Relazione sulla politica estera italiana
inviata a Mussolini
da Leonardo Vitetti

luglio 1932

 

Eccellenza,
La conferenza di Losanna si è chiusa con un passivo per la politica italiana. Da qualunque punto di vista i suoi risultati si considerino, essi sono pregiudizievoli per noi. La Conferenza di Losanna ha segnato:

1) La liberazione della Germania dai suoi obblighi finanziari verso gli Alleati, senza che né gli Alleati siano stati liberati dai loro obblighi verso gli Stati Uniti, né l'Italia e la Francia, dai loro obblighi verso l'Inghilterra;

2) Un riavvicinamento anglo-francese, sotto forma di un Patto di Fiducia, il quale, se non ha il carattere che gli attribuisce Herriot, rappresenta tuttavia da parte della Gran Bretagna la constatazione che la procedura piú adatta per la soluzione dei problemi di politica europea deve far capo a un accordo preliminare fra l'Inghilterra e la Francia;

3) Un rafforzamento della posizione della Germania, la quale, liberatasi dal peso delle riparazioni, potrà da ora in avanti piú liberamente dedicarsi al raggiungimento degli obiettivi della sua politica estera, dei quali due almeno - i suoi armamenti e l'assorbimento dell'Austria - sono in pieno contrasto con i nostri interessi.

In conseguenza di questi fatti, i nostri rapporti con le grandi Potenze di Europa vengono ad essere tutti, piú o meno gravemente modificati, e la nostra libertà di azione, rispetto a tutte le grandi Potenze, notevolmente ridotta. Queste avranno tutte nel prossimo avvenire meno bisogno di noi: la Germania che ha oramai raggiunto col nostro aiuto il primo e piú essenziale dei suoi obiettivi, e troverà in un aumento della sua libertà e della sua forza, la possibilità di seguire una politica piú indipendente; la Francia, che con la fine delle riparazioni, vede rimosso il maggiore ostacolo ad una ripresa dell'intesa franco-britannica; la stessa Inghilterra che, liquidate le riparazioni, non è piú obbligata a far ricorso a noi per assicurarsi il nostro concorso alla soluzione del problema della ricostruzione economica della Germania, e del ritorno della Germania a una politica di cooperazione nella comunità europea, che ha costituito in questi anni uno dei piú forti anelli di congiungimento fra la politica britannica e la politica italiana.
ii. La politica britannica e la politica italiana non hanno una base permanente comune, l'Inghilterra avendo assoluto bisogno di regime mondiale di stabilità e di conservazione, mentre l'Italia è obbligata dalle sue necessità di vita - e sopra tutto ora in seguito all'inasprimento del protezionismo europeo e del protezionismo americano - a farsi largo tra i grandi Imperi che si sono venuti a costituire nel secolo xix. Quello che in questi anni ci ha unito all'Inghilterra è stato solo una certa affinità di interessi di fronte al problema dell'equilibrio europeo, per essere noi separati per le Alpi dall'Europa continentale come essi lo sono per la Manica, e non avere ambizione ad estendere il nostro dominio sopra nessun territorio continentale. Negli anni che hanno seguito la guerra questa affinità di interessi ci ha sempre portato vicino alla politica inglese, nella quale noi abbiamo anche trovato il solo possibile appoggio per resistere alla strapotenza della Francia, e ai tentativi di dittatura politica finanziaria e militare che la Francia ha in questi anni compiuto in Europa. Noi, con ancora in cuore le amarezze della Conferenza di Parigi e della slealtà politica di Clemenceau e di Poincaré, gli Inglesi, con la preoccupazione di ricostruire l'economia europea sulle basi di una riconciliazione franco-tedesca, ci siamo trovati uniti dal 1920 a oggi in una politica di revisione dei trattati, che tuttavia per gli Inglesi non è andata mai al di là del problema delle riparazioni e di un equo riconoscimento dei diritti della Germania nella comunità europea, per noi ha voluto sempre significare una revisione a favore dell'Italia della distribuzione dei territori coloniali extraeuropei. Questi sono i legami - né molto solidi né molto resistenti - che hanno congiunto la politica britannica alla politica italiana, e che la Conferenza di Losanna ha in parte sciolto e in parte la Conferenza del disarmo sta sciogliendo, mentre l'Inghilterra deve fatalmente rettificare la sua posizione verso la Francia. Una volta infatti cancellate le riparazioni, e una volta ammessa, riconosciuta ed attuata la parità di diritti nel campo degli armamenti - un primo passo alla parità fra forze tedesche e forze francesi - quali saranno piú gli interessi che potranno indurre l'Inghilterra a una politica di limitazione della forza francese? E che bisogno avrà piú l'Inghilterra della cooperazione italiana di fronte alla Francia? L'Inghilterra non potrà - nei prossimi anni - che spostare l'asse della propria azione - come indica il Patto di Fiducia - verso una piú stretta cooperazione con la Francia, alla quale, dopo tutto, la lega il fondamentale interesse della conservazione e della stabilità nelle condizioni del mondo. Il Patto di fiducia certo non è né l'alleanza franco-britannica, né l'abbandono del sistema dell'equidistanza consacrato negli Accordi di Locarno, né la rinuncia alla politica dell'equilibrio europeo, ma indubbiamente è un sintomo, un indice, una tendenza, il principio di una direttiva, forse una meta, verso la quale l'Inghilterra lentamente ma logicamente si avvia. Questa direttiva è favorita dal decadere della potenza finanziaria francese, che negli ultimi due anni aveva minacciato la supremazia inglese e umiliato la City, dai primi segni di una rinascita politica tedesca che già appare essere piú rapida e piú violenta di quanto l'Inghilterra non si attendesse e finalmente dalle estreme condizioni di debolezza nelle quali è ridotto il Labour Party che negli anni scorsi è stato il piú deciso sostenitore del revisionismo, e che per un lungo periodo non potrà riaversi dal colpo subito nelle elezioni dello scorso autunno ed esercitare la sua influenza sulle direttive della politica estera inglese. I conservatori inglesi sono stati sempre inclinati a una politica di solidarietà anglo-francese, solo corretta dall'avversione inglese a ogni forma di predominio francese sulla Germania. Caduta o venuta ad attenuarsi la possibilità di un tale predominio, viene a cadere o ad attenuarsi anche la ragione di una opposizione laburista alla politica francese. Una maggiore intimità fra la Francia e l'Inghilterra è nella natura delle cose, voglio dire nella fondamentale identità degli interessi dei due paesi, e nella logica degli avvenimenti. E non abbiamo del resto noi stessi notato nella ultima fase della Conferenza del Disarmo - mi riferisco in particolare al periodo che immediatamente precedette e a quello che seguí la presentazione del Progetto Hoover - e poi nel corso della Conferenza di Losanna, una crescente intimità di rapporti fra il Governo britannico e il Governo francese? Sarà stato anche questo dovuto alla simpatia personale che ha sempre legato MacDonald e Herriot e alla loro teoria delle due democrazie occidentali che devono tenersi unite, ma non vi è stato anche - nell'escluderci dalle riunioni confidenziali franco-anglo-americane - il desiderio inglese di risolvere il problema degli armamenti per mezzo di un accordo diretto con la Francia, sