un'intuizione felice nell'individuare la patogenesi dovuta a squilibri (a "discrasíe") endocrini del soffio e dei quattro umori corporei (sangue, flegma, bile gialla, bile nera). Proprio in relazione a quest'ultima, Melaíne kolè, sappiamo oggi che c'è una malattia che trova la propria causa effettivamente in una secrezione endocrina insufficiente di amine, endorfine ed altre sostanze essenziali nella regolazione dell'umore, sia per cause ereditarie che per cause situazionali-reattive: si tratta di quella Depressione che è la ippocratica Melancolía. Nel caso invece della sindrome che da allora chiamiamo "isterica" ancor oggi, l'individuazione della sede fu errata, anche se capiamo l'errore: l'utero (hysteron, in greco) non c'entra, uomini costretti a vivere come le donne in certe particolari società e culture nelle quali manca loro un rispetto che non sia molto parcellare e pro forma, repressi ed oppressi, ristretti, nella piena consapevolezza che le proprie opinioni non contano nulla, che sono assolutamente incapacitati di determinare parti anche limitate della proprie vita e del proprio destino, eteronomi e non liberi, accusano lo stesso stato patologico.
Si ricordino a questo riguardo gli Studien über Hysterie (1859) all'inizio degli studi Freud, scritti con Joseph Breuer: questi misero in luce l'importanza terapeutica per l'isteria di un complesso di meccanismi (l'abreazione, lo "sblocco") che, a ben vedere, nonostante il contesto culturale fortemente borghese e a connotazione di genere fondamentale, non erano per nulla sessuati 28. Fu una delle fonti della psicanalisi o, meglio, una tappa verso di essa.
L'analisi dell'isteria come problema relazionale presenta degli aspetti pedagogici estremamente interessanti 29.
Come scriveva Cesare Musatti, "Isterico significa uterino: e si riteneva appunto che tali alterazioni provenissero dall'apparato genitale femminile.
La malattia si manifestava con alterazioni di comportamento, con bizzarrie, che avevano talvolta qualche rapporto con la vita affettiva del soggetto (donde il nome e l'interpretazione del meccanismo patogeno).
L'utero in realtà non c'entrava affatto. E si riscontrò anche l'esistenza, sia pure in misura più ridotta, di uomini affetti da disturbi isterici. (...)
L'isteria dipende (...) da determinate condizioni ambientali. Nell'Ottocento la donna, nei cosiddetti paesi civili, ha vissuto in uno stato di repressione sessuale. Possiamo rendercene conto se confrontiamo la percentuale di donne frigide di allora con quelle attuali.
La frigidità femminile non è elemento che impedisce la fecondità e la maternità. Tuttavia, statisticamente, negli ultimi cinquant'anni si è avuta una notevole riduzione della frigidità, rispetto all'epoca precedente.
La frigidità femminile, inoltre, non ha certo i caratteri e gli effetti dell'impotenza maschile. Freud diceva che l'orgasmo nella donna è un dono gratuito della natura, perché quell'orgasmo non è cosa necessaria al fine che avvenga la fecondazione e la donna svolga la funzione assegnatale dalla natura." 30.
In effetti, è una sindrome nevrotica che a lungo non ha preso il maschio, per lo meno non visibilmente, perché la cultura nella quale erano immersi entrambi i sessi portava la donna a quel tipo di possibili sintomatologie, e l'uomo a tipi diversi. Oggi, se si volesse, si potrebbe appurare quanto i maschi manifestino chiare sindromi isteriche, in relazione ad una vita repressa, compressa, sacrificata, senza rispetto umano, nella quale essi debbono vivere oggi: non sarebbe una ricerca con esito negativo, ed anzi porterebbe elementi ulteriori per uno sguardo "stereoscopico" di quel problema anche sotto l'aspetto strettamente socio-sanitario.
Vi sono, semmai, quelle variazioni non di sostanza che possono (quelle sì) dipendere da differenze biologiche. Uomini che si danno ad estemporanee pantomime, purché ci sia pubblico, anche se si può trattare di pantomime formalmente diverse da quelle inscenate da donne; uomini che si difendono alzando la voce ma non in modo aggressivo e prevaricante bensì in creazione di alternative fittizie, di antagonismi fantasmatici, di fuga dalla realtà; uomini che accompagnano e avvicendano a stati d'acuzie un potente servilismo, nel quale bene si rispecchiano le accettazioni recitate (con convinzione migliore che non nella realtà) delle dipendenze isterogene, e proprio di quelle (tanto che proprio in quella particolare circostanza ben si legge l'eziologia del male). Ci sono moltissimi uomini isterici, probabilmente sempre di più; anche qui avremmo da chiedere molto alle donne, vale  dire a chi per secoli e millenni ha conosciuto quella malattia coltivandone la cultura e le tecniche di sopravvivenza, e soprattutto ricavandone strumenti concettuali ed operativi per una cultura della salute come "star bene", come stato di benessere fisico, psichico e sociale complessivo.
Il problema, è chiaro, è più generale. E' questa una concettualità che è andata profondamente modificandosi in questi anni di transizione, e le cui modificazioni vanno considerate attentamente proprio dai pedagogisti, in quanto li coinvolge in modo essenziale, e non solo per quella che potrebbe essere una riverniciatura delle vecchie modalità di educazione alla salute 31.
Si tratta di pensare alla "salute" in positivo, cioè non come semplice assenza di malattie: il concetto, oltre a tutto, rimanda a quello di "normalità" la cui evanescenza è sempre più evidente un po' in tutti i settori della cultura, da qualche decennio ed oggi in particolare. Si tratta essenzialmente di "star bene", il che significa tante cose: star bene con sé stessi, e star bene con gli altri, che significa avere un senso della vita, della propria vita e del proprio agire nella vita e nella società; avere un equilibrio interiore, che significa anche prevenzione ad esempio della depressione o di altri problemi analoghi che hanno una dimensione interna; star bene con gli altri e in mezzo agli altri, che significa equilibrio e positività interpersonali, sociali, politiche, economiche, lavorative ed anche prevenzione dell'isteria; e star bene nel relazionamento tra l'interno e l'esterno, che è probabilmente il problema pedagogicamente più rilevante, e comunque riguarda la dimensione (intermedia) meno studiata.
Luciano Corradini, animatore al riguardo di diffusi progetti ministeriali di Educazione alla salute nel senso intuibilmente lato che ne risulta, osserva che "Si fa di solito riferimento alla definizione di salute dell'O.M.S., che parla di benessere fisico, psichico, mentale, sociale e anche morale, come risulta da successivi approfondimenti; e, se si parla di equilibrio, si aggiunge che esso va inteso in modo dinamico, che chiama in causa, oltre agli stati dell'organismo, i sentimenti, le idee, le convinzioni, insomma la cultura della persona: cultura intesa non tanto come un <<bagaglio>> da portare con sé, quanto come un modo di essere, di pensare, di progettare, di agire e d'interagire." 32.
Come scrive Raffaele Tortora, "è cresciuta in questi anni la consapevolezza che l'<<educazione alla salute>> deve porsi come obiettivo non soltanto la mera informazione, con conseguenti e controproducenti campagne terroristiche incentrate sullo studio della malattia, quanto piuttosto la positività della cura di sé stesso, la valorizzazione della salute quale <<bene>> in sé, espressione di un benessere psicofisico, dello star bene con sé condizione per stare bene con gli altri e nella società." 33
Vi sono tutte le premesse per una visione largamente pluralistica dell'educazione: proprio la tematica della salute, nell'accezione ampia d'oggi, la Pedagogia è pressantemente richiesta di manifestarsi con intersoggettività scientifica e non con parzialità ideologiche.
C'è posto per una visione attenta alla società, come quella di Dieter-Jürgen Löwisch, che al problema dello <<star bene> offre una collocazione generale: "Alla base di <<bene comune>> e di <<comune>>, come di <<comunità>> v'è il significato di <<generale>>, <<universale>>. Il termine <<Wohl>> indica bene (in inglese <<Well>> e <<Welfare>>). Alla base del pensiero del bene comune v'è la constatazione di Hegel: <<Non v'è bene senza diritto>> (Filosofia del diritto, pag. 130). Il pensiero del bene comune è vecchio e si trova già nei romani rispettivamente nelle formule bonum comune o bonum publicum; res publica (Repubblica). Nel francese troviamo bien commun, bien public; nell'inglese: common good, public good." 34. In italiano, rimane diffusa la traduzione impropria di "Welfare State" in "stato sociale"; esistono espressioni come il latinismo "la cosa pubblica", o "bene comune"; forse si deve riflettere sulla scarsa disponibilità di locuzioni siffatte.
Ma c'è posto anche per una visione più individualistica, come quella utilitaristica di Lutz Rössner 35, e che si traduce nel Greatest-happiness-principle che egli riprende proprio da Cesare Beccaria: "La maggiore felicità divisa per il maggior numero" 36.
In effetti, l'isteria è una sindrome nevrotica che a lungo ha preso l'uomo maschio solo in maniera borderline perché la cultura nella quale erano immersi entrambi i sessi non portava il maschio a quel tipo tutto particolare di sintomatologia. Era la collocazione della donna nella società a giocare un ruolo determinante, quindi un fatto culturale, e nulla di biologico, né meno che meno la presenza dell'utero.
Per rendersene conto, consideriamo ad esempio che già nel secolo scorso "alcuni medici ritenevano che gli ebrei condividessero con le donne una tendenza all'isteria"; gli ebrei maschi, si intende, quelli che nello stesso contesto erano ritenuti "aggressivi nei confronti del sesso femminile, lascivi e corruttori di ragazze cristiane." 37. Delle femmine ebree non si parla; e comunque, va notato che proprio questo "fantoccio polemico" serviva anche pedagogicamente a costruire quella idea di "rispettabilità" borghese che si integrava con il nazionalismo "ariano". A proposito di altri contesti, ma parimenti borghesi, Fromm osservava (negli anni Settanta) che "cent'anni fa (...) negri e donne erano paragonati a bambini; si supponeva che fossero facile preda delle emozioni, ingenui, privi di senso della realtà, per cui non ci si poteva fidare di loro quando si trattava di prendere decisioni, li si considerava esseri irresponsabili anche se deliziosi." 38
Oggi, il ricercare le concretizzazioni delle sindromi isteriche negli uomini, e le cause (con le ricorrenze con le cause delle sindromi analoghe presso le donne ottocentesche) non darebbe esito negativo, ed anzi porterebbe elementi ulteriori per uno sguardo "stereoscopico" di quel problema anche sotto l'aspetto strettamente socio-sanitario. Vi sono, semmai, quelle variazioni non di sostanza che possono (quelle sì) dipendere da differenze biologiche. Uomini che si danno ad estemporanee pantomime, purché ci sia pubblico, anche se si può trattare di pantomime formalmente diverse da quelle inscenate da donne; uomini che si difendono alzando la voce ma non in modo aggressivo e prevaricante bensì in creazione di alternative fittizie, di antagonismi fantasmatici, di fuga dalla realtà (e, dopo essersi esibiti in grida e "spettacoli" sconvolgenti, sono assolutamente calmi e composti); uomini incapaci di affrontare positivamente la vita, di affermarsi, di realizzarsi, uomini sconfitti dentro di loro stessi, con auto-stima inesistente, spesso essendo stati educati da madri "latine", possessive ed accentratrici; uomini che accompagnano e avvicendano a stati d'acuzie un potente servilismo, nel quale bene si rispecchiano le accettazioni recitate (con convinzione migliore che non nella realtà) delle dipendenze isterogene, e proprio di quelle (tanto che proprio in quella particolare circostanza ben si legge l'eziologia del male). Ma, per questo, si sono viste ampie casistiche, ed altre si vedranno.
Il fatto che le donne abbiano a lungo detenuto il quasi monopolio di questa sindrome (e relative sintomatologia) ci offre un'ulteriore esempio di quanto bisogno si abbia oggi proprio di cultura "femminile", specie nel senso borghese, come si è visto più volte nella parte I. Quegli uomini isterici, sempre più numerosi e sempre più istericamente vistosi e rumorosi, dovranno ricorrere alla cultura maturata e conservata per secoli, nonché alle relative tecniche di sopravvivenza, proprio dalle donne. Da questo, con la relazione d'aiuto tipicamente pedagogica, si potranno ricavare strumenti concettuali ed operativi per una cultura della salute come "star bene", come stato di benessere fisico, psichico e sociale complessivo secondo quanto ha enunciato l'O.M.S., e come si è richiamato poco sopra.
Certo, qui il problema dell'apertura si fa più acuto.
La soluzione qui, come in tanti altri casi, può passare attraverso un'interlocuzione d'aiuto pedagogico che guidi il soggetto al confronto con altre realtà umane per come esse sono, e non per come egli si è immaginato che fossero, così concorrendo a crearsi problemi gravi. In altri casi, dove il padre o la madre "reali" od entrambi siano differenti da quelli idealizzati od interiorizzati o le cui conseguenze siano state indebitamente fatte proprie dal soggetto, dobbiamo auspicare che questi genitori siano ancora vivi: il confronto con la realtà, guidato, aiutato, mediato da noi, è una grande risorsa.
Qui è da sperare che sia ancora viva una antenato la quale abbia sufficiente familiarità, evochi immagini presenti al soggetto e non viste per isterogene, ma che le abbia vissute per tali, o per lo meno che abbia avuto a suo tempo testimonianze adeguate e probanti in tal senso.
Il consultare la propria nonna (o prozia, per esempio), per comprendere come ella abbia fatto lei a sopravvivere in positivo nella situazione nella quale si trovava mezzo secolo fa, e il trarne indicazioni positive perché il nipote (maschio) possa imparare a vivere le situazione odierna nella quale si trova lui, e che è parimenti isterogena, è un'operazione semplice, anche se fortemente contro-intuitiva. Ma pensate a quale apertura ci voglia sia in lui che in lei.
Lei, probabilmente, non parlerebbe per nulla, soprattutto con un maschio, e con un discendente di sangue. O con un discendente di parentela acquisita. Ma si può puntare sull'affetto, e si sa che le nonne danno ai nipoti quello che, da madri, non avrebbero dato mai ai figli.
Ma pensate al nipote...
Si tratterà di vedere quanto gravi sono le difficoltà nelle quali il "nipote" si trova, e quindi fino a che punto sia in grado di vincere blocchi di orgoglio malinteso, e di stupido maschilismo.

Aggiungo solo che, per la mia esperienza personale, questa del "confronto con la realtà" di parenti o comunque di altri uomini o donne vicini alla vita del soggetto costituisce una preziosissima modalità d'esercizio dell'interlocuzione pedagogica in tanti casi come questi.
E che, d'altra parte, ho potuto ben appurare ciò che è intuibile, cioè che molte volte non è possibile per indisponibilità di qualcuno degli attori. Sono i casi nei quali è difficile non avere strascichi interni, per quanto ciò concorre a rendere più saldo il convincimento della non onnipotenza dell'educazione.

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Torniamo a Fromm, e alle casistiche da lui direttamente riepilogate.
 

A proposito di famiglia patriarcale e famiglia nucleare

Egli tiene costante e ripetuta in questa sua opera, come in molte altre, la sua critica A Freud, in particolare sulla scissione tra sessualità e amore, e sulla sua convinzione che la libido (desiderio sessuale ed insieme orientamento all'azione per cercare di soddisfarlo) fosse solo maschile.

"le teorie di Freud erano parzialmente influenzate dallo spirito del diciannovesimo secolo (...) si basano sull'esperienza del maschio patriarcale nel mondo capitalista del diciannovesimo secolo" (pag. 98 e 100)

Qui, non entriamo nel merito della correttezza (o della non disfunzionalità) della statuizione di Fromm per quel che riguarda lo specifico psicoanalitico e di psicologia clinica.
Possiamo anche non rimarcare più che tanto il cenno al "capitalismo", la cui accezione negativa è datata (l'opera è uscita in prima edizione nel 1956, sappiamo): per noi, è una connotazione puramente storica, il periodo borghese può essere chiamato anche "capitalista", come ad esempio "vittoriano", "della prima rivoluzione industriale", "del Nazionalismo, dell'Idealismo e del Romanticismo", anche in ipotesi nelle quali si abbia a che fare con realtà (ad esempio) di professioni libere, estranee alla realtà britannica, una realtà europea, positivistica e naturalistica, Una realtà, cioè, come lo era quella di Freud, medico, ebreo austriaco con relazioni internazionali molto forti, e fondamentalmente razionalista positivista.
Semmai, ricordiamo che in quest'opera ed in altre, egli torna più volte sul motivo della corrispondenza tra proprietà privata e transizione al patriarcato da un possibile matriarcato preesistente 39. E' una notazione culturale, anch'essa con qualche riferimento datato, che va fatta ma che non modifica quanto abbiamo da dire nel merito.
Invece, non possiamo accettare la confusione tra la famiglia borghese o "nucleare", che poi era quella di Freud, e la famiglia "patriarcale". Freud aveva mosso in modo molto marcato da problemi che aveva vissuto fin da bambino nei suoi rapporti con un padre e una madre tipici della casistica borghese, e con i comportamenti relativi. In quella non c'era traccia di patriarchi; e neanche Freud era gran che patriarca: possessivo e forse fin strumentale con la moglie, e nel ruolo borghese con i figli, ma non ci sono elementi rilevanti per ipotizzare grandi manifestazioni di autorità patriarcale sua nei confronti di generi, nuore o nipoti, né sue sottomissioni a nonni o suoceri od altri ascendenti familiari, né di preoccupazione per i capitali o le attività del clan che avrebbe potuto ipotizzarsi con lui patriarca (senza virgolette): una sola dei suoi numerosi figli, Anna, seguì la professione del padre ma con riguardo ai bambini; non c'era una attività della famiglia da tenere....
Qui non si tratta solo di una questione nominale. Potremmo anche chiamare Freud "un patriarca" (tra virgolette) nel senso che gli era estranea ogni idea di poli-nuclearità della sua famiglia, tendendo a farla ruotare attorno a sé: ma, in questo, non era qualitativamente differente da tanti "capi famiglia" borghesi.
Si tratta di capire che la strumentalità della moglie e dei figli della famiglia borghese, come quella appunto di Freud, era una cosa sostanzialmente differente da quella di figli e figlie, generi e nuore, nipoti ed altri afferenti, nella famiglia patriarcale. Questa seconda aveva una funzione produttiva e funzionale diretta, e la seconda l'aveva indiretta e, fra l'altro, mascherata e tenuta ferma con una violenza di fondo.
In una famiglia patriarcale tutti i componenti "servivano" a qualche cosa di organico alla funzione della famiglia stessa: o produttivamente nel lavoro (nell'azienda che fa capo al patriarca tutti lavorano in un modo o nell'altro, sia essa agricola, oppure industriale, o d'altro genere), oppure nella vita della famiglia (per cui i figli di tutti erano affidati per lungo tempo ad una donna di famiglia, e così la cucina, o l'accudienza degli infermi o degli anziani o dei non autosufficiente).
Invece, in una famiglia nucleare come quella di Freud in persona, e come quella che fungeva da contesto alla psicoanalisi di Freud, la produttività ed anche la prima decisionalità sia per quel che riguardava il lavoro che per quel che riguardava il funzionamento della famiglia spettava al capo famiglia (e non al patriarca). Questi teneva in prima persona il lavoro e le relazioni esterne; alla moglie competeva, appunto, un ruolo di riequilibrio e di compensazione del marito, e ai figli il vivere di luce riflessa (o, meglio, diffusa, quasi casuale: di "luce riflessa" si diceva che vivesse la moglie) fino a quando non fossero diventati componenti di un nucleo familiare nuovo, al quale li si preparava.
Il possesso da parte di Freud della moglie era quello di un professionista pesantemente chiamato a spendere tutte le sue risorse umane migliori "fuori" del nucleo familiare, e che rientrava nel nucleo stesso riportando i benefici (economici, culturali, relazionali) di tale dispendio, chiedendone il riequilibrio, la ricarica.
Il che non c'entra nulla con il patriarca che possiede assieme alla terra, o all'azienda, o alle pecore, anche la moglie, i figlie, generi e nuore, nipoti, e magari sorelle e fratelli od altri conviventi, chiunque comunque partecipasse della struttura verticistica. E questa dipendenza non si poteva interrompere con un matrimonio, ma solo con la fuoriuscita dalla struttura produttiva, sociale e funzionale della famiglia patriarcale stessa.
Non per questo, sia chiaro, potremmo rilevare un errore di fondo in Fromm: egli, come è in tutta evidenza lungo la sua opera, si preoccupa di delineare due visioni tra di loro alternative esclusive di tutto ciò che è umano, l'una riferentesi ad una figura che si può chiamare convenzionalmente "materna", e l'altra non meno convenzionalmente "paterna". Vale per i rapporti familiari come per la religione, per l'organizzazione sociale come per la cultura, e così via.
Quindi, quando egli chiama anche la famiglia borghese "patriarcale", comprendiamo che intende dire solo che si tratta di un modo (uno dei modi possibili) di intendere una famiglia che sia del tipo alternativo esclusivo a quella matriarcale.
Se, quindi, è chiaro il contesto frommiano, noi potremo impiegare l'aggettivo solo tra virgolette; se non fosse chiaro, dovremo anche specificare che a quel contesto è riferita l'accezione del termine. Altrimenti, incorreremmo senz'altro in una scorrettezza.
 

Approfondimenti su famiglia nucleare e famiglia patriarcale

Fra l'altro, non si dimentichi che (lo si è ricordato al termine della Parte I) l'esercizio della sessualità da parte del maschio sulla coniuge si svolgeva nella famiglia patriarcale in una promiscuità assoluta, difficile fin a comprendersi oggi, ma che era praticata nelle nostre campagne fino a pochi decenni or sono.
Invece, sull'esercizio della sessualità coniugale entro la famiglia nucleare borghese doveva vigere il silenzio più assoluto nei confronti dei figli o di altri conviventi aggregati; e custode inflessibile ne era proprio la moglie, mentre il marito qualche "strappo alla regola" del silenzio poteva anche farlo, di solito con un'intonazione infantilistica, da ragazzino che trasgredisce e fa le prime scoperte, con il tipo sorriso, con la tipica aria da impunito, tutte cose che inducono materna indulgenza.
In un altro saggio, opera fondamentale, Fromm denuncia con riferimento al suo tempo "l'insincerità - spesso non intenzionale - che è tipica dell'adulto medio verso il bambino. Questa insincerità consiste almeno in parte dell'immagine fittizia del mondo che si dà al bambino. (...) Oltre a questa falsa rappresentazione del mondo, ci sono le molte menzogne specifiche tendenti a nascondere fatti che gli adulti, per varie ragioni personali, non vogliono far sapere ai bambini. Dal cattivo umore, che vien razionalizzato come insoddisfazione giustificata per la condotta del bambino, all'occultamento delle attività sessuali dei genitori e dei loro litigi. Il bambino <<non deve sapere>> e le sue domande vengono scoraggiate con ostilità o con cortesia." 40
Sarà il caso di ricordare che l'occultamento dell'esercizio della sessualità anche entro la coppia, ma anche quello dell'esercizio delle funzioni fisiologiche di defecazione e minzione, della pulizia che non riguardasse le sole mani, e fin un certo riserbo nel soffiarsi il naso, o nelle donne nel mostrare la capigliatura sciolta (e via elencando) non solo non c'era nella famiglia patriarcale contadina e pastorale, il che farebbe pensare erroneamente ad una sorta di arretratezza, ma era altrettanto non praticato e fin impensabile nella famiglia e nella società signorili moderne (cioè pre-borghesi). Quel comportamento di morboso occultamento di tutto ciò, e d'altro, si ricollega con un altro concetto tipicamente ed esclusivamente borghese di persona educata, cioè la cosiddetta rispettabilità 41.

In particolare, poi, si noti che nella famiglia patriarcale non era neppure ipotizzabile qualche cosa che assomigliasse alla Privacy o alla Domesticity. Il tipo di chiusura che si manifestava della famiglia patriarcale in sé stessa era altra cosa: era riferita ad una realtà enormemente più estesa che non la famiglia nucleare composta anche solo di tre o due elementi; e ad una realtà qualitativamente differente, anche sotto il profilo pedagogico in senso stretto.
La Privacy non era e non è solo un "lavar in famiglia i panni sporchi". Nella famiglia nucleare l'equilibrio che assicurava il dispendio del maschio fuori e senza limiti nelle proprie risorse umane più pregiate, e un lavoro alienato, esaustivo, nevrotico, e una relazionalità ipocrita mascherata e perbenista e quant'altro 42, richiedeva che nel chiuso e privato della piccola famiglia si "lavasse" praticamente tutto, e non solo i panni "sporchi"...

Fra l'altro, questo "lavare" e "reintegrare" ha spessissimo caratteri non dialogici. Forse ci si parla, e forse no; ma, per lo più, dei problemi di ciascuno non si parla. Soprattutto, è il maschio che si rifiuta di lasciarsi coinvolgere dei problemi della donna, sia di suo disorientamento nel progetto di vita che nel suo difficile relazionamento con i figli che crescono, sia di soddisfacimento sessuale che di salute ginecologica: "roba da donne", era la frase fatta che liquidava la questione 43...

Circa le restrizioni della donna nella famiglia nucleare borghese, ed in particolare la visione ristretta di Freud della sessualità femminile, da un punto di vista pedagogico, si è trattato altrove 44.

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Un residuo di patriarcato si poteva riscontrare fino a non molti decenni or sono nelle famiglie contadine dell'Alto Adige - Südtirol in seguito al permanere dell'antica norma del "Maso chiuso", cioè dell'intestazione della proprietà terriera familiare al solo primogenito maschio onde preservarne l'integrità e la produttività. Spesso, quando la famiglia non aveva altre risorse, gli altri figli trovavano difficoltà a sposarsi senza abbandonare il luogo d'origine; ed in quel contesto si sono riportati eventi di rapporti sessuali regolari con la cognata moglie del primogenito-capofamiglia-proprietario. Si tratta di episodi che avrebbero avuto un potenziale distruttivo assoluto in una famiglia nucleare borghese; e che, invece, in quel caso avevano una funzione equilibrativa e produttivamente positiva, alla sola condizione che non sfociassero in scandali, ingiurie e quant'altro di palese. Anche comportamenti di evidente predilezione da parte dello zio non sposato nei confronti di un nipote sugli altri non venivano neppure fatti oggetto di dubbi destabilizzanti.
Fenomeni del genere, peraltro, si verificano anche in altre zone con diversa legislazione, in situazioni nelle quali uno dei cognati non sia in condizioni di sposarsi, o comunque non si sposi, e mantenga un legame di dipendenza con la famiglia d'origine diventata nucleare non attorno al padre ma attorno ad un fratello coniugato.
Va aggiunto che un riequilibrio a quella legislazione si poteva trovare, e si trova, nella disponibilità di altri beni di famiglia diversi dalla terra, i quali venivano redistribuiti ai cadetti: è quanto è avvenuto per secoli alla famiglia nobiliare inglese, a base terriera, nel periodo della patrilinearità 45.

Esiste patriarcato nella famiglia capitalistica attuale?
Sì e no. L'esigenza di mantenere intatto il capitale di famiglia, quando concretizzato in una grande azienda, è ben presente; vale il controesempio della famiglia Rizzoli, dopo la morte del fondatore Angelo sr. e la diaspora di figlio e nipoti ciascuno a sfruttare la sua fetta. e lasciando il nipote Angelo jr. a gestire un impossibile sviluppo e un fragoroso fallimento.
Ma vi è anche l'esigenza, altrettanto presente e chiara, di mantenere una salda direzione. Il che potrebbe assomigliare al patriarcato, se vi fosse un qualche automatismo nell'investitura del conduttore nel patriarca e poi nel suo figlio maggiore. Non è così, e l'esempio (valido) della Fiat nella quale il comando è passato da una linea ereditaria all'altra (da zio a nipote) e sembra continui in tal senso lo conferma. Si pensi all'ansia con la quale si guarda, in questi tempi, alla grave malattia di Giovanni Alberto Agnelli jr., "Giovannino", nipote dell'Avvocato e designato successore in un'immagine pubblica di tutta l'estesissima famiglia estremamente coerente.
Lo confermerebbe anche l'esempio della Ferruzzi, nella quale tuttavia la gestione del cognato Raul Gardini si è rivelata fallimentare e con esito drammatico (il suicidio, od almeno così ipotizzato) dello Stesso il 23 luglio 1993).
Spesso il "patriarca" tiene le redini fino all'ultimo (si veda il caso del "comandante" Achille Lauro a Napoli, ultranovantenne, caso non molto esemplare in positivo); altre volte tiene il timone fino alla fine, e poi subentra il figlio (Carlo Pesenti, cui alla sua morte nel 1984 succede il figlio Giampiero). Ma altre volte ancora questo "patriarca" passa la mano ad uno dei figli o ad uno dei nipoti, pur assicurando a vita una preziosa consulenza. Siamo, quindi in qualche cosa che assomiglia alla famiglia cognatizia, una delle tre fasi (la prima) attraversate dalla famiglia inglese secondo la brillante ricostruzione di Trumbach 46 cui va aggiunta, esternamente, la famiglia patriarcale che non riguardava la nobiltà ma altri stati e ceti non nobiliari.
In altri casi ancora esiste una pluralità di compiti entro la famiglia: vale per tutti il caso, vincente, dei Benetton.
 

Il paradigma alternativo: la famiglia polinucleare

Qual è l'alternativa rispetto alla famiglia cognatizia, alla famiglia patriarcale, alla famiglia patrilineare, e alla famiglia nucleare?

Oggi diremmo: la famiglia poli-nucleare, quella nella quale si ipotizza una libera aggregazione tra pari. Uno stare insieme nella rispettiva integrità. Un'aggregazione e quindi non una costrizione, aperta, il cui campo d'esercizio è tutto e solo entro l'intersezione delle reciproche attività di vita.
 

Nel caso metaforizzato, la famiglia è propriamente l'intersezione di quattro vite: non è, comprensibilmente, un dato matematico, e la rappresentazione non ha nulla a che rendere per quel che riguarda la quantità, in nessun senso. E' niente più che una metafora. Certo, si può pensare di estendere le intersezioni: ma rimane un margine di autonomia di ciascun singolo.
Come si vede, è aperta anche la possibilità che uno dei contraenti rinunci a parte od, al limite, anche a tutta la sua autonomia sciogliendosi nella famiglia. Sarebbe sempre una famiglia polinucleare, con uno dei nuclei che rinuncia ad esercitarsi come tale, con un nucleo virtuale o vestigiale.
Tuttavia, attenzione. Da un lato, ciò che si inserisce nell'intersezione può essere sempre recuperato, almeno in parte, e comunque nessuno può impedire che ci si provi. Nella vita di ciascuno, ci sono dei beni, delle prerogative, delle singolarità che sono tecnicamente "non disponibili", anche se uno vi rinuncia in buona fede, la rinuncia non vale nulla perché non ha alcun diritto ad operarla. Nessuno ha diritto a rinunciare alla sua persona.
La valorizzazione sotto tutti gli aspetti della maturità e della vecchiaia, sul piano professionale come su quello relazionale, sul piano affettivo e sessuale come sul piano culturale, aiuta e va nella stessa direzione. Dall'altro, qualunque tentativo ciascuno dei contraenti compisse per invadere il campo dell'altro, non potrebbe che compierlo calpestando la parte comune, e quindi sostanzialmente deteriorando quello che c'è in nome di quello che non c'è, di quello che non è da attendersi che si acquisisca, e di quello che non si è legittimati a fare alcunché perché sia acquisito. Oppure, ma solo nel caso che i contraenti siano più di due, l'interferenza nelle prerogative altrui può essere compiuta passando per parti di vita altrui, cioè strumentalizzando qualcuno: i figli, ad esempio, da parte di un coniuge nei confronti dell'altro.
Solo nella coppia, in un rapporto a due, l'unica possibilità di interferire dell'uno sulla parte non comune della vita dell'altro è calpestare e deteriorare la parte comune.

Sarebbe un controsenso, insomma, un autogoal: di matrice evidentemente ideologica.
Sarebbe un esempio ulteriore di quel comportamento basato solo su quegli apriorismi che tanto hanno sorretto la cultura, la relazionalità e la famiglia borghese, che tanto male hanno fatto e più ancora ne hanno legittimato, e che ormai sono, da tempo, in una crisi che è difficile non vedere...
 

Una scenetta non inconsueta

Alcune famigliole nucleari, in spensierata ma vigile vacanza estiva in montagna, si sono incontrate nella casa affittata da una di esse; i figli, bambini e fanciulli relativamente piccoli, giocano nei campi fuori della casa. Si sentono, oltre i muri e le finestre chiuse, i loro legittimi schiamazzi senza che sia possibile decrittarli. Basta sapere che ci sono. Non si allontanano.
Ad un certo punto, entra di corsa il più grande, femmina, una fanciulla: grida con la sua voce naturalmente possente, assordante, che il bambino più piccolo, anch'essa una femmina, è finito sulle ortiche.
Accorre fuori nel posto indicato la madre urlante, con il viso sconvolto, assistita da un'altra madre, la padrona di casa. La bambina, 3 anni, in gonnellino ampio, è saltata letteralmente a cavalcioni nel bel mezzo di un potente cespuglio di orticoni selvatici, di quelli di montagna; è là immobile, e urla la sua disperazione.
E' una bambina, oltre a tutto, leggerissima; le due madri la sollevano e, portandola dentro casa, scrutano le estese e vistose irritazioni cutanee proprio in tutta la zona peri-genitale, scambiandosi occhiate piene d'ansia, d'interrogazione, di smarrimento.
I padri non guardano. Essi non si occupano del problema, considerato senz'altro tipicamente materno, e si astengono dal guardare le intimità di una femmina, seppure bambina di tre anni.
Il padre della bambina, in particolare, ostenta indifferenza.
In casa non ci sono farmaci adatti allo scopo; mentre rapidamente le due madri passano in sommaria rassegna (e scartano) ogni sorta di medicinale ad uso esterno disponibile in casa, arriva il suggerimento da parte di un presente, un altro padre dall'indole empirica: limone! Succo di limone: spremeteglielo sopra...
La destrezza e la velocità nell'aprire il frigorifero, e nel maneggiare il coltello, evoca quelle mitiche dei samurai. Parole sempre meno concitate, e dal tono sempre più rassicurato, accompagnano la diligente ed abbondante spremitura da parte delle due mamme: funziona! Guarda! Dai, ancora. Spremi anche qui. Ancora un po' qui... Finisci questo mezzo... Ne ho un altro... Ancora, ancora...

I padri hanno seguitato ad astenersi con la massima cura dal guardare.
Il padre della bambina ha seguitato nella sua doverosa nonchalance. Solo alla fine, ha controllato, e dato il suo benestare.

Lasciamo al lettore il discutere questo semplicissimo episodio.
 

Per una possibile attualità del mito di Orfeo

Il mito di Orfeo non sarà noto a tutti. Non tutti hanno studiato la mitologia greca antica, non tutti amano l'opera barocca e classicistica: e pure l'opera italiana è nata lì, con l'Orfeo (1607) di Claudio Monteverdi (1567-1643), e ci ha lasciato molte altre rappresentazioni di quel mito, come ad esempio l'Orfeo ed Euridice (1762) di Christoph Willibald Gluck (1714-1787), oltre a tutto un'opera importante perché ha rappresentato una sorta di "riforma" di quel tipo di rappresentazione scenica.
Vediamone una sintetica presentazione.

"E' questo un personaggio mitico fortemente simbolico, che è entrato a far parte di concezioni mistiche ed esoteriche che hanno influenzato perfino il cristianesimo primitivo. Figlio di Eagro e della musa Calliope, o di Polinnia, è di origine tracia ed è il cantore, il musico e il poeta per eccellenza. Inventore della cetra, riusciva con la potenza del suo canto a muovere le pietre e ad ammansire gli animali feroci. Superò in dolcezza il canto delle Sirene, così da trattenere gli Argonauti lontano da esse. Era il marito della ninfa Euridice, per amore della quale scese nell'oltretomba. Accompagnò gli Argonauti nell'impresa del Vello d'oro e fu sbranato dalle donne della Tracia perché si opponeva ai riti di Bacco, o, secondo un'altra tradizione, fu ucciso da Zeus con il fulmine perché aveva fatto delle rivelazioni mistiche ai suoi iniziati. La testa e le labbra del poeta, sbranato dalle Tracie, furono trasportate dal mare a Lesbo, dove gli fu eretta una tomba dalla quale si diceva che uscisse il suono di una lira. La lira di Orfeo fu portata in cielo, dove divenne una costellazione. Attorno alla discesa agli Inferi da parte di Orfeo alla ricerca di Euridice si è sviluppata la religione orfica, praticata nei Misteri: secondo questa dottrina l'anima è costretta alla vita terrena per scontare un peccato e vive nel corpo come in un carcere: l'uomo può ritornare alla vita divina attraverso l'iniziazione e l'osservanza dei riti che servono a purificarlo. Orfeo era anche considerato l'antenato di Omero e di Esiodo." 47

Aggiunge una diffusa enciclopedia: "Suonando la lira riuscì a scendere agli inferi e commosse Plutone e Persefone, che gli concessero di riportare sulla terra la sua sposa Euridice, purché non si volgesse a guardarla. Infranto il divieto, la perdette per sempre. Morì dilaniato da un gruppo di baccanti tracie che aveva respinto." 48

Mi ritrovo in certi miei appunti una nota sintetica, che trascrivo come sta:

"(...) perché perdette irrimediabilmente la sua donna, pur avendo sopportato le prove più ardue e disumane fino alla discesa agli Inferi e al trattare con i Signori di quei luoghi, i più bassi che ci siano?
Perché la prova non stava <<solo>> nel non girarsi a guardare la sua Euridice fino alla fine. Bensì, nel frattempo, egli doveva continuare a cantare, ad esprimere la sua creatività. E lo stava facendo: ma non poteva andare più oltre senza... girarsi a guardare (almeno) la sua donna, perché senza di lei la sua creatività sarebbe rimasta allo stato di potenza. Si sarebbe arrestato dal cantare.
I Signori degli Abissi sanno bene i limiti dell'uomo. Gli avevano dato una prova apparentemente <<umana>>, ma in realtà umanamente impossibile. E Orfeo morrà poi senza la sua compagna, sbranato dalle donne di Tracia. Da altre donne. Ancora.
Ne rimasero i miti, e un rito.
Proserpina (Persefone) apparve (sembrò) più generosa di Plutone. Ed invece, era stato lui l'unico <<umano>> (menschlick): caro mortale, dalla morte non si torna, mai. Proserpina, donna probabilmente insoddisfatta, ben sposata (al massimo del suo ambiente) ma con un marito presumibilmente distratto, forse vecchio, forse infedele e sbrigativo, rimase ingelosita e vulnerata dal vedere l'amore in atto (e quale amore!), quello che a lei mancava. Ed escogitò il modo più raffinatamente femminile per punirlo con perfidia lucida e determinata. Per distruggerlo.
Orfeo, insomma, perdette la sua donna perché un'altra donna, accecata nei sentimenti e forse nel sesso, seppe ingannarlo mettendolo in una situazione impossibile. Il poeta, il creatore. Lasciò un mito e un rito."

Che c'entra?
Io credo che c'entri, e molto. E non solo perché la cultura occidentale ha nella cultura greca classica un componente essenziale 49, il che, da solo, sarebbe sufficiente.
L'idea secondo la quale la salvaguardia di una coppia, in questo caso la sua ricostituzione, richieda essenzialmente al maschio-capofamiglia di adempiere al suo dovere pubblico, diciamo di "fare il proprio mestiere", è una delle idee tipiche della famiglia nucleare.
Questa idea sottintendeva, artatamente, il fatto che perché ciò potesse avvenire, e avvenire bene, ci voleva un corrispettivo da parte della Partner, corrispettivo che doveva passare inosservato.
E' una lettura in termini di coppia borghese, se si vuole, del mito di Orfeo agli Inferi tutt'altro che implausibile. In questo caso, il canto era condizione perché potesse sopportare la prova; ma per il canto ci voleva, o prima o poi ma comunque prima della fine, la vista della persona amata. Per scendere ed ammansire le divinità infernali Orfeo bastava a sé stesso; ma per risalire in terra, per ricostruire la coppia terrena, no. La prova, insomma, era impossibile: è chi lo sapeva? Una donna, la regina degli inferi.
Orfeo può anche averci fatto la figura del soggetto non sufficientemente costante, fermo, affidabile; ma la si può pensare in modo opposto, che abbia fatto il massimo possibile, ma che abbia dovuto cedere al bisogno di guardare Euridice perché si rendeva conto di non farcela più senza, anche se questo significava perdere la prova, e la stessa Euridice.
Fra l'altro, notiamo che non poche delle versioni tarde del mito contemplavano, anziché sbranamenti o fulminature od assunzioni di Orfeo, la sua transizione all'omosessualità. E' lo stesso, è la fine comunque della sua figura di capofamiglia.

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Ad ogni modo, il riproporsi della chiusura nell'ambito della famiglia dell'evo borghese può assumere un'altra forma (tra le tante), abbastanza frequente e non difficile ad individuarsi come fenomenologia, e come patologia, vale a dire come conseguenze negative sul piano socio-relazionale esterno.
 

L'amore di coppia consumistico e chiuso

L'esistenza di più paradigmi di coppia è chiara dall'ulteriore esemplificazione che rende lo stesso Fromm, rispetto alla famiglia borghese (pretesa "patriarcale") presso Freud, e la coppia d'amore che auspicherebbe lui.
Egli riporta un brano di H. S. Sullivan, morto prima della pubblicazione di quel volume e quindi "contemporaneo" a lui e non a noi: "L'intimità è quel tipo di situazione che coinvolge due persone, che permette la valorizzazione di tutte le qualità personali. La valorizzazione della personalità richiede un tipo di rapporto che io chiamo collaborazione, mediante il quale si adatta il proprio comportamento a quello dell'altro, per ottenere una sempre maggiore collaborazione reciproca. (...) Giochiamo secondo le regole del gioco per salvare il prestigio, il senso di superiorità e il merito." (pag. 100; ripreso da The interpersonal Theory of Psychiatry: W. Norton & co., New York 1953, pag. 246).
Di questo brano, forse significativo dell'autore ma non molto ricco di contenuto, Fromm nota la puntatura sul soddisfacimento reciproco: "il concetto di Sullivan si riferisce all'esperienza dell'alienata personalità del ventesimo secolo. E' un concetto di <<egoismo a due>>, di due persone che hanno associato i loro interessi e stanno insieme contro un mondo estraneo e ostile.". Egli pensa invece ad un amore di dimensioni più ampie, al livello della "collettività cooperante"; e fa notare che il tipo d'amore delineato da Sullivan lascia insoddisfatti troppi desideri "inespressi".
Aveva premesso, al riguardo, che "dati clinici dimostrano che gli uomini e le donne che dedicano la vita ad una soddisfazione sessuale senza restrizioni non raggiungono la felicità e, molto spesso, soffrono di gravi disturbi nevrotici. La completa soddisfazione di tutti i bisogni sessuali non soltanto non è la base della felicità, ma non garantisce neppure la salute." (pag. 98). E' difficile dargli torto, al di là della perplessità su quali "dati clinici" accerterebbero il conseguimento della "felicità": non si tratta di sottovalutazione della sessualità, o di una delle tante forme di sessuofobia mascherata che si ripresentano nei tempi recenti; ma di una constatazione del limite evidente di quella forma di Partnership.
Giustamente, egli ne nota il senso materialisticamente consumistico, e invita a ricondurre l'esercizio della sessualità a significati umani più profondi e impegnativi come è, appunto, l'amore del quale egli tratta in quel libro.
Noi noteremmo, da una prospettiva differente, il carattere "chiuso" di questa coppia: non nel senso dell'esclusività reciproca (che non sussiste nell'esempio portato), ma nel senso che l'esercizio della sessualità e la stessa Partnership sono intesi come contrapposti al resto del mondo, addirittura "contro un mondo estraneo e ostile".
In precedenza, infatti, aveva stigmatizzato l'"esclusività" di un certo "amore erotico": che spesso viene "interpretata come attaccamento possessivo. E' molto frequente trovare due persone <<innamorate>> tra loro che non sentono amore per nessun altro. Il loro amore, infatti, un egotismo a due; sono due esseri che si annullano a vicenda, che risolvono il problema della separazione fondendosi tra loro. Credono di superare la solitudine; eppure, staccandosi dal resto della specie, restano separati tra di loro e perfino da loro stessi; la loro unione è un'illusione." (pag. 64)

Certo, se poi questa involuzione di chiusura dei due, questa ricerca di "implosione" della coppia, fallisce avvertibilmente, e i due non si sentono uniti dopo essersi separati dal resto del mondo, il problema diviene per lo meno chiaro. Resta da vedere se non avvenga più spesso il contrario, cioè che la coppia seguiti convintamente ad accentuare la propria chiusura al mondo esterno, e la ricerca affannosa di una mitica "full Immersion" reciproca. Di casi del genere lo scrivente ne ha osservati parecchi, spesso addirittura proclamati a voce alta.
Scontiamo anche l'osservazione ideologica e datata di Fromm contro il capitalismo.
Verrebbe allora da chiedersi quale problema pedagogico vi sia. E quale ricorso a lui e alla sua opera il pedagogista possa ragionevolmente  aspettarsi da parte di questo tipo di coppia, considerato che in linea di massima i due Partner di una coppia siffatta sono ben contenti del loro amore inesausto ed estremo. Certo, non saranno mai gran che soddisfatti: ma l'impegnarsi con tutte le forze e in piena armonia per avere "di più, sempre di più" nella consumazione del rapporto sessuale tra di loro è certo molto più appagante e meno frustrante che non in altri tipi di rapporti squilibrati (di comune accordo, e non) che qui vengono esaminati, o che possono essere conosciuti dall'estensore e dai lettori.
Si rivolgeranno mai a noi, insomma? E, quand'anche venissero, che cosa potremmo loro rispondere, che cosa aggiungeremmo quando ci dicessero o ci urlassero, guardandosi ammiccanti e sorridenti, che loro sono felici così?
Sarebbe una forma di quella "non apertura" che è ostativa all'intervento pedagogico.
Basterebbe dir questo. E tuttavia, c'è ben altro da dire. C'è da indagare su tale "non apertura".
Innanzitutto, in economia il consumismo ha una funzione generale, anzi ne ha parecchie: motiva alla produzione, aumenta i consumi, massimizza gli scambi... Presenta certo tanti grossi problemi, ad esempio quello delle risorse e delle compatibilità ambientali; ma serve, specie in senso collettivo.
Invece il "consumismo di coppia" à la Sullivan, che presenti problemi espliciti di coppia oppure no, è in ogni caso l'antitesi di ogni forma di ampliamento degli scambi e della negoziazione esterna, e di aumento della produzione e della ricchezza complessiva. La coppia scioglie al suo interno quelle risorse, quasi tutte, che nella coppia borghese erano sciolte dalla moglie all'interno, ma almeno dal marito all'esterno. Difficilmente questa coppia avrò una grande capacità d'investimento umano (quale che sia) al di fuori del suo proprio rapporto.
Vengono quindi da noi, eccome: ma ritengono di venire perché, ad esempio, falliscono nel lavoro, perché dicono che tutti i vicini sono stupidi, che i familiari dell'uno e dell'altro assommano tutti i vizi capitali; e sta a noi il non semplice compito di rendere palese anche a loro ciò che a noi è palese immediatamente, semplice e fin banale: che nella caldaia del rapporto e del sesso a due essi, entrambi, bruciano anche le risorse umane che servirebbero nel lavoro, nelle relazioni familiari e in quelle altre relazioni umane esterne, e in parecchi altri campi, praticamente in tutti.
Non pochi sportivi, non pochi artisti sono rimasti letteralmente distrutti: appena accoppiati, quasi da un momento all'altro, divengono inesistenti come soggetti di grande impegno, e come "svuotati". Non sono svuotati di risorse fisiche, intendiamoci, almeno non solo: sono svuotati di risorse umane; e queste ci vogliono, si dica quel che si vuole.
Per non parlare dei rapporti con i figli, i quali finiscono non di rado per non essere considerati esseri umani con tutte le loro prerogative e componenti paritari di una famiglia poli-nucleare, né per tali trattati, bensì sottoprodotti di una famiglia bi-nucleare, lontani satelliti di un nucleo inaccessibile. Poco conta che i due genitori dicano di averli voluti, oppure no: non li hanno voluti considerare titolari del diritto alla loro aliquota, rilevante, delle risorse umane dei genitori. Oppure, se uno dei due genitori si accinge a farlo, l'altro si sente per ciò stesso deprivato. Quella logica di coppia è la logica del "o tutto o niente"; non sfiora i due neppure l'idea che il dare di più ai figli e più in generale "fuori" possa condurre anche ad avere di più (e di meglio) "dentro".
Che cosa significa: che la nascita di uno o più figli significa necessariamente una sottrazione di qualche cosa al Partner? No: che nella vita di ciascuno c'è un'aliquota di risorse umane (non quantificabili, ovviamente!) per in Partner, una per i figli, una per il lavoro, una per la cultura, una per le relazioni esterne, e via elencando: insomma, la vita umana è fatta di tanti componenti, in un equilibrio difficile e comunque (si badi bene) dinamico. Se avviene che la nascita di un figlio sottragga ad un genitore un'aliquota di sé al Partner, o al Partner viene dato "troppo poco" ora, o gli veniva dato "troppo" prima, o tutte e due le cose; c'era insomma, o c'è, o c'era e c'è, dello squilibrio.
Ed ecco, quindi, come affrontando un problema (i figli che non vanno, in qualche cosa, un fallimento professionale, una situazione di difficoltà nelle relazioni esterne, ...) si arriva a porre positivamente il problema più generale, basilare: quello di un rapporto di coppia non umanamente congruo, anche se (e tanto più quanto più) graditissimo e ottimamente vissuto.
 

Quale famiglia? Il caso di Ninetta Bagarella

Questa non è la sede per quelle statistiche che hanno il pregio di una compattezza sempre ingannevole quanto la pretesa auto-significatività, né per quel convincimento ingannevole secondo il quale "i fatti parlano da soli" che è sopravvissuto ben oltre la crisi del Positivismo e più in generale della cultura ottocentesca.
E' invece la sede di un esame di casistiche, le quali richiedono molto più spazio, e tutto un altro approccio.
Discutendo di famiglia, coppia, Partnership, c'è da esaminare un caso tutto particolare, per la funzionalità entro il discorso che stiamo conducendo. Ci riferiamo alla lettera aperta con la quale Antonina (Ninetta) Bagarella in Riina è entrata in disputa con il già Procuratore Capo di Firenze Pier Luigi Vigna, magistrato allora noto al grande pubblico soprattutto come giudice di primo grado al processo Pacciani, e come accusatore di calunnia ed autocalunnia per scopi eversivi di Donatella Di Rosa, e diventato poi Procuratore Generale Antimafia.
La lettera è stata integralmente pubblicata su "La Repubblica" di domenica 23 giugno 1996, e da questa fonte la rileggiamo integralmente. Sembra esserci qualche imperfezione, ad esempio manca qualche segno di interpunzione, ma la riproduciamo ovviamente come sta, anche con gli anacoluti e le improprietà risultanti.
"Sono Antonina Bagarella, moglie di Salvatore Riina, madre di Maria Concetta, di Giovanni, di Giuseppe e di Luca Riina. Chi non conosce i nostri nomi e cognomi, sbattuti quasi ogni giorno su tutti i giornali?
Ora che si è chetato il gran vocìo, ho deciso di aprire il mio cuore di madre gonfio e traboccante di tristezza per l'arresto di mio figlio Giovanni.
In casa tutti sentiamo la sua mancanza, la nostra situazione familiare adesso è diventata un inferno, non riusciamo ad accettare che un ragazzo di appena vent'anni, incensurato viene prima fermato poi interrogato dopo due giorni, e rinchiuso in carcere.
Non gli si concede nessuna attenuante per poterlo rimandare a casa dopo l'interrogatorio, perché figlio di Riina Salvatore, da tanti anni vissuto in latitanza, avrebbe potuto anche lui darsi alla latitanza.
Giovanni è giusto che si sappia, è un ragazzo normale, aperto, allegro e spensierato.
Lavora come agricoltore e al rientro al paese si intrattiene con i suoi coetanei al bar, alle feste del paese. Coltiva come hobby la collezione dei compactdisk, le riviste di motori e di macchine, così conosce tutti i tipi e i modelli e quando ha ricevuto una motocicletta in regalo da mia zia, si è divertito a girare per tutte le vie del paese, qualche volta senza casco tanto da essere multato.
Non è passato mai inosservato, anzi criticato in tutto, anche nelle cose più banali e semplici, facendogli pesare di essere il figlio di Salvatore Riina, e pertanto doppiamente in torto.
Ai miei figli viene attribuita la grande colpa di essere nati da papà Riina e da mamma Bagarella, un peccato questo congenito che nessuna catarsi può mai redimere.
Proprio a Giovanni, in questi ultimi giorni, alcuni giornalisti hanno fatto pesare come una condanna a priori, il fatto di essere nato <<latitante>>. Tutti sappiamo bene che ogni essere umano venendo al mondo nasce libero, la vita è un dono di Dio quindi ogni essere è innocente e puro senza colpa alcuna.
I miei figli invece nascono colpevoli del loro stato senza pensare e considerare che quando sono nati io (la mamma) ero libera cittadina, mio marito colpevole solo di non essersi presentato al comune del paese assegnatogli come soggiorno obbligato. Abbiamo cresciuto i nostri figli affrontando enormi sacrifici, superando tanti disagi, dando a loro tutte le premure e le attenzioni possibili. Li abbiamo educati al rispetto della famiglia e del prossimo secondo i sani principi inculcando il rispetto delle vere istituzioni su cui deve fondarsi una società onesta e dignitosa. Il rispetto di tutti e di tutto è la massima di casa Riina.
I miei figli non hanno mostrato nessun problema, nessun disagio nel misurarsi con i loro coetanei. Fin dai primi giorni in cui hanno avuto la possibilità di vivere una vita normale.
Il 16 gennaio 1993 dopo l'arresto di mio marito ci siamo trasferiti a Corleone. Tale notizia si è diffusa in un baleno, per tre mesi via Scorsone è stata un continuo via vai di giornalisti, pronti a fotografare i miei figli, a pubblicare le nostre foto.
Anche a scuola hanno dato subito buoni risultati tanto che sono stati promossi agli esami.
Maria Concetta, Giuseppe e Lucia hanno continuato gli studi. Giovanni decise di dedicarsi al lavoro perché non si sentiva tagliato per la scuola e poi perché in casa qualcuno doveva lavorare per guadagnare un po' di denaro.
A turno si trova il motivo per parlare di loro sui giornali. Giovanni viene tirato in mezzo quasi sempre, per la targa dei giudici Falcone e Borsellino divelta e scomparsa; si sa bene che altri ragazzi sono stati responsabili di questa bravata, ma ciò non impedisce di parlare di Giovanni come se tutto inizia e finisce da lui.
Alcuni in paese cercano di ostacolare i rapporti dei miei figli con i loro coetanei, cercano così di convincere i genitori a tenere a distanza i loro figli dai miei perché figli di Riina; tentano di isolarli, di emarginarli, di segnarli a dito come bestie rare.
I miei figli superano anche questo ostacolo grazie a madre natura che li ha dotati di una tale apertura di espressione e bontà d'animo che i loro coetanei li preferiscono ad altri.
Chi non ha sentito la notizia balzata fuori su tutti i giornali perché mia figlia Maria Concetta Riina viene eletta dai compagni rappresentante di classe del IV liceo scientifico?
A detta di qualche persona avrebbe dovuto rinunciare pubblicamente a suo padre, Salvatore Riina, solo così avrebbe potuto acquisire il merito di essere elemento degno capace di apportare un valido contributo morale nella scuola e nella società.
Per fortuna nessuno può manomettere le leggi divine. così il comandamento <<Onora il padre e la madre>> deve essere rispettato da tutti anche dai miei figli che adorano e vivono per noi genitori.
Quello dei miei figli è diventato un continuo stillicidio, una sofferenza senza limiti, mai lasciati liberi di essere se stessi, di agire, di avere una vita con tranquillità di cui hanno bisogno.
Da madre attenta ed affettuosa vedo ogni giorno fare a pezzi i miei figli venduti a turno sulle grandi piazze di tutta Italia e di tutto il mondo: mi chiedo il perché di tanta prevenzione nei loro confronti.
I miei figli sono esseri innocenti, bambini inesperti, non conoscono cosa vuol dire cattiveria umana, bisognosi di una continua guida di noi genitori.
Tutti si sono divertiti a creare Giovanni come un personaggio su misura per attribuirgli responsabilità e fatti più grandi di lui.
Perché non considerare miei figli ragazzi normali, capaci come tanti di inserirsi nel contesto sociale, capaci di lavorare con tranquillità come loro desiderano, portando il loro contributo morale e civile in una società che li sappia accettare come esseri viventi e non come nullità?".
 
                                     ANTONINA BAGARELLA 50

I Mass Media hanno riportato innumerevoli commenti, di segno differente, provenienti da politici, magistrati, giuristi, storici, sociologi, uomini di chiesa, ed esperti provenienti da ogni settore di competenza.
Da pedagogisti, è chiaro che tutti questi pareri ci interessano, e vanno a costituire la materia prima sulla quale dovremmo costruire la temperie e la mediazione pedagogica.
Ora vediamo se c'è qualche osservazione da fare nell'emergere del nostro specifico.
Ricordiamo, a premessa, che non è nostro compito parlare di "colpe" o di condanne od assoluzioni. Il concetto di "colpa" non è pedagogico, semmai è mutuato dal diritto, o dalla morale, o da altri campi, e rimane allogeno. Semmai, in Pedagogia, dovremmo parlare di "responsabilità" e di "corresponsabilità" 51.

Innanzitutto: l'incipit. Chi è Antonina Bagarella? Moglie e madre; non c'è altro che essa ritenga appropriato per designarla. E' chiaro che si rivolge all'opinione pubblica in quanto tale, tuttavia qui si legge bene che ella non si considera una donna la quale ha avuto nella vita anche l'esperienza coniugale e materna, si è trattato di un'esperienza che ha escluso ogni altro fattore umano dopo il matrimonio, e che porta a cancellare ogni considerazione di prima. La biografia di questa donna soccorre confermando l'impressione.
Quattro signori, quattro cittadini, oltre a tutto figli di un ex latitante e a lungo partecipi di tale latitanza, sono "miei figli". Privatamente e personalmente, non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma questa sarebbe una presa di posizione pubblica, e che investe problemi collettivi, ad esempio di ordine pubblico. E' una sovrapposizione della famiglia nucleare, privata, chiusa addirittura allo stato: e ci torneremo tra un attimo, per ora fissiamolo bene all'attenzione.
E già questo richiederebbe un po' di interlocuzione. E' chiaro che chi ha sacrificato tutto ad un'unica dimensione non solo ha maturato una figura socio-culturale manchevole e zoppa, ipertrofica da un lato e nulla da tutti gli altri: Non solo, ma è altresì chiaro che, trovandosi tutto il suo investimento esistenziale a confliggere con la realtà, essa è indotta a schierarsi comunque ed acriticamente, quasi di necessità, contro la realtà. Non conta, nella fattispecie, se i suoi familiari siano ristretti (e famigerati) giustamente e magari doverosamente, non può contare.
Fra l'altro, si dichiara "madre", non accenna neppure per un attimo alla sua funzione di educatrice nell'incipit. Ne accenna dopo ma solo per dire (e per dirsi) di averli educati bene: e per dirlo in modo molto generico.
Il seguito va tutto sul personale: i figli addirittura bambini inesperti con quel che segue. Anche il tono della lettera è accorato, tanto da far apparire evidenti difficoltà di espressione che sono incompatibili con la cultura di quella donna, la quale ha interrotto per ragioni di famiglia studi a quanto pare ben condotti, e si è occupata dell'educazione dei figli in quella difficile situazione.
Ora, nessun parente stretto di persona comunque coinvolta in fatti gravi, innocente o colpevole che sia, troverebbe meno che drammatica l'eventualità della carcerazione. In effetti, è un caso evidente di quelli nei quali la famiglia nucleare non segue il principio della "cellula della società", ma diviene un punto di solidarietà e di mutua assistenza, di propaganda e fin d'omertà, contro la società, che si esprime anche e necessariamente attraverso la giustizia. Fromm a questo riguardo direbbe che "Indubbiamente, è l'apparato esterno del potere (polizia, tribunali, esercito ecc.) che tiene insieme la società." 52. Si badi che non è una denuncia né un oggetto di critica: è una constatazione, data sull'ovvio, sulla base della quale (e di altre) costruire un discorso notevole sulla Psicologia Analitica Sociale.
Se la parentela, ad avviso della scrivente, è rilevante nel coinvolgere i Media e l'opinione pubblica circa la carcerazione, è evidente che deve essere almeno altrettanto rilevante per la giustizia allo stesso titolo.
Mentre i discorsi sull'educazione impartita ai figli sembrano parole abbastanza vuote, quelli circa le relazionalità esterne ed in particolare circa la assoluta paragonabilità del comportamento del figlio rispetto ai suoi coetanei sono altrettanto evidentemente fuorvianti, sono dei diversivi, puntando insieme alla simpatia dell'opinione pubblica.
Noteremmo che una società che tendesse a non metabolizzare immediatamente chi abbia alle sue spalle una storia simile non sarebbe inguaribilmente mafiosa; questo è rilevante collettivamente, e a questo i singoli sono tenuti a tributare quel prezzo che risultasse necessario.
Ma, a parte ciò, è un pregiudizio pericoloso quello secondo il quale il delinquente l'ha scritto in faccia, e ha un comportamento assolutamente fuori della norma e disturbato in modo leggibile da tutti. Pericoloso non solo e non tanto perché porta a perseguitare chi non abbia atteggiamenti e sembianze "normali", ma perché porta a cercare la delinquenza dove non c'è, e quindi a non cercarla dove c'è.
E' il motivo per il quale certi film di scontro tra "buoni" e "cattivi" richiederebbero molta attenzione presso gli educatori: ben lungi dall'essere educativi, fanno pensare che il "buono" è sempre bello, gentile e leale, e il "cattivo" è sempre brutto, incivile e spregiudicato; ma perde. La realtà, purtroppo, è tutt'altra: spesso chi ti fa male è quello che si presenta gentile, bello e suadente.
Il fatto di essere maggiormente osservati e suscettibili di critiche per essere non tanto figlio quanto familiare a lungo convivente con un latitante per gravissimi fatti di mafia non solo giustamente induce chiunque a guardarlo con sospetto (è il minimo): ma dovrebbe aver indotto lui ad una condotta enormemente più disciplinata, e ad un'accettazione serena del maggior controllo sociale come un segno, positivo, che la società reagiva correttamente, correttezza della quale egli era strumento. Il tutto, ovviamente, a condizione che egli partisse dal suo presupposto che il padre aveva gravemente offeso la società. Ecco, sembra mancare questo, nella madre come forse nel figlio: ciò che ha fatto mio marito o padre, sfugge al giudizio dei reati in sé perché di mio marito e di mio padre si tratta; e io me ne sento indiscutibilmente esentata.
Ci si rifletta: le affermazioni (in essenza): "amo profondamente mio padre (o mio figlio, o mio marito)" e "mio padre (mio figlio, mio marito) è un criminale" non hanno alcuna contraddizione tra di loro; una attiene a soggettivi sentimenti e l'altra a giudizi intersoggettivi del terzo potere.
Maria Concetta Riina non doveva rinunciare a suo padre: doveva ricoprire la sua carica al meglio anche per una cultura e un'educazione scolastica anti-mafiosa.
In sintesi, potremmo osservare che, se i figli fossero stati davvero educati secondo i principi conclamati (o, meglio, fatti oggetto di cenni non del tutto univoci, alquanto ambigui), qualche difficoltà non solo nell'interagire con gli altri, ma anche solo nel guardarli negli occhi, avrebbero dovuto incontrarla. Per superarla, ma comunque avrebbero dovuto incontrarla. La madre, in effetti, parla di natura, al proposito, e non d'educazione.
Anche il richiamo alle leggi divine è evidentemente strumentale. L'onorare il padre e la madre non ha nulla a che precludere circa l'essere consapevoli delle loro (eventuali) colpe e l'esservi pubblicamente conseguenti. Ad ogni modo, ci sono altri Santi Comandamenti di pari dignità: <<Non rubare>>, <<Non ammazzare>>, <<Non dire falsa testimonianza>>, <<Non desiderare la roba d'altri>>...
Ci sarebbe anche <<Non nominare il nome di Dio invano>>.
Le colpe del padre non ricadono sul figlio, e su questo si può condividere senz'altro. Né il figlio deve sanare le colpe del padre. Se, tuttavia, il figlio si trova involontariamente a fungere oggettivamente da strumento per una parzialissima redenzione delle colpe del padre nei riguardi di tutta la società, ciò dovrebbe essere motivo di gioia, di sollievo, di consolazione, di gratificazione. Purché, è chiaro, si sia convinti che di colpa (e colpa grave) si è trattato; e non ci si senta invece esentati da tale convincimento, per il fatto di essere congiunto e consanguineo stretto (e solo per questo).
Non può essere una colpa l'essere figlio di un delinquente, è chiaro. Responsabilità non lieve è certamente l'essere stato complice (anche se passivo) di un delinquente, pur considerato che questi era suo padre. Dovremmo arrivare a dire "proprio perché era suo padre". In ogni caso, è certamente colpa il non compiere tutti gli atti che tendano a distruggere tutto ciò che di delinquenziale ne deriva, sia dicendo tutto quello che si sa, sia rinunciando a tutto quanto per sé ne discenderebbe, sia collocandosi in modo deciso, esplicito e senza riserve dalla parte della giustizia. E questa è catarsi, e ben altro che catarsi.
Non c'è, evidentemente, colpevolezza nell'essere nati in una situazione di latitanza della quale portano responsabilità (gravi) il padre e anche la madre, la quale sapendo che il marito era latitante ugualmente secondava questa latitanza. Ci sarebbe poi tutto in discorso da fare circa il fruire dei servizi pubblici (le scuole per i figli, il servizio sanitario,...) d'altra parte non servendo lo stato nella sua giustizia. Ad ogni modo, si può solidarizzare con un essere umano che sia nato e cresciuto in quelle condizioni; ma non se l'attaccamento al padre e alla madre va oltre l'affetto e il ruolo filiale, per assumere atteggiamenti evidentemente giustificazionisti. Questo è un punto importante.

In complesso potremmo osservare: ci sono motivi molto forti per affermare che la moglie e i figli del già latitante Riina avessero secondato la latitanza quanto meno, se non anche ciò che è stato perpetrato durante la latitanza, e che abbiano conoscenza di innumerevoli elementi che interesserebbero la giustizia al riguardo.
Che visione è quella della famiglia che porta a far ipotizzare come legittimo l'occultamento di queste corresponsabilità?
La si può definire in molti modi. Comunque, non è una visione della famiglia come "cellula" della società (a meno che non si spinga la metafora ad annoverare anche le cellule tumorali, patogene); e non è l'unica visione di famiglia possibile.
Una educazione costruttiva in questo senso dovrebbe tendere a non annegare i rapporti affettivi e relazionali all'interno della famiglia sotto ruoli sociali delinquenziali, contrari alla società. Non è amore quello che porta alla complicità (attiva o passiva) verso un marito od un figlio perché è marito e figlio; è semmai amore, anche nel senso di Fromm (ma non solo) quello che porta ad amare anche un latitante e un mafioso indipendentemente dal fatto che lo sia, e quindi impedendo interferenze tra i due piani delle relazioni umane, o semmai che porti a combattere il suo essere latitante e mafioso con l'amore stesso. Quello che invece si piega alla latitanza e alla mafiosità potremmo chiamarlo amore "strumentalizzato", ma non è amore.
L'amore deve avere una positività sociale. O non è amore.

Infine, una considerazione sintetica e fin banale: se veramente l'unico ostacolo ad un'educazione più propria di questi "figli" fosse stato nella riluttanza del padre a ottemperare alla prescrizione (legittima) del soggiorno obbligato, allora il padre avrebbe dovuto senz'altro vincere quella riluttanza, e la madre avrebbe dovuto indurlo a farlo, oppure separarsene (legalmente). Amarlo, ma trovare in questo rifiuto un motivo più che valido per non poter vivere con lui.
Non ci sarebbero potuti essere molti dubbi al riguardo.

Ricordiamo che la latitanza è durata 23 anni.
 

L'eccessivo attaccamento del figlio maschio per il padre

Torniamo alle casistiche ben riassunte dalle parole di Fromm.
E notiamo ora che, come esistono casi di madri che soffocano i figli sotto le sembianze di un amore grande, quelle che chiameremmo "madri latine" senza ovviamente alcun riferimento geografico (o linguistico), esistono ovviamente anche i casi reciproci. Ci si rifletta, specialmente oggi che, come noto, cresce la cospicuità della figura paterna, anche come reazione del maschio in crisi dalla ridefinizione dei ruoli rispetto ad una famiglia borghese, nucleare, ormai storicamente superata e non più funzionale ad alcunché.
Si presentano qui i "casi in cui l'attaccamento principale è quello per il padre. Un caso limite è quello di un uomo la cui madre è fredda e distante, mentre il padre (in parte come conseguenza alla freddezza della moglie) concentra i suoi affetti e i suoi interessi sul figlio."(pag. 103-104). Da padre nel senso di Fromm, egli porta tendenzialmente all'estremo sia la ricompensa per gli atti del figlio graditi, sia la punizione in ipotesi contraria.
Di conseguenza, il figlio squilibra ogni sua altra inclinazione al soddisfare le aspettative paterne: "quando ci riesce si sente felice, sicuro e soddisfatto. Ma quando commette un errore, quando non riesce ad accontentare il padre, si sente deluso, trascurato, respinto. (...) Tutta la sua vita diventa una sequenza di alti e bassi, a seconda se è riuscito o meno a ottenere l'elogio paterno." (pag. 104).
Si parla sempre di un "padre" idealizzato che il soggetto si porta dentro: non dimentichiamocelo. Professionalmente, questo è un altro dei tanti casi nei quali ci augureremmo che il padre reale fosse ancora in vita, in modo da poter mettere a confronto il soggetto e le sue idealizzazioni con la realtà; e meglio ancora se tale padre reale fosse disponibile a contribuire all'interlocuzione educativa, semplicemente manifestandosi per come è realmente, vale a dire sempre e comunque meno grave e meno estremo dell'idealizzazione. Probabilmente, qui trovare disponibilità è più facile che non altrove: il padre non deve "rivelare" alcunché di segreto o di riservato; e deve intervenire per il bene di un figlio, cosa che ha fatto sempre e volentieri, solo in un modo che forse non gli parrà usuale, ma che non avrà nulla di incomprensibile o di paradossale.
Questi uomini, in genere, non hanno problemi "pubblici" nel lavoro, nella società e nella carriera, ché sono per lo più grandi lavoratori, impegnati senza limiti, instancabili e affidabilissimi. I loro problemi sono semmai interiori, e soprattutto nella Partnership: "Nelle loro relazioni con le donne restano freddi e distanti. La donna non è il centro della loro vita; di solito hanno un leggero disprezzo per lei, spesso mascherato da un atteggiamento paterno nei riguardi di una figlia piccola.".
E' un altro caso nel quale la Partner può essere inizialmente colpita in modo favorevole da talune doti del maschio, ma poi la delusione subentra fortissima, in questa caso per trascuratezza, perché viene relegata a ruoli marginali nella vita dell'uomo.
Nel dialogo pedagogico, dobbiamo prevenire od estirpare con la massima attenzione che ci sia spazio per una azione di riequilibrio, e di sostanziale accettazione, da parte della Partner: a meno che non si verifichino alcune concomitanti circostanze, ad esempio che "anche la moglie non sia rimasta attaccata al padre: in tal caso si sente felice, con un marito che la tratta come una bambina capricciosa.". E finché dura.
Saranno certamente molti i mariti-partner che penseranno alla consorte come ad una riserva inesausta di riequilibrio; e molte le mogli-Partner o aspiranti tali che penseranno che i benefici sociali e professionali compensino le carenze affettive, o che potranno comunque adattare le cose.
Nuovamente, e ancora una volta tra le tante: non è così. Il maschio cambia solo se ha buoni motivi per cambiare, e se ne è pienamente consapevole: ed allora, la Partner è solo un aiuto, peraltro importantissimo. D'altronde la femmina ha a che fare con dei beni per lei indisponibili; qualunque deprivazione, per quanto consapevolmente accettata e in buona fede, finirà per essere alla base di scompensi enormi, di ritorni sulle decisioni, oppure di altre forme di fuga, o di comportamenti dissimulati e nascosti.
Né le riserve mentali salvano alcunché. se non provvisoriamente, per tempi più o meno lunghi, comunque limitati.
Il dialogo pedagogico può far emergere tutte queste circostanze all'interno della coppia, rendendole esplicite e muovendo al dialogo su questioni ritenute a torto (ma in comprensibile buona fede) scontate e non necessitanti alcun esame, o al più un esame superficiale, affrettato, per frasi fatte.
Più difficile è il caso in cui a rivolgersi a lui sia uno solo dei Partner (si suppone la femmina): mentre l'altro, appunto, non va oltre una serie di frasi fatte e sbrigative, ed in definitiva non vuole affrontare la realtà che è problematica. Anche in questa ipotesi, però, il contributo dialogico del pedagogista è importante per far emergere e rendere in piena consapevolezza tale realtà, a sviscerarla, a chiarirne connotati, cause e implicazioni.
Il dépistage è conseguente, direttamente e canonicamente conseguente.
Non è detto che ciò porti alla rottura della coppia; il tentativo è mirato a mettere almeno uno dei contraenti in condizioni di affrontare la realtà problematica, magari studiando il modo di ottenere un qualche contributo dal Partner. Possono esserci, qui ed altrove, rotture di un rapporto che si rivela insopportabilmente e insanabilmente differente da come esso poteva apparire in primi tempi, o nei progetti (o nelle illusioni); ma è d'altra parte da osservarsi che, così operando, si prevengono tutte quelle rotture che avvengono sulla spinta prevalente (od esclusiva) dell'emotività, o da certi entusiasmi momentanei, o da certe acuzie brucianti altrettanto momentanee. Ad esempio, un'infatuazione dell'uno o (più probabilmente) dell'altra per un Partner che fa intravvedere impossibili recuperi di ciò che è mancato nella vita; sono fatti, per lo più, momentanei.
Si seguano con gli stessi strumenti concettuali ed operativi i casi ulteriori, "frequenti forme d'amore irrazionale (...) descritte nei paragrafi seguenti" (pag. 105 sgg.).
Si ricordi sempre che "i veri conflitti tra due persone non sono mai distruttivi. Portano alla chiarificazione, producono una catarsi dalla quale entrambi i soggetti emergono con maggiore esperienza e maggiore forza." (pag. 108). Sono parole di maggiore attualità oggi che non quando (1956) vennero scritte.
Socialmente e relazionalmente parlando, abbiamo sempre da temere molto di più dall'emotività che dalla razionalità. La realtà può superare la fantasia, a condizione che si tengano i piedi ben piantati per terra.
E noi opereremo perché ben piantati a terra siano, e vi rimangano.
 

La possibile ricerca di un Partner violento, in qualche senso, da parte della donna

Un ultimo caso che prenderemo da Fromm riguarda un tipo di donna tutt'altro che raro, del quale però si parla di meno. Ed è da notarsi che si tratta di un caso di comportamenti genuinamente "borghesi" come pochi: forse se ne parla poco proprio per questo, perché è un lascito percepito da troppi come nella norma, pur se negativo.
Si tratta di una donna cresciuta ed educata in una famiglia nella quale "i genitori non si amano tra loro, ma sono troppo controllati per litigare e per manifestare apertamente la loro insoddisfazione. La distanza che li separa li rende poco spontanei coi figli. Ciò che una bambina sente è un'atmosfera di <<correttezza>>, che però non le permette mai un contatto più diretto sia col padre che con la madre, e di conseguenza la lascia perplessa e timorosa. Non è mai sicura di ciò che i genitori credono o sentono, c'è sempre un elemento sconosciuto, misterioso nell'atmosfera. Come risultato, la ragazza si ritira in un mondo proprio, si astrae, sogna ad occhi aperti, e mantiene lo stesso atteggiamento più tardi, nelle relazioni amorose." (pag. 105). e così, quello che appare come un atteggiamento "normale" nell'età dello sviluppo, sognare, astrarsi, ha modo di manifestare la sua patologicità poi.
"in seguito, questo <<ritiro>> è origine di ansia intensa, di distacco dal mondo reale, e spesso porta a tendenze masochistiche, come unico mezzo per raggiungere un intenso eccitamento. Spesso tali donne preferirebbero avere un marito che gridi e faccia scenate ad un compagno normale e sensibile, perché perlomeno le libererebbe dal peso della tensione e del timore, non di rado sono loro a provocare un simile contegno, per porre fine a quello stato tormentoso di indifferenza affettiva." (pag. 105). Spesso provocano apertamente, in modo forte, proprio per ottenere la (per loro) necessaria violenza, fisica o d'altro genere.
Sarebbe, comunque, una "liberazione" di breve durata, un palliativo o poco più, che oltre a tutto porta assuefazione (cioè a richiedere "dosi" sempre più massicce). Tanto più che l'indifferenza affettiva del Partner è presunta, e non necessariamente reale.
Tutto ciò è quindi espressione di un desiderio di andare oltre i limiti dell'educazione ricevuta, di proseguire e integrare un'educazione chiaramente percepita come carente. E' un buon segno, una condizione di operare pedagogicamente.
Anche qui, il dialogo punterà a far emergere questa realtà di Background e a renderne pienamente consapevole il Partner. In questo caso, fra l'altro, non dovrebbe poi essere molto difficile coinvolgere positivamente il Partner stesso, il quale non fa altro che soddisfare la moglie con una particolare accentuazione formale di comportamenti assolutamente normali, oppure manca solo in questo aspetto marginale.
Si può trattare, nei casi più problematici (ma non infrequenti), di liberare il Partner da un complesso di atteggiamenti provocatorii da parte della Partner, insistiti e portati a sempre più cospicue entità, in una Escalation che egli non sa (o non sa sempre) reggere; ed altresì da un masochismo (reale o virtuale) al quale non c'è motivo per credere che corrisponda un atteggiamento reciproco, cioè sadico.
Insomma, siamo di fronte ad una interlocuzione pedagogica abbastanza semplice, e ad un dépistage altrettanto semplice. A condizione che si abbia la conoscenza adeguata, e che si sappia (e si voglia) parlare.
 

La relazione d'aiuto nel rifiuto dell'intervento terapeutico di ordine neurologico, psichiatrico, psicanalitico, farmacologico per problemi nervosi. Esempi di depressioni

La scienza medica e psicologica ha compiuto (o le due scienze hanno compiuto) enormi progressi nell'ultimo secolo (circa) in termini di diagnosi e terapia delle malattie nervose. Quest'evoluzione ha consentito di focalizzare l'essenza clinica delle patologie connesse: si tratta di malattie come le altre, che perdono sempre di più i caratteri dell'asocialità e della emarginabilità, per diventare oggetti di interventi terapeutici ordinari, che si possono metabolizzare perfettamente nella realtà socio-culturale, pur nella loro specificità che permane e, per certi versi, si accentua.
E pure, permangono larghissimi strati di non conoscenza di questa realtà, e su quel concime crescono rigogliosi tanti pregiudizi i quali, oltre ad essere criticabili e censurabili per loro stessi e oltre a rendere non sempre ottimali le condizioni nelle quali opera il clinico terapeuta, di fatto impediscono a tanti pazienti di accedere alle cure delle quali avrebbero bisogno, così aggravandosi progressivamente e, spesso, facendo di una malattia sostanzialmente non grave una sindrome cronica praticamente senza limiti di acuzie.
Non di rado, l'ambiente nel quale questi pregiudizi e queste auto-deprivazioni trovano ottimo sviluppo è proprio la famiglia, in particolare i genitori legati a mentalità di altri tempi, e al mito della normalità "no problem", fratelli cognati e cugini più disposti alla maldicenza e alle conventicole, e a volte involontariamente i figli con la loro presenza suscitano nel genitore dubbi inconsistenti (e se poi predispongo loro allo stesso brutto e "inconfessabile" male?????) e ostativi.

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Tra gli altri casi con i quali si è instaurata un'interlocuzione d'aiuto volontaristica, c'è un soggetto di sesso femminile, ora di circa 50 anni d'età, che seguiamo da una decina d'anni. Persona di istruzione medio-superiore, di buona cultura, che svolge un lavoro intellettuale con proprio gradimento e con impegno personale superiore alla media.
E' affetta da una depressione molto convenzionale, di origine probabilmente reattiva (vale a dire: non prevalentemente organica, ereditaria, dalla nascita), manifestatasi oltre i 30 anni. E' nubile, vive a casa dei genitori, di cultura molto inferiore alla sua, con un rapporto di sempre minore accettazione da parte del padre, valente artigiano, e con una collocazione mediativa da parte della madre sempre più difficile. Le due sorelle, di pari cultura, sono sposate con prole, una non presenta problemi di interesse neurologico, l'altra (forse) ne presenta ma, se è così, sembra siano affrontati immediatamente, e comunque hanno sortito conseguenze minori.
Vive in un paese relativamente piccolo ma non dei più piccoli (circa 15 000 abitanti). dall'economia florida, e discretamente aperto per la forte attività turistica, anche perché attraversato da importanti vie di comunicazione, e che è situato abbastanza vicino ad una città capoluogo di media grandezza (una dozzina di kilometri, ottimamente serviti da mezzi pubblici).
L'interlocutrice non ebbe alcuna difficoltà a "confidare" abbastanza presto il suo stato patologico, di soggetto in cura presso un terapeuta, e che assumeva certi farmaci: lo fece, con un certo Understatement un po' ingenuo, prendendo l'occasione-scusa di giustificare il suo rifiuto del vino e fin dello spumante nel corso di una cena di gala di origine professionale. Era però notevole che la terapia era svolta da un "volontario" non professionale, dimodoché il rapporto terapeutico era vissuto in modo aspecifico (un po' come un andar a trovare un amico al quale l'accumunavano certi impegni nel volontariato, appunto) e in questo ella lo praticava con regolarità ma senza impegno interiore a guarire.
Quella pratica volontaristica durò relativamente poco, e comunque non a sufficienza per poter dare qualche segnale positivo. All'interruzione, rispetto alla quale essa non attivò alcunché, intervenne il pedagogista: lo scopo poteva essere uno solo, riportarla ad un rapporto terapeutico pieno, e senza i pregiudizi di ordine culturale che potevano ostacolarne il buon funzionamento.
Tali pregiudizi c'erano, ben rispecchianti quelli diffusi in famiglia e nel paese per considerazioni del tipo di quelle fatte poco sopra. L'intervento fu di tipo essenzialmente didattico; un insegnare quello che poteva essere noto poco, o poteva essere più facilmente oggetto di fraintendimenti e deformazioni, rispetto ad una malattia come le altre.
La depressione, si accennava, potrebbe essere spiegata oggi con meccanismi di singolare analogia con quei certi squilibri umorali che aveva proposto Ippocrate oltre due millenni fa: e con questo, fra l'altro, si prevengono possibili pregiudizi verso la medicina odierna. Se l'organismo ha bisogno di un certo numero di sostanze che regolano l'umore (e che sono in via di progressiva scoperta), e se queste vengono secrete in modo insufficiente dalle ghiandole a ciò preposte, allora si capisce che l'organismo reagisca con sintomi patologici. Il discorso è abbastanza semplice (in quel caso non occorse neppure entrare in dettagli biochimici, biologico-molecolari, e neppure anatomici): bisogna quindi, semplicemente, ristabilire l'equilibrio tra la fornitura e il fabbisogno di quelle sostanze da parte dell'organismo.
La secrezione insufficiente può avere essenzialmente due ordini di cause, non reciprocamente esclusivi ma anzi integrabili in misura diversa l'uno all'altro, a seconda del caso specifico: cause ereditarie, anomalie nel DNA, per cui la ghiandola non funziona bene da sola; oppure cause esterne, per cui si danno delle situazioni nelle quali la ghiandola altrimenti funzionante regolarmente ad un certo punto smette di secernere il necessario, o meglio viene richiesta di secernere oltre quella che è la quantità di sostanza normalmente sufficiente all'equilibrio dell'organismo. Ci sono quindi due ordini di soluzioni, comprensibilmente analoghi ed analogamente integrabili l'uno all'altro. O si tratta di fornire direttamente all'organismo le sostanze di cui ha bisogno e che non riesce di produrre da solo (antidepressivi, di vario tipo, che solo il medico può prescrivere e dosare, e per questo non entriamo nei dettagli; osserviamo solo che farmaci specifici sono apparsi negli anni '50, e da allora la scienza farmacologica ha fatto passi da gigante. Oppure, si tratta di intervenire nel rapporto con l'ambiente, ad esempio mediante colloqui terapeutici, dei quali quelli psicanalitici rappresentano un esempio storicamente rilevanti ma non sempre il migliore. Non è un "o" esclusivo 53: si possono seguire, spesso si seguono, entrambe le vie
La chiave può stare nel paragone con malattie analoghe.
Si danno, ad esempio, sintomi fastidiosi e spiacevoli nei casi di indigestioni: anche qui i casi sono due, sempre integrabili, o la secrezione delle sostanze necessarie alla digestione è insufficiente rispetto ad una alimentazione ordinaria, oppure l'alimentazione è stata tale da risultare eccessiva o comunque sbagliata per quell'organismo (c'è chi non digerisce i frutti di mare o i grassi animali...); per cui, si prescrivono o farmaci digestivi, o diete, od entrambe le cose.
Si danno altresì insufficienze polmonari, o per cause interne o per cause ambientali. E anche in quei casi, si debbono prescrivere medicine o periodi di aria di montagna, od entrambe le soluzioni.
A questo riguardo, sappiamo bene che tra gli specialisti del settore terapeutico e sanitario neurologico vi sono diverse scuole, e diversi paradigmi. Da quello organicista, secondo il quale la depressione ad esempio è conseguenza di squilibri nella secrezione endocrina che possono essere semplicemente compensati dall'assunzione di certi farmaci appositi, e per tale va curata; a quello culturale secondo il quale la depressione è causata da fattori ambientali, sui quali bisogna intervenire con strumenti differenti, in particolare colloqui.
Noi non abbiamo una posizione da prendere nel merito. Esistono entrambi i fattori, sia quello organico che quello ambientale, e sulle metodiche di cura non è nostra competenza intervenire in alcun modo: semmai, possiamo far qualche cosa di diretto (non di terapeutico, comunque) circa i fattori ambientali, sul soggetto o sui suoi più diretti interlocutori, mentre per ogni sorta di intervento medico terapeutico (farmacologico o d'altro genere, compresa l'analisi) non abbiamo nulla da dire, salvo che il contribuire a creare le condizioni perché appunto il paziente acceda con la necessaria disponibilità a tali terapie e, prima, al medico che visita, diagnostica e prescrive.
Che non deve comunque neanche lasciar spazio per possibilità di fuga dalla terapia.
Rimanendo al caso di quell'interlocutrice, la cura farmacologica non risultava risolutiva mentre emergeva chiara la necessità di colloqui. I quali, tuttavia, avevano il difetto di essere ben più "visibili" nel paese e in famiglia, che non l'assunzione di farmaci qualsivogliano (bastava acquistarli nel capoluogo...).
Si capisce meglio come la frequenza di un terapeuta volontario, dai comuni interessi nel volontariato, fosse praticata regolarmente. Invece, alla frequenza di un terapeuta "professionale" ella reagì, proprio opponendo argomenti di errata o distorta visione della malattia nervosa.
L'intervento didattico, nel senso sopra descritto, ebbe considerevole efficacia, tanto che fu possibile far cominciare all'interlocutrice con buoni approcci tre rapporti terapeutici professionali successivi nel corso degli anni, uno dei quali interrotto e poi ripreso per ragioni di servizio del medico.
Ovviamente, il pedagogista deve fermarsi ben al di qua della porta del terapeuta, e non dare il benché minimo adito alla confusione dei compiti. Ora, al momento di scrivere queste righe, sta cercando di far proseguire un rapporto terapeutico già avviato, e che incontra delle difficoltà concretizzatesi all'esterno.

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Un paio d'anni fa, illustravo sommariamente questi concetti durante una lezione in questa sede. Al termine, fui avvicinato cautamente da una studentessa, la quale mi disse che aveva ottima conoscenza di un caso analogo: una donna relativamente giovane, sotto i trent'anni, abitante in un paese di provincia relativamente piccolo, la quale aveva rifiutato persino di sottoporsi ad una visita neurologica come le era stato consigliato anche da medici (credo fosse per un caso di depressione, non grave) in quanto quella sarebbe stata, a suo avviso e per la sua cultura, l'ammissione di essere "matta", una auto-collocazione fuori della società. Notai subito, nella descrizione sommaria fornitami, la scarsa alfabetizzazione culturale della menzionata, e il contesto culturalmente chiuso (o per tale ritenuto) del suo ambiente di vita.
Ovviamente, mi offrii di aiutarla, volontaristicamente come in tutti gli altri casi dai quali ricavo quanto qui posso esporre. Dissi in conclusione alla studentessa, più o meno: "se riesce a farla venir qui, faremo due chiacchiere. Provi a sottolineare il fatto che qui non ci sono né medici né psicologi clinici, che qui siamo solo gente di cultura, che studia, che ama discutere, che non portiamo il camice bianco, che viviamo tra i libri...".
L'idea era quella: proviamo ad insegnarle qualche cosa che non sa. Anche in una forma didattica, "professorale". Non presenta alcunché di suscettibile della nomea di "matto" un semplice e convenzionalissimo atto di studio; specie per chi ha studiato poco. Vedremo che cosa ci sarà da insegnarle, e da che cosa iniziare: non sarà difficile capirlo.
Ma di quella giovane donna non seppi più nulla.
Ovviamente, non sfuggii mai alla deontologia di non chiederne più nulla, di non fare il benché minimo accenno.
Credo di non aver parole per descrivere il contrasto drammatico (questo sì lo chiamerei "pazzesco"...) che vi era in me tra la consapevolezza della non onnipotenza mia come di qualunque intervento e soggetto educativo, e la consapevolezza che c'era una persona che soffriva e alla quale avevo qualche cosa da offrire.
L'unico motivo di sopimento fu il pensare che quella studentessa, approfondendo la sua preparazione pedagogica e, forse, diventando poi pedagogista, avrebbe potuto trovarsi in quelle condizioni di aiutare quello come altri soggetti, per aiutare i quali non mi ero trovato nelle condizioni io.
 

Altri esempi di relazione d'aiuto pedagogica sotto forma prevalentemente didattica

La indicabilità di una relazione d'auto di tipo essenzialmente didattico è molto più ampia, e non riguarda solo un approccio corretto alle terapie neurologiche.

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Essa può riguardare comunque altri medici specialisti. Il mio dentista mi spiegava che nel corso delle campagne della prevenzione si sentiva la mancanza di esperti in educazione...
Una volta, però, mi chiese un altro tipo di intervento. Essendomi io sottoposto ad un intervento di implantologia endo-ossea (un canino), mi pregò di parlarne con un altro signore, un adulto, che aveva bisogno di un intervento analogo.
Fu una cosa improvvisata, e non preparata. Ma anche quella volta pensai subito che non si doveva trattare di convinzione, di arte retorica, o di qualche cosa del genere: si trattava di spiegare a quell'interlocutore occasionale di che cosa si trattasse, ed in particolare come e perché non vi fosse null'altro di cui avere paura, salvo che della paura stessa. Ma anche quest'ultima asserzione aveva un senso, perché "riempita" di significati cognitivi.
Insomma, avevo fatto il didatta. Un didatta sotto forme particolari, non scolastiche; ma nella sostanza quello.
L'intervento venne eseguito,. Credo che abbia avuto l'esito positivo che ha di norma.

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Potremmo esemplificare questo ampio dominio, riflettendo su quante malattie neurologiche abbiano tali implicazioni culturali da essere difficilmente affrontabili, e ancor più difficilmente curabili, senza un tale aiuto: si accennato all'isteria e alla depressione; si pensi, ancora, a tante fobie, o sindromi ansiose.
Ma poi, tanti approcci alla materia medica richiedono una formazione culturale adeguata. Dall'impiego (più o meno corretto, e più o meno giustificato) della chirurgia plastica, all'abuso di farmaci e relative malattie iatrogene; dalle diete e il rapporto con la complessione del corpo, ad un relazionamento che sia umanamente congruo e positivo con le Performances sportive; dagli eccessi del venerdì e del sabato sera, alla ricerca di prestazioni sessuali quantitative e quantitativamente irrealistiche, e ai contraccolpi che il non pieno conseguimento comporta.
Sono innumerevoli i casi, come questi, nei quali nell'operare la relazione d'aiuto per interlocuzione il pedagogista assomiglia assai al suo parente stretto l'insegnante. Si tratta di un insegnante non pedante, che non somministra "verità", ma che fornisce strumenti cognitivi, oltreché concettuali ed operativi, su aspetti della realtà dei quali l'interlocutore ha evidentemente bisogno.
Questo va operato con una consapevolezza ancora più forte che non negli altri casi, se possibile, della non onnipotenza dell'intervento educativo. La conoscenza è condizione spesso necessaria, ma non è mai condizione sufficiente. Probabilmente, con la didassi non esauriamo neppure la nostra interlocuzione d'aiuto; comunque, di certo non potremo esaurire i bisogni dell'interlocutore, e questo deve essere chiaro fin dal principio. L'aver spiegato nel modo migliore possibile che la malattia nervosa è una malattia come le altre non basta certo a condurre il paziente dal neurologo con l'atteggiamento più costruttivo: ci sono ben altre "agenzie educative", la famiglia, il paese, le amicizie, l'ambiente di lavoro,... Così come l'aver condotto un corso ottimo sulla fisiologia della nutrizione, e sull'estetica del corpo, non garantisce alcunché circa la Fitness o sull'igiene alimentare dell'interlocutore; e via elencando.
Si riguardi quanto detto circa l'applicazione alla materia pedagogica generale dei concetti di Programma e di Programmazione; e si riprenda l'invito a riprendere in questo contesto il concetto di Curriculum.

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Una casistica interessante riguarda l'ansia che si sviluppa nei primi rapporti sessuali: quella del maschio, che si era coltivato nei sogni prestazioni irrealistiche, e diviene ansioso per timori di inadeguatezze che non sussistono, o foss'anche per una o più défaillances iniziali, che comunque non significano impotenza o problemi di esercizio della sessualità, come dovrebbe esser noto; e la femmina che trova ansiogeni sia i risultati scarsi di lui (realmente scarsi, o per tali valutati) sia  il suo non immediato conseguimento dell'orgasmo, o la non immediata realizzazione di altre visioni di soddisfacimento pieno.
In casi come questi, molti medici e molti sessuologi fanno effettivamente i didatti. Oltre a fare i medici ed i sessuologi. Spesso lo fanno abbastanza bene, e con efficacia: a comprovare quanto dovrebbe esserci noto, che non si fa una Didattica nel vuoto, astratta, eterea, ma che (per dirla con Mauro Laeng), va "superata l'opinione che si possa dare un metodo <<a priori>>, per così dire <<vuoto>>, nel quale verrebbe poi calato a riempirlo di volta in volta il contenuto. Quando si cade in questo errore, ci si perde in vaniloqui, come è accaduto a certi logici antichi o a certi epistemologi moderni che hanno preteso di dettare legge alla ricerca scientifica; quest'ultima ha in effetti proceduto per proprie strade senza di loro. La vera metodologia è dunque quella immanente alla ricerca" 54. O, per dirla con Alberto Granese a proposito dell'epistemologia: "La ricerca scientifica prescinde dalla riflessione epistemologica (...) La possibilità formale di stabilire un'equazione tra pensiero epistemologico e pensiero scientifico viene sostanzialmente inficiata da una serie di premesse, una delle quali (ed è in fondo quella che ne costituisce la risultante) è che la ricerca scientifica non tiene conto che in modo del tutto marginale delle riflessioni epistemologiche." 55.
 

C'è narcisismo e narcisismo... anche (o soprattutto) per il pedagogista

Una casistica importante per noi è introdotta da Fromm con un episodio scherzoso e, in fin dei conti, banale. Riguarda quel narcisismo diffuso, diffusissimo, la cui esemplificazione è in effetti facile e presente a ciascuno di noi

"Una donna, per esempio, telefona al medico dicendogli di volersi recare nel suo studio quello stesso pomeriggio. Il medico risponde che non è libero quel pomeriggio, ma che può vederla il giorno seguente. La risposta è: <<ma dottore, abito proprio a cinque minuti dal suo ufficio.>> (...) Sente la situazione in modo narcisistico, poiché lei risparmia tempo, lui risparmia tempo: per lei l'unica realtà è lei stessa," (pag. 126)

Si potrebbe parlare, ad esempio, di tanti studenti universitari, e quindi adulti, che (in questo senso) sono narcisisti...
Non scomoderemo neppure in questo caso concetti impegnativi, come "verità dei fatti" od "obiettività", cosa che pure Fromm fa.
Semmai, ci interessa puntare l'attenzione del pedagogista su questa tendenza, che è davvero diffusa come la gramigna, a giudicare sugli eventi in modo "narcisistico", od egocentrico, comunque con il criterio secondo il quale la realtà è, come è per noi.
E così, ad esempio, si parla di sequestri, di una piaga che si potrebbe combattere bloccando i beni del sequestrato e dei suoi familiari: e c'è chi commenta (si fa per dire) "se fossi tu il rapito...", così la piaga può diffondersi incontrastata. E' l'interesse comune che non esiste, esiste solo un interesse soggettivo, e uno solo.
Oppure, si parla di riconoscimento dei figli fuori del matrimonio, ed ecco: "se tu fossi figlio legittimo, vorresti che i tuoi diritti fossero ridotti da un altro?" (spesso, quest'altro etichettato con parole e locuzioni irripetibili). Ovviamente, chi parla è un "legittimo" con figli solo legittimi, al quale non passa nemmeno per la testa che il "se tu fossi..." si può tranquillamente ed immediatamente rovesciare, ipotizzando che uno fosse figlio di genitori tra loro non sposati.
Od anche, nelle vertenze di lavoro: "io al loro posto farei esattamente così", o al posto di lavoratori o al posto di datori di lavoro, anche nei casi nei quali qualcuno si pone in posizioni incompatibili con il bene e l'interesse comune. Gli si può sempre dire che potrebbe essere al posto degli altri, ma è poco, è fin sbagliato; lo si dovrebbe richiamare a quel che è, un cittadino, che non ha interessi diretti specifici ma ha tanti interessi generali che non sono meno diretti.
L'invito, o l'esortazione, "mettiti nei miei panni..." spessissimo viene a sottintendere "...abbandonando i tuoi". E sarebbe bene invece che, per farsi un giudizio e soprattutto per decidere, per scegliere, uno sapesse mettersi non solo nei panni suoi e nei quelli del dialogante, ma anche in quelli di tutti quanti sono comunque coinvolti nella cosa.

"La mia macchina è parcheggiata in divieto di sosta, e blocca altre auto, costringe i pedoni a camminare in mezzo alla strada, blocca bambini e paraplegici, carrozzine e carrelli? Ma io devo pure parcheggiare da qualche parte!". E se pensassi di organizzare tu la tua vita, la tua sola, in modo tale da non scaricare oneri impropri su altri automobilisti, pedoni, bambini, genitori con carrozzine, acquirenti con borse al carrello, e tutta la collettività che paga in termini di inquinamento chimico e acustico, caos, invivibilità, fanciulli chiusi in casa...
Sono cose note. E' noto altresì che il semplice proporre di alzarsi mezz'ora prima la mattina, fare a piedi qualche centinaio di metri, non pretendere quell'esercizio pubblico per forza, fare la spesa in negozi vicino ai quali si possa parcheggiare, andare all'osteria o a cena solo dove (e se) si può arrivare a piedi, oppure si può parcheggiare, lasciare che i figli vadano a scuola con i loro compagni del quartiere (come è bene per tanti aspetti), e accorgimenti altrettanto semplici e poco dispendiosi, pare assurdo. Perché? Perché in nome di un interesse comune, non soggettivo. Non "narcisistico" nel senso di Fromm, appunto.
"E' vero, non pago le tasse dovute. Ma se le pagassi, dovrei chiudere.". Il che vale a dire, l'intero sistema fiscale non deve funzionare (o deve rimanere obsoleto, od entrambe le cose), scaricare su alcune categorie di contribuenti quello che evadono gli altri e sempre in misura maggiore, frenare pesantemente le assunzioni "in chiaro", scaricare sull'economia intera i costi di un debito pubblico enorme, perché se no lui (forse) dovrebbe chiudere. Così dice. E' corretto che permanga ogni sorta di iniquità fiscale, purché lui possa continuare come prima.
"E' vero, vado a fare la spesa durante l'orario di ufficio. Ma quando la dovrei fare?". Evidentemente, se si occupa un posto di lavoro, se ne assumono i diritti e i vantaggi, ma non i doveri e gli obblighi; è il lavoro, e tutta l'utenza, e tutta la collettività, e tutta la società, che deve piegarsi alle esigenze (vere o presunte) del soggetto. Alle esigenze che egli narcisisticamente predica a sé stesso.
"Io anche porterei le bottiglie usate nella campana del riciclaggio. Ma se fosse davanti casa mia...". Capisce chiunque che non si può mettere una campana davanti ad ogni casa; ma in effetti non è questo che il soggetto chiede, è che la campana sia davanti alla casa sua; e siano gli altri a camminare. Oppure, lui o gli altri (o tutti) faranno a meno di contribuire per quel piccolo ammontare alla soluzione di quel problema spaventoso che è l'accumulo di rifiuti, e il consumo di materie prime.

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L'esempio della politica dei Supermercati contro i taccheggi è molto significativo anche in tal senso (come, del resto, in altri). Il reprimere il taccheggio, che ha tanti aspetti (da quello del poveraccio "professionale" a quello del ricco annoiato e cleptomane a quello del giovane in cerca di bravate o di soddisfazioni senza limiti di Budget), richiede spese, e porta ad atteggiamenti che non tutti accettano. "Come, perquisito io?????". Uno non pensa certo alla redditività del Supermercato, ma neppure che lasciandosi perquisire contribuisce per quel che sta in lui, che è poca cosa in fondo, sia alla giustizia, sia ai bassi prezzi. Che facendosi perquisire benefica tutti, e ne educa molti.
Così, sono decenni ormai che per tutti i beni che non sono proteggibili con costosi strumenti elettronici e magnetici la proprietà e la gestione dei Supermercato adottano una politica molto semplice, fin banale: si calcolano le perdite da taccheggi, e si suddividono nei sovrapprezzi da applicarsi a tutti i prodotti. Così pagano tutti sia le soddisfazioni del ladruncolo, del cleptomane, del giovane idiota e del signore imbecille, sia i profitti dei commercianti.
Ed è, si badi bene, un'altra manifestazione dello stesso narcisismo quella di chi rispondesse: "ma io pago volentieri un modesto supplemento a quel che compro, piuttosto che ammettere una simile violazione della mia persona". Il fatto è che non ammettendo tu quella che tu chiami "violazione" della tua persona, e che comunque tu non ritieni di accettare, quel prezzo lo fai pagare a tutti, modesto o sensibile che sia, anche a quelli per i quali può non essere trascurabile quel sovrapprezzo che tu asserisci lo sia per te; ed inoltre, fornisci una copertura ad un malcostume delinquenziale il quale si alimenta anche di questo tuo atteggiarti. Né è da attendersi che quel malcostume, una volta giustificato, si limiti da solo, né come entità né come campo d'esercizio.
Se io fossi nei panni del commerciante... se io fossi nei panni dell'avventore sospettato...; e se invece io fossi, come sono, nei panni del cittadino-acquirente che non ruba, e non è giusto che paghi per i limiti dell'uno e dell'altro?
E se io fossi, come sono, uno che si preoccupa del senso diffuso dell'impunità per le violazioni anche di norme così elementari, del decadimento morale del paese nel quale si trova, volente o nolente, a vivere, e a far vivere e a tirare su suoi figli?

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Si può fare un esempio molto più semplice, e di entità minore, riferito ai Supermarket: per la precisione, a quelli di maggiore entità, con grandi parcheggi, nei quali esistono più raccolte di carrelli, prelevare i quali richiede in genere una piccola cauzione di 500 lire.
Basta osservare le evidenti dissimmetrie che si sviluppano nella giornata per rendersene conto: in alcuni casi, ci sono siti con file di carrelli incatenati che quasi chiudono la strada, e siti quasi vuoti o vuoti del tutto; ed in altri è solo un particolare tecnico dei carrelli ad impedirlo.
La causa è ovvia, o meglio la non-causa: se ciascuno, come pare intuibilmente giusto, lasciasse il carrello dove l'ha prelevato la situazione sarebbe in semplicissimo equilibrio; ed invece, sono molti (troppi) quelli che trovano più "comodo" prelevarlo vicino all'ingresso, e lasciarlo vicino all'auto, cioè spesso "lontano" di cinquanta o cento metri...
"Comodo", ma ha un costo: bisogna evidentemente pagare un addetto che li risistemi di continuo. Ma il "narcisista" nel senso detto non lo considera: vede il beneficio, minimo, immediato per sé, e non il costo, più elevato, che viene stemperato su tutti, e che per lui è trascurabile; se anche ci pensa.

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Più che "se io fossi...", c'è un altro modo di dire vecchio e arrugginito che, però, ha una sua attualità: "se tutti facessero così...".

I problemi, è chiaro, sono complessi: è questo l'importante, non sono così semplici da potersi ridurre ad una ed una sola visione soggettiva, del "narcisista" egocentrico che non sa vedere il mondo altrimenti, e non vuole nemmeno ipotizzare che lo si possa fare.
Quelli qui riepilogati sono molto diversi, e hanno conseguenze di entità e di gravità parimenti non paragonabili. Ma hanno dei tratti di fondo in comune, una linea metodologica sbalorditivamente ricorrente. Fanno casistica, insomma.
Abbiamo molto buon lavoro da compiere.
 

Nessuna evidenza di patologia neurologica, patologia pedagogica grave (nel progetto di vita)

Una signora cinquantenne, il marito quarantottenne, in interlocuzione pedagogica d'aiuto. L'andamento della casa e della famiglia è assolutamente caotico, questa è la prima e vistosissima evidenza, per il pedagogista e per chiunque altro.
Per la signora, il matrimonio è stato un buon matrimonio, fra l'altro socialmente molto promozionale, né lei stessa fa nulla per nasconderlo. E' sua l'espressione "lieto fine" appunto per designare il suo matrimonio. Il matrimonio e la casa sono stati da lei (almeno) voluti fortissimamente, e arrivati relativamente tardi come testimonia l'età dei figli.
Il marito è un noto professionista, brillante, leggermente più giovane di lei, che per gestire la sua attività (in proprio) deve assicurare un impegno molto prolungato nel tempo (oltreché dispendioso) e su tempi certi e prevedibili, e che per il resto è tutto "casa e bottega", si assume l'unico grosso impegno oltre al lavoro nel seguire i tre figli, due maschi di 12 e 7 anni ed una femmina di 10, ai quali è attaccatissimo senza essere permissivo né indulgente.
La signora, poco impegnata in un'attività intellettuale part time, gestisce la casa nel più assoluto disordine. Ad esempio, gli orari dei pasti hanno oscillazioni di due ore anche in periodi di ferie e comunque senza alcuna relazione con impegni lavorativi (suoi o del marito) o d'altro genere. Essa si impegna maniacalmente in alcune parzialissimi aspetti della casa (ad esempio, è con l'aspirapolvere in mano più volte al giorno e immancabilmente) e, pur avendo un consistente aiuto da una colf (e l'assicurazione del marito che è possibile aumentare l'entità quell'aiuto) i letti sono spesso disfatti, le poltrone e le sedie ingombre di ogni cosa, non c'è quasi nessuna relazionalità della famiglia con l'esterno, i materiali lavorativi che il marito deve portarsi talvolta a casa sono spesso in pericolo e non di rado risultano smarriti, o deteriorati. Il marito lamenta impossibilità a programmare il proprio impegno professionale, e un sonno rovinato dal persistere di disordine e dal chiasso d'ogni genere in casa fino alle 23 ed oltre, a fronte della sua necessità di alzarsi ogni mattino alle 6 (meglio anche prima) e alle sue difficoltà (fin da bambino) a prender sonno.
I rapporti sessuali, che erano stati sempre attivi frequenti e soddisfacenti per entrambi prima del matrimonio, dalla nascita del primo figlio sono diventati difficili a causa degli orari di sonno; recentemente, la moglie ha cambiato drasticamente le sue preferenze, cosa confermata da entrambi, e il marito cerca di seguirla senza riserve espresse, ma con qualche difficoltà evidente.
La coppia si rivolge ad un luminare, uno psichiatra esperto e di riconosciuto valore.
Questi ha la possibilità di numerosi colloqui; e si avvale dell'ausilio di strumenti psicometrici tra i più sperimentati ed elaborati. Al termine, diagnostica una già nota depressione di carattere (ereditaria) al marito, ben sublimata nel lavoro, e per il resto controllabile senza grosse difficoltà con un minimo di prevenzione ambientale e, nella conclamata impossibilità di attuarla per l'assoluta estraneità della moglie al problema, con presidi farmacologici convenzionali e a dosaggi non elevati "al bisogno"; salvo la necessità di un sonnifero relativamente potente e da assumersi ogni sera senza eccezioni. E non trova nella moglie assolutamente nulla di rilevante sotto il profilo neurologico: è perfettamente sana.
Non ha quindi alcun intervento terapeutico da prescrivere ad essa, né nulla di nuova da dire al marito. Si limita a raccomandarle un po' d'attenzione per lo meno per le necessità sanitarie del marito: prevenire ambientalmente le sue possibili acuzie depressive, e non rendergli difficile il sonno.
La coppia si è rivolta al pedagogista, dopo aver scartato ogni ipotesi di consulenze matrimoniali di quelle che hanno a che vedere con possibili separazioni (ma avendola quindi presa in considerazione): tuttavia, i due hanno deciso di farlo solo a seguito di un grave rovescio subito dal marito in un'importante occasione lavorativa.

Mi trovo tra i miei appunti, con evidente riferimento alla donna, e riporto così come sono:

"Nella psicologia (...) non entro, a quanto dicono non è patologica.

Ma nel progetto di vita sì, quello è il mio mestiere.

(...) Dovrei parlare di <<Programmazione di vita>>. Specie a chi rincorre un <<programma>> di vita, che segue (appunto) un <<progetto>>.

Ritornando, è il concetto di <<Happy End>> che andava completato del seguito. Già, <<End>> lo è stato, e con il conseguimento di quanto <<in programma>> ed altresì <<in progetto>>. Giusto fin qui, e abbastanza chiaro.

E dopo?

Si è detto, conseguito il risultato (in progetto), l'obiettivo (in progetto), l'oggetto viene trascurato, abbandonato, sprecato. Ed è corretto, ci sono riscontri a valanga e continui.

Purtroppo.

E giusto.

Ma incompleto.

Supponiamo che ci sia ancora parecchio da realizzare nel <<programma>> o <<progetto>> (di vita). Se vogliamo, (che ci sia ancora parecchio da realizzare) di non consapevole, di non strutturato, di non altrettanto esplicito e operazionalizzabile.

In effetti, si tratta di un ribellismo abbastanza vuoto e, soprattutto, non produttivo. Non costruttivo, distruttivo del tutto.

Che può trovare ed, anzi, trova sfogo proprio in un'assurda replicazione alla stessa età.

E in una situazione paragonabile.

Non è esattamente rivalsa, o contrappeso. Nulla che assomigli ad una costruzione, appunto. Non ci sono <<sì>> da dire, c'è solo da dire una serie di no. Meglio ancora, di distruggere in modo subdolo quanto sistematico tutto ciò che replichi quanto aborrito un tempo.

Ribellismo, aperto.

Sulla scorta di precise pulsioni inconsce (e neppure tanto), comunque non progettuali (ecco!) e non razionali.

Il che, capisco, non fa patologia psichica. Fa anche di peggio."
 
L'espressione "pulsioni inconsce" è scorretta, solo uno psicologo può parlare in quei termini e gli psicologi non l'hanno fatto; avrei dovuto scrivere qualche cosa come "spinte inconsapevoli". Anche il riferimento "alla stessa età" è ellittico, e lo chiarisco tra un attimo. Ma gli appunti ho ritenuto più opportuno trascriverli come sono.

L'osservazione della paternità come rifugio da parte di lui rispetto ad altri problemi di ruolo nella coppia è apparsa immediata: capita di frequente negli ultimi decenni, come reazione costruttiva, positiva del maschio a talune situazioni problematiche nuove alla transizione corrente 56. Non si è riuscito a chiarire molto bene come sia stata la previsione dei figli, tutto quello che appare acquisito è che non si può dare per certo che tutti e tre siano stati voluti e voluti simultaneamente da entrambi proprio in quei momenti. Una gravidanza non sarebbe stata voluta dal marito, e una sarebbe stata voluta dal marito e non dalla moglie (per lo meno, non in quei precisi momenti), ma anche questo appare alquanto fumoso. Già una permanente confusione in queste pur essenziali scelte è rilevante: specie oggi che la donna ha ogni possibilità di contraccezione, a quanto pare da lei stessa non esercitata in questo caso.
Altro sarebbe stato dire: sono capitati senza che li volessimo, ma li abbiamo accettati.
Ma un'autobiografia della moglie, confermata da quanto ha potuto osservare il marito in frequenti interazioni con i suoceri e i cognati, ha permesso di individuare un punto importante. Essa ha un padre dal carattere fondamentalmente violento e ribelle 57, carattere che ha ereditato tale e quale. Sennonché il padre e la madre hanno cercato di educarla come al tempo, e con molta perizia in tal senso, ad una vita di sacrificio e di impegno secondo ottemperanza supina ed acritica a norme in quanto tali. Suscitandone un rifiuto che essi non le davano alcun modo di sfogare.
Essa ha quindi maturato fin da allora l'idea che quel comportamento, lungi dall'essere funzionale ad un certo tipo di famiglia, fosse una crudele ed inutile imposizione di un padre violento e di una madre succube ed acquiescente. Anche nella madre vedeva, in negativo, gli effetti perversi dell'ottemperanza a doveri non compresi.
Per cui l'immagine che fin da piccola ha cominciato a costruirsi della famiglia futura, e che poi ha continuato a sviluppare, era quella di una nuova casa nella quale le sarebbe stato possibile praticare sistematicamente il rifiuto (violento, si badi bene) delle regole, specie di quelle della famiglia d'origine. "Alla stessa età" significa "al marito, alla stessa età alla quale si trovava suo padre quando essa aveva riferito le sue esperienze negative"; in realtà l'età non era la stessa, c'è uno scostamento significativo: ma il ruolo era lo stesso.
Essa non puntava quindi una sostituzione di talune regole considerate assurde o comunque infondate con altre regole studiate e fondate, si badi bene: non puntava ad una "rivoluzione" in senso costruttivo, quindi, appunto. Non si trattava nemmeno di spirito "trasgressivo", di gusto della "trasgressione", cioè di costruirsi un comportamento che viola in modo leggibile e clamoroso (pubblico, spettacolare) una regola, magari per épater les bourgeois, che diventa un modo alternativo di essere normati, in genere normati pesantemente e a costo di gravi sacrifici personali (poco visibili) quali corrispettivo di qualche beneficio personale visibilissimo.
Era ribellismo, nel senso di rifiuto della regola in quanto tale, di sistematica astensione dall'applicare specialmente quelle maggiormente scontate e meno discutibili.
Quella che lei ha voluto è proprio una casa nella quale calpestare le regole in quanto tali. Una casa dove, non del tutto consapevolmente ma con costanza assoluta, gli orari dei pasti, o del sonno, sono fatti saltare e combattuti con la massima determinazione. Una casa nella quale non c'è funzionalità che tenga: per quanto il marito faccia presente che ha bisogno di un minimo di "spalle coperte" per affrontare un lavoro, ad esempio quiete, ordine, luci spente non troppo tardi, è la vera volta che i rumori e il caso crescono e l'orario di quiete si sposta indefinitamente in avanti. Ogni volta che telefona qualcuno per il marito, se si tratta di questioni professionali serie, la notizia o si traduce in pochi lacunosi ed inservibili scarabocchi su un foglio di fortuna, o va perduta (meglio, dispersa). Va perduta/dispersa fin un'aliquota di posta; e del materiale di lavoro.
Mentre, ovviamente, le telefonate o le lettere che non hanno importanza vengono "trascurate" e quindi non fatte oggetto di distruzione ribellistica; piccolo particolare molto illuminante.
Non si tratta di anarchia o di spirito rivoluzionario, bensì di "ribellismo": ci sono dei "contro" avvertiti in modo anche molto profondo emotivamente, ma non c'è nessun "pro". Non provoca l'insonnia o la depressione del marito, si ribella all'idea di dover regolare il suo comportamento in modo da prevenirle; e, ogni volta che le si prospetta l'opportunità di una certa azione in tal senso (ad esempio abbassare le luci e il volume della voce dopo una certa ora di sera a causa delle di lui difficoltà da sempre ad addormentarsi, oppure rispettare quei brani del lavoro del marito nei quali egli sublima la sua depressione ereditaria), si può dare quasi per certo che farà esattamente il contrario.
Non odia il marito, diremmo che lo ama a suo modo, ed è consapevole di averne uf bisogno esistenziale (e non materiale, a ben vedere). Non agisce contro il marito, né proietta il padre sul marito: ma vede nelle regole del marito la possibilità di rifarsi delle regole imposte del padre, in un solo modo: violandole.
Ciò, è chiaro, non integra alcuna fattispecie di patologia neurologica, o medica: ma integra una patologia relazionale evidente, di interesse pedagogico altrettanto evidente.
La lettura è semplice, il pedagogista la illustra, e gli stessi coniugi invitati in tal senso moltiplicano gli esempi: soprattutto la moglie, pur rifiutando una possibile valutazione negativa (e noi non siamo qui per esprimere alcunché del genere, il pedagogista non sancisce colpe, si è ricordato), offre esempi ancor più numerosi e più significativi di quelli, pur numerosi, che porta il marito.
Il marito capisce subito; la moglie capisce, non lo dimostra in modo evidente ma, alla descrizione del suo rifiuto dell'atteggiamento "normato" del padre, è come folgorata. Condivide, e rincara: odiava suo padre e lo odia ancora. E' come se uccidesse suo padre ogni volta che getta materiali sulla poltrona, o che ritarda in modo esasperante il pranzo o il coricarsi, o che ostacola e disturba il lavoro del marito. In realtà il vecchio padre è ancora vivo, seppur malandato in salute, e abita lontano: quello che ella combatte è un padre interiorizzato e idealizzato in negativo.
E difatti, si noti, da anni si rifiuta di misurarsi con quel padre "reale".
Ancora una volta: finché il padre reale c'è ancora, comunque, c'è speranza; ma soprattutto c'è un limite alla fuga dalla realtà, quasi un fattore che per certi sconfinamenti ricaccia dentro.
E l'interlocuzione educativa fluisce sbalordendo il marito che ha sempre trovato una resistenza a discutere di questo che non ha mai saputo superare. Il padre era sì violento, ma era molto migliorato dopo il matrimonio. Si confronta con altri casi di ben più grave violenza nello stesso ambiente. Ma soprattutto, entra un discorso di funzionalità: nessuna famiglia borghese avrebbe potuto funzionare senza l'imposizione delle regole comuni, lo sappiamo; ma in quella famiglia tali regole si potevano leggere meglio nella loro funzionalità al particolare lavoro del padre, un lavoro che, pur molto diverso da quello del marito, imponeva anch'esso un impegno pesante e orari fissi non disponibili.
Il dialogo è avviato; i coniugi riportano segni evidenti di miglioramento, anche se non si nascondono che la cosa sarà lunga.
Non lo sarà poi tanto. O lo sarà a lungo, anche per sempre, ma non più come intervento straordinario ma come dialogo "a regime".
Li risentirò quando torneranno da me: ho dato loro precisa disposizione che, finché riescono a seguitare il loro nuovo dialogo, non mi si rivolgano neanche per ragguagliarmene. Solo due righe, non più di due righe di convenevoli sui biglietti di auguri a Natale e Pasqua, e sulle cartoline dalle vacanze: ne arrivano anche di quattro o cinque righe, va bene lo stesso.

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Qualche mese dopo, per caso ho incontrato il marito che mi esprimeva, con visibile soddisfazione, che il dialogo continuava. Volli controllare un particolare importante: non si ricordava quando il dialogo aveva preso quell'avvio, ha sbagliato di un buon paio di mesi (e le circostanze). Buon segno: non c'è stato un sovvertimento pesante della loro vita, magari necessario e salutare ma comunque non privo di contraccolpi (che si ricorderebbero); si è trattato di inserire armoniosamente in un ménage di coppia una cosa che mancava.

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Ora, avviandoci a chiudere, due casistiche introdotteci dalla stampa, e una casistica estremamente consueta.
 

Affrontare il disagio a scuola di origina familiare, ma non senza Pedagogia

Sulla rubrica "Pediatria" de "Il venerdì de La Repubblica" del 26/9/96 (a. 2 n. 61), a pag. 9, è apparso un articolo sintetico dal titolo "Conflitti familiari dietro il disagio dei bimbi a scuola - Se è svogliato il nemico è in casa": è una breve intervista di Lucia Munna alla terapeuta Anna Sabatini Scalmati, membro dell'Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile. Il titolo è di per sé molto espressivo, sarebbe semmai criticabile quell'impiego non virgolettato della parola "nemico", e quello del termine "bimbi" con probabile riferimento ai fanciulli.
Non si riferisce solo alla svogliatezza, ma ad ogni sorta di inadeguato impegno o di scorretto comportamento a scuola. Ebbene, frequentemente, "Forse a non funzionare non è il suo rapporto con la scuola, ma lo stato d'animo che lo accompagna in aula. E' tra ciò che accade o meno tra le mura domestiche il vero scoglio del (sic!) suo pieno inserimento e del (sic!) raggiungimento di risultati apprezzabili nello studio.". Dopo una sintetica prospettazione di possibili dinamiche psicologiche negative tra il fanciullo e i genitori che sfociano nella scuola, secondo meccanismi generalmente conosciuti, in situazioni ad esempio di "Umori, stanchezze, preoccupazioni dei genitori, eventuali gravidanze, lutti e separazioni", si osserva che "Il piccolo può temere e immaginare angosciosi abbandoni, tradimenti e assalti nemici" vivendo la scuola come "l'emblema, la conferma dell'abbandono. (...) La scuola diventa così una cartina di tornasole che evidenzia problemi psicologici.". In sostanza, "Il disagio sul piano cognitivo o comportamentale spesso matura a causa dell'incapacità di porsi in una condizione di ascolto da parte degli adulti, in particolare delle figure di riferimento."
In casi simili, il genitore è chiamato ad un intervento particolarmente attento: "stargli vicino (...) mettersi nei suoi panni (...) tessere con il figlio una relazione salda e sincera.". Ed, in conclusione, "Quando (...) il disagio permane o si organizza un sintomo, allora occorre rivolgersi ad uno psicoterapeuta dell'infanzia.".

L'articolo è certo interessante, spiega in modo convincente e scientificamente fondato fenomeni purtroppo diffusi, ed invita correttamente (e molto opportunamente) a non ripetere l'errore purtroppo frequente di scaricare sulla scuola ogni sorta di esigenze e di compiti, ed ogni sorta di colpe.
Potremmo arrivare alla medesima conclusione per vie pedagogiche: la condotta e il profitto, la relazionalità e l'evoluzione culturale, a scuola sono anche dipendenti da ciò che avviene al di fuori, cioè nella stragrande maggioranza del tempo, in particolare a casa dove comunque ne passa enormemente di più e dove condizioni e disponibilità, suscettibilità e aspettative e quant'altro, sono incomparabilmente superiori che non a scuola.
Per chi fosse, comprensibilmente, dubbioso: si faccia il calcolo nell'arco di tutto un anno. I tempo-scuola oscilla, bene che vada, da un massimo "teorico" di 1300 ore ad un minimo che può andare sotto le 800 ore, cioè da un 15% praticamente irrealizzato ad un minimo del 9%, od anche meno. In genere non si va oltre le 1000 ore per anno, cioè un 11%.
D'accordo, quindi, ma con virgolette: a volte, il "nemico" è a casa, in famiglia. Tutto ben detto, e opportuno a ricordarsi. In particolare che il genitore (ma non solo lui, diremmo) ha dei doveri anche riguardo a ciò che avviene a scuola, dovere fondamentali.
Già una tale presa d'atto, non sempre avviene, per non dire dell'azione educativa conseguente: ed anzi, chi opera a scuola si rende ben conto che le varie figure di riferimento possono non avere con lo scolaro un dialogo pieno ed adeguato alle sue esigenze educative. E qui siamo ben dentro nello specifico pedagogico. Non si rendono conto che sono loro carenze e loro comportamenti a causa precisa e ben individuabile (da un esperto) di disagi dei loro figli a scuola.
Ma soprattutto: che si fa, in questi casi?
Noi risponderemmo: si interviene su queste figure di riferimento, perché loro vicissitudini personali o familiari non vadano ad incidere negativamente, o addirittura distruttivamente, sulla loro interlocuzione educativa con gli scolari stessi. Il che significa: come siamo tutti educatori, siamo anche tutti educandi; siamo tutti educatori proprio perché ed in quanto siamo tutti educandi; la buona educazione dei fanciulli ha a premessa la buona educazione degli adulti di riferimento; e, come ci preoccupiamo degli scolari, l'intervento educativo è da estendersi a tutte le età.
Non è quindi risolutiva la conclusione di quella nota, e non è neppure accettabile così come sta. Provveduto che le cause non sono nello scolaro, è sulle cause che si deve intervenire; certo, non negheremo che egli vada curato nei sintomi e nelle conseguenze; ma purché si prendano in carico le premesse. I familiari, gli insegnanti, e chiunque ne sia interlocutore educativo, vanno messi in condizione di non dare origine a conseguenze patologiche negli educandi: insomma, vanno educati, anche se la parola non gode ancora della considerazione che meriterebbe. Vanno consigliati di rivolgersi loro ad un riferimento di aiuto pedagogico, di instaurare un dialogo con un pedagogista sui programmi di vita, sulla comunicazione, sui ruoli ed i rapporti, sul divenire relazionale, sull'evolutività, sull'apertura, e su tutto quanto è pertinente alla odierna Pedagogia degli adulti e della famiglia. E' sempre un "let's talk!": ma, si diceva, è un "parliamo!" diverso, specifico, il parlare con il pedagogista.
La psicoterapia può essere utile, e non di rado è necessaria: ma, senza la Pedagogia, non è sufficiente né in questa casistica né mai.

In altre parole, non vorremmo che qualcuno ci dicesse, ad esempio: lo scolaro presenta sintomi da intossicazione da fumo, o da alimentazione sbagliata, cagionate a casa? Occorre, e basta, rivolgersi ad un pediatra!
Occorre, certo, e non va negato: ma non basta...
 

Quali "obblighi di famiglia"? Quali regole?

L'episodio è del 2 ottobre 1996, scoperto e reso noto un paio di mesi dopo.
Aniello Di Maio, pensionato di 62 anni di Castello di Cisterna (NA), ha ucciso la nuora Adelaide Dannoso, commerciante di 26 anni di Arpaia (BN), sposa del di lui figlio Giuseppe e madre di tre figli. Ai primi due maschi erano stati imposti nomi della famiglia paterna; già durante la terza gravidanza, dalla quale sarebbe nata una femmina, erano scoppiati in casa violenti litigi irrisolti tra le due famiglia circa il nome della non ancora nata.
Alla fine si è raggiunto un compromesso dalla evidente fragilità, che chiunque avrebbe potuto prevedere come foriero di ben altri problemi successivamente. Ad essa verrà imposto all'anagrafe il nome della nonna materna Elisa, con l'accordo che in famiglia sarebbe sempre stata chiamata con il nome della nonna paterna Angela: si tratta di nomi, si capisce, ricorrenti nelle rispettive generazioni.
Si trattava di una "bomba a tempo".
E proprio il 2 ottobre, Sant'Angelo, l'omicida perpetra il suo atto non accettando i festeggiamenti della nipote: raggiunge la nuora sul lavoro e la uccide con un solo colpo di pistola alla testa, esploso da un'arma della quale era in possesso regolare.

I quotidiani, nel riportare la notizia (invero con toni meno emotivi che non per altri omicidi effettuati per motivi futili), richiamano le tradizioni plurisecolari, qualcuno accennando a differenze tra Nord e Sud Italia, e ricordando anche l'uccisione dell'agosto precedente del figlio da parte di un altro beneventano, tale Raffaele Pastore di 61 anni, per motivi analoghi.

Questo offre la possibilità, o meglio l'opportunità, di aggiungere qualche considerazione da pedagogista a quanto opportunamente già scritto circa l'orribile episodio di Castello di Cisterna.
Tra i tanti esperti consultati dai vari quotidiani e periodici in merito non risulta un pedagogista.
Ad esempio, "La Repubblica" del 5 dicembre (anno 21 n. 287) riporta (pag. 25 - Cronache) assieme all'articolo sulla notizia qualche riflessione dell'antropologo Lucio Lombardi Satriani. Questi argomenta sulle "persistenti (...) modalità culturali tradizionali", nel caso in esame anche traducenti un "desiderio di prolungare la propria esistenza", a volte "maniera di far rivivere nel nome (...) i genitori defunti.". Esprime comprensione sia per "il desiderio" che per "la funzione complessiva che tale usanza (...) assolve." considerando comunque non giustificata questa "esasperata risposta" la quale andrebbe "rapportata a quell'abitudine alla violenza che purtroppo caratterizza sempre di più il nostro tempo.". La tradizione è diffusa "nelle realtà più conservative culturalmente", ma "Il dare sfogo alle frustrazioni con la violenza è tipico delle società postindustriali. Nelle società contadine e agro-pastorali esisteva una proporzionalità costante tra offesa e reazione all'offesa. (...) E' quando saltano le regole e ci si assuefa alla violenza che poi possono verificarsi tragedie come quella di Castello di Cisterna. Un fatto che mostra anche quanta violenza questa comunità abbia interiorizzato nei suoi modelli e nelle trasformazioni culturali inflitte a tutte le regioni meridionali, in un quadro complessivo di espropriazione della loro identità culturale."

La diagnosi sull'espropriazione culturale del Sud è condivisibile, anche se osserveremmo che essa è iniziata con gli anni 1860-61, con Garibaldi e i Mille, l'acquisizione del Regno delle Due Sicilie alla corona sabauda e l'estensione acritica della legislazione sabauda, e di una certa cultura allogena, a quelle civilissime regioni, trattate più o meno come colonie. Non riguarda peraltro solo il Sud, e comunque non è tipicamente "postindustriale", tutt'altro.
Il pedagogista deve impegnarsi anche in queste considerazioni storiche e culturali; e d'altra parte queste considerazioni storiche e culturali hanno bisogno anche dell'apporto specifico del pedagogista.
Difficilmente potremmo ammettere che la società industriale, o quella contadina ed agro-pastorale, non fossero caratterizzate da una violenza essenziale, per lo meno non inferiore a quella della società cosiddetta "postindustriale". Tuttavia, è condivisibile che, in qualche modo, si sia di fronte ad un momento nel quale "saltano le regole". Forse ciò che andrebbe discusso è: quali regole. E appare chiaro, a questo punto, che va ricordato come la struttura educativa e socio-culturale dell'evo borghese tendeva a far credere le proprie regole come le uniche regole possibili, le uniche legittimamente esistenti, quelle addirittura sempre esistite e che sempre esisteranno. Il borghese non discute di quali regole, le regole sono quelle, immutabili e indiscutibili, presunte eterne.
Va premesso che non è il caso di parlare di "esasperata risposta", come se esistesse e fosse scontata una risposta violenta legittima di quel vecchio a quella scelta della nuora. Anche il riferimento all'"abitudine alla violenza" porta a definire quella situazione piuttosto come un pretesto, al più un detonatore, per comportamenti distruttivi verso chi diverge culturalmente, piuttosto che come una violazione di pretese regole alla quale è lecito rispondere in modo violento, seppure non così ma in qualche mitica proporzionalità.
Quale "offesa" c'è stata, insomma?
E' la pretesa "regola" di replicare di generazione in generazione i nomi che merita qualche approfondimento. Essa può anche discendere dal "desiderio di prolungare la propria esistenza", pur se il nome è a volte di persone già defunte, e comunque non di quelli che lo impongono: semmai, si tratta di un desiderio, o di una illusione, di prolungare l'esistenza altrui, allora. Ma le motivazioni possono essere anche altre, e molto diverse; ed è allora che questa diviene una costrizione, e non esattamente un "desiderio".
Non si tratta di un fenomeno solo borghese, cioè della famiglia nucleare; il fenomeno si ritrova nella famiglia e nelle dinastie nobiliari, ad esempio, ed in quelle patriarcali come Lombardi Satriani allude parlando di realtà contadine o pastorali. Si capisce però come in questi due ultimi casi, e in casi che sembrano analoghi ma sono molto più antichi, la pratica abbia un significato essenziale alla forma di famiglia; mentre nella famiglia nucleare no. Ha un significato diverso.
Si rifletta, piuttosto e per comprenderlo, su quale frequenza essa abbia entro prassi educative tutte centrate sulla ripetizione di "modelli" di vita, spesso idealizzati proprio in un elemento delle generazioni passate. Il bambino non è ancora nato, e sono già determinati (da altri) il suo futuro, i suoi studi, il suo lavoro e quant'altro è più rilevante umanamente, proprio attraverso modelli di riferimento, modelli idealizzati e irreali, fittizi ma propinati per reali: il che è esattamente borghese.
Questa è violenza di base, terribile quanto diffusa. La replicazione meccanica (e costrittiva, inderogabile) dei nomi, dei comportamenti e di altre evidenze umane è efficace nel rendere tangibile questa predeterminazione, nell'imporla, nel farla metabolizzare. In effetti, tutto ciò è tipico delle società "più conservative culturalmente", altro che post-industriale.
Educhiamo dunque alla ricerca di vie proprie e nuove, ai progetti di vita evolutivi e divergenti, a che ciascuno si scelga e si costruisca il proprio futuro: ed allora, fra l'altro, ci apparirà del tutto irrilevante anche la corrispondenza generazionale (o meno) dei nomi.

*****

In quella famiglia, si capisce, non c'era dialogo. Né apertura. Concetti di competenza pedagogica.
Aggiungiamo quindi la riflessione secondo la quale sarebbero tanti i problemi quotidiani come questo, presentati nei Mass Media, sui quali il parere di un pedagogista non guasterebbe.

*****

P.S.: ho due figli, fanciulli al momento di stendere la presente, che hanno nomi bene auguranti, ricchi di significati, non artificiosi e, se posso solo per un attimo staccarmi dalla mia funzione, pari al loro splendore; Sofia (greco, saggezza, sapienza) e Davide (ebraico, l'amato). Riprendo subito: questi due nomi non mi risulta che siano mai stati presenti in nessuno degli ascendenti e collaterali della famiglia mia né di quella di mia moglie.
 

Regole e regolette: relazioni umane, ed ambiti per il loro esercizio normato

Ma non chiudiamo con considerazioni drammatiche: parliamo di qualche normatività che è in sé molto più leggera, ma metodologicamente del tutto analoga. Del resto, non è detto che la problematica, in partenza molto soft, non possa degenerare seriamente con l'andare del tempo. Non è questo il punto, l'insegnamento è altrettanto profondo e di valenza altrettanto generale.
E' noto che nel parlare comune, amicale familiare e comitale, i nomi vengono spesso abbreviati e vezzeggiati. Pochi Gianluigi non sono Gigi o Gian; difficilmente un Pantaleo non sarà chiamato Leo, ed una Rosalia Lia.
Ora, qui si è assistito ad una silenziosa ma nettissima transizione di regole, sulla cui causa sarebbe interessante indagare. Anglicismo? Frettolosità simbolica?
Una ventina d'anni fa o poco più, l'abbreviazione era per lo più fatta sulle finali: Alessandro/a era senz'altro Sandro/a, Fiorenzo/a Enzo/a, e Pierluigi Gigi. Prosegua il lettore da solo con gli esempi, indubbiamente abbondanti.
Oggi, e da tempo, prevale in modo netto e quasi esclusivo la tendenza opposta, ad abbreviare sulle iniziali. Quasi tutti gli Alessandri e le Alessandre sono senz'altro il neutro "Ale" (o "Alex"); Raffaella, che un tempo sarebbe stata "Lella", oggi è certamente "Raffa". E, nuovamente, via elencando a piacere. Valentino o Valentina, anziché il "Tino" o "Tina" scontati un tempo, ora vengono chiamati con un altrettanto scontatissimo e altrettanto neutro "Vale".
Fin qui, chiaramente, non c'è nulla di problematico. Si tratta di poco più che una innocua ragazzata.
Ma che succede se in un ambiente si persevera da parte sua a seguire la regola "vecchia" (ad esempio la famiglia d'origine continua a chiamare un ragazzo "Sandro", o una ragazza "Lella", appunto) mentre invece in un altro ambiente, gli amici e i compagni di scuola e di divertimenti ad esempio, si opta senz'altro per la regola recente ("Ale", nuovamente neutro, e "Raffa" o l'altro neutro oltreché più sbrigativo "Raf", quindi)? Nuovamente, fin qui (e di per sé) non succede niente.
E pure, si osserva come i conflitti generazionali si manifestino anche in queste forme soft; che, per lo meno, hanno il pregio di non essere violente, ma possono covare ogni sorta di contrapposizione inutile, non virtuosa, non produttiva, non umanamente promozionale.
Che situazione problematica si presenta se il soggetto "legge" la chiamata per regola "vecchia" come sminutiva, come un ridurlo a eterno bambino, come segno di dipendenza, e di tutto ciò che di negativo può essere soggettivamente ravvisato nelle trascorse età dello sviluppo? Si presenta la stessa situazione problematica che si ha nell'ipotesi reciproca nella quale invece egli intenda la regola innovativa come segno di crescita, di emancipazione, di valorizzazione, di autonomia. "Da bambino ero Chicco" o "Nico", ora sono "Dome", sono grande! Cioè, sbaglia in entrambi i casi, si preclude una lettura della realtà in nome di un atteggiamento "ideologico ingenuo", naïf.
Un pasticcio, insomma. E non sono poche le testimonianze registrate di conflittualità che escono dalla latenza in circostanze come questo. "Il mio Ninetto!..."; "NO! Io sono John, capitoooooo???". "La mia Linetta!..."; "Linetta chi? Io sono Angie, una vera donna, ormai!"
Si capisce: il problema non sta lì, nella modalità di operare il diminutivo. Né per Giovanni, né per Angela.
Il che non toglie che una risposta dobbiamo pur darla alla domanda: come comportarsi? Per lo meno, per togliere un mascheramento, un diversivo, un alibi. Ma anche perché per noi la sottolineatura sull'aspetto metodologico trova positiva applicazione anche in questo, pur semplicissimo, caso.
Ed allora, una risposta generale l'abbiamo. Facile facile.
Ogni apparato normativo per tutto quello che attiene alla relazionalità si riferisce ad un certo dominio; e già l'ipotizzare una normatività "assoluta" è ideologizzare in luogo di razionalizzare la realtà, si accennava: è fuga dalla realtà. Comunque, non segno né di crescita né di maturazione
Dunque, il pedagogista indicherà l'ottemperanza a regole contestualizzate, in questo piccolo come nel più grande (ed anzi, imparando dal piccolo per il grande): nel senso di rispettare volta a volta le regole generalmente accettata nell'ambiente che si frequenta.
Tu, Donatello, sarai correttamente Lello in casa, e Don tra i tuoi amici. E va benissimo così. La maturazione passa anche attraverso un corretto rapporto con le regole, e il riferimento delle regole al contesto nel quale si agisce.
Pensate dunque che, con questo, avrà imparato, metodologicamente, poco?
E voi lettori?

***

Note:

1      Attenzione al termine: non uso il termine "dialogo", che pure sarebbe corretto, perché il dialogo dovrebbe caratterizzare ogni relazione umana e ogni sodalizio, come lo sono la coppia, la Partnership, la famiglia... Il termine "interlocuzione" rende meglio il carattere non sistematico nella vita:
l'intervento del pedagogista è un dialogo, ma che non può diventare permanente e non deve diventarlo: è un loqui inter, un parlare dentro, un inter-venire.

2      Opera citata.

3      Erich Fromm Lesebuch (1985), Edizione italiana Il meglio di Erich Fromm a cura di Rainer Funk (Mondadori, Milano 1990), pag.43,

4      Educazione 2000, pag. 256-259; Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 88-91; e passim.

5      Circa la distinzione tra le situazioni problematiche, nelle cose, e i problemi, posti dall'uomo, valgono i rimandi fatti in precedenza; se ne è scritto diffusamente anche in talune altre opere delle Edizioni Pellegrini, Atti dei Convegni di Praja a Mare.

6      Scienza e pedagogia, pag. 53-60.

7      Cfr. per la prima rilevante estensione del concetto R. Massa Educare o istruire?, Educopli, Milano 1987.

8      Non risultano sostantivazioni: la "clinica" di oggi può corrispondere a 'e klíniké tékhne, cioè all'"arte clinica", grosso modo.

9      Educazione 2000, pag. 300-305.

10     La formazione in età adulta (Liguori, Napoli 1995), pag.46.

11     Si ricordi ad esempio la dettagliata disamina di Sergio De Giacinto a proposito dei numerosi termini che in tedesco si riferiscono all'educazione e ai discorsi su di essa, che si è riprodotto in Educazione 2000, pag. 220-221 (tratto da Epistemologia pedagogica tedesca contemporanea (La Scuola, Brescia 1974), pag. 17-19.

12     Non ci addentriamo nella "storia delle parole", che non ha rilevanza in questo contesto come abbiamo visto ad esempio in Educazione 2000, pag. 189-197.

13     In Il meglio di Erich Fromm, edizione italiana citata, pag. 137. Scritto del 1968.

14     Edizione italiana citata, pag. 46.

15     Cfr. D. Demetrio: Raccontarsi. L'autobiografia come cura di sé, R. Cortina, Milano 1996. A "Il metodo autobio

" è stato dedicato il n. 4 della rivista "Adultità" da lui diretta (ottobre 1996).

16     Edizione italiana citata, pag. 46-47.

17     Educazione 2000, pag. 92-96 e passim nella Parte I.

18     Il meglio di Erich Fromm, edizione italiana citata, pag. 89. E' uno scritto ancora del 1932, poi più volte ristampato.

19     Educazione 2000, pag. 401-407, e Un'introduzione allo studio dell'educazione, citato, pag. 155-172.

20     Cfr. Psychoanalysis und Religion (1950). Edizione italiana Psicoanalisi e religione, Edizioni di Comunità, Milano 1961, e varie riedizioni, da ultima in edizione economica Mondadori, Milano 1996.

21     In Il meglio di Erich Fromm, edizione italiana citata, pag. 158. E' uno scritto ancora del 1947.

22     Educazione 2000, parte III passim, e Un'introduzione allo studio dell'educazione, citato, pag. 155-172 e sgg.

23     L'Eros (1994); edizione economica: Mondadori, Milano 1996, pag. 29. E' un'opera dalla quale potremmo trarre moltissimi spunti di riflessione pedagogica.

24     Educazione 2000, pag. 300-304.

25     Educazione e scienza, pag. 191-196; Educazione 2000, pag. 388-401; Un'introduzione allo studio dell'educazione, pag. 148-155.

26     Esiste un'ampia pubblicistica sulla materia, nella quale non è opportuno andare. Citeremmo solo, perché largamente sufficiente per queste brevi pagine e perché ha costituito per moltissimi come per chi scrive una delle rime vie d'accesso alla telematica non strutturata in Internet, il Manuale Modem di Frank Stajano, un testo disponibile assolutamente gratis nelle reti amatoriali

27     Ad esempio in L'amore per la vita, edizione italiana citata, pag. 135-153; e soprattutto in The Anatomy of Human Destructiveness (1973), edizione italiana Anatomia della distruttività umana (Mondadori, Milano 1996XII), pag. 452-524 e passim.

28     Prima degli Studien, Freud aveva pubblicato diversi scritti aventi per oggetto l'isteria. Il primo di questi (1888) riguardava proprio un caso d'isteria maschile trattato da Jean-Martin Charcot. Cfr. Opere 1886-1905 e Opere 1905-1921 (Newton Compton, Roma 1992), anche per le diverse immagini dell'isteria alle quali egli stesso faceva riferimento, e che non è questa la sede per approfondire.

29     Si veda, per il problema generale del rapporto con la Psicologia come una scienza dell'educazione, anche "Scienze dell'educazione e pedagogia: il rapporto con la materia psicologica" in corso di stampa nel volume di scritti in onore di Giorgio Tampieri a cura di Loredana Domenis Czerwinski (Franco Angeli, Milano 1997). In quella sede, ci si riferisce più alla Psicologia della Conoscenza, materia di studio del dedicatario di quegli Studi, che non alla Psicologia Clinica e Terapeutica.

30     Psicanalisti e pazienti a teatro, a teatro!: Mondadori, Milano 1988, pag. 41-42.

31     Cfr. Educazione alla salute tra prevenzione e orientamento (Pellegrini, Cosenza 1992), atti del VII Convegno Internazionale di Praja a Mare (28-31/10/1990). Come svolgimento ulteriore di questo aspetto della tematica si rimanda al contributo "Il diritto alla salute come problema pedagogico" (pag. 51-77). Si tratta solo di "parte" degli atti di quel VII Convegno; essi sono completati dal volume Educazione al lavoro nell'Europa degli anni '90, intendendosi, coerentemente con quanto detto, i due "diritti" come due facce di un'unica problematica pedagogica.

32     La pedagogia italiana contemporanea vol. I, citato, pag. 300.

33     A presentazione del quaderno Progetto giovani '93 espresso dall'Ufficio Studi e Programmazione del M.P.I. (Tecnodid, Napoli 1990).

34     Pedagogia tedesca contemporanea vol. II, citato nella edizione 1993, pag. 128. In realtà, l'aggettivo latino è "commune".

35     E' da leggere tutto il contributo, dal titolo significativo di "Pedagogia empirico-utilitaristica", che fa riferimento massiccio alla letteratura di lingua inglese, ed un riferimento a tanti autori italiani molto più ampio di quanto non se ne faccia comunemente in Italia come Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Alessandro Piccolomini, Leon Battista Alberti, Giandomenico Romagnosi, Andrea Angiulli, Roberto Ardigò, nonché ad epistemologi contemporanei. Pedagogia tedesca contemporanea, vol. II, citato, pag. 145-167.

36     Ripresa da Dei delitti e delle pene (1764), edizione Harlem-Paris 1780, pag. 2.

37     G. Mosse, Opera citata, pag. 166.

38     Avere o essere? Edizione citata, pag. 249-250. Segue un stimolante a Freud: "le donne a suo giudizio avevano una coscienza, per l'esattezza un Super-io, meno sviluppato degli uomini, ed erano più narcisistiche." In effetti, si tratta di componenti della psiche che si formano culturalmente, non dati (o non puramente dati) per natura.

39     Si veda, ad esempio, quanto esemplificato alla citazione relativa da To have or to be?. Ma si tratta solo di un esempio, pure molto incisivo, tra gli innumerevoli che si potrebbero portare. Molte delle collettanee tarde o postume di scritti di Fromm non mancano di ritornarvi: quella fondamentale in tal senso ha per titolo Liebe, Sexualität un Matriarchat (1994), e contiene tra l'altro quelli che probabilmente sono gli scritti fondamentali, in pare inediti che risalgono addirittura agli anni '30: edizione italiana: Amore, sessualità e matriarcato (Mondadori, Milano 1997); alcuni scritti erano stati pubblicati, dalle stesse edizioni, nel 1976. Va detto che alla base di questo vi è una ripresa delle teorie di Jakob Bachofen (1815-1877), anzi delle sue "Scoperte", un ripresa e un appoggio che risalgono almeno agli anni '50; mentre studi successivi anche alla morte di Fromm hanno pesantemente confutato quelle tesi (Georges Devereux: Donna e mito; ed. it.: Feltrinelli,l Milano 1984; Uwe Wesel: Il mito del matriarcato. Ed. It.: Il Saggiatore, Milano 1986.
Tra le altre opere di Fromm consultabili al riguardo, due esempi per tutte: Life between having and being (1993, a cura di Reiner Funk); edizione italiana L'arte di vivere (Mondadori, Milano 1996), pag. 39-48; Il meglio di Erich Fromm, edizione italiana citata, pag. 79-93.

40     Fuga dalla libertà, pag. 194 come detto.

41     Cfr Sessualità e nazionalismo - Mentalità borghese e rispettabilità, citato, fin dall'esordio.

42     Si veda la disamina, non esaustiva ma ampiamente suggestiva, alle pag. 37-41 di Un'introduzione allo studio dell'educazione,

43     Educazione 2000, pag. 61-66 e dintorni.

44     Educazione 2000, part. pag. 79-82, e Un'introduzione allo studio dell'educazione, passim.

45     Cfr R. Trumbach, opera citata.

46     Ibidem, pag. 31 e sgg.

47     Tratta dal Dizionario dei miti di Gabriella D'Anna (Newton Compton, Roma 1996), pag. 82.

48     Enciclopedia Zanichelli 1994, pag. 1295.

49     Un'introduzione...: tra sono i componenti essenziali, il Wissen greco classico, il Gesetz romano, il Gewissen giudaico-cristiano.

50     "La Repubblica", anno 21 numero 147, domenica 23 giugno 1996, pag. 8.

51     Educazione 2000, pag. 288-293, e Scienza e pedagogia, pag. 77-80.

52     Il meglio di Erich Fromm, edizione italiana citata, pag.24.

53     In questo caso e nei successivi, per chi sappia qualcosa di logica degli enunciati, o di latino, o di entrambi: si tratta di un "vel" (congiunzione vera se sono vere o l'una o l'altra od entrambe le proposizioni) e non di un "aut" (congiunzione vera solo se una delle due è vera e l'altra è falsa, cioè l'una esclude l'altra)

54     Atlante della pedagogia (Tecnodid, 3 volumi, Napoli 1990-1993) a sua cura, 2° volume, "Metodologia, didattica generale, didattica speciale" (pag. 11-18), a pag. 11.

55     "Epistemologia e pedagogia", in op. ult. cit., pag. 62.

56     Si vedano anche le osservazioni al I 8 di Educazione 2000, pag. 66-70.

57     E' da notarsi che Fromm contrappone, in molte sue opere, il carattere "ribelle" a quello "rivoluzionario", proprio nel senso che questo secondo ha un fine costruttivo, più o meno a lunga prospettiva, mentre il primo no. Questa persona non ha, in effetti, alcun intendimento di rovesciare la famiglia esistente per costruirne un'altra, ma terrebbe lo stesso atteggiamento in qualunque famiglia.


 
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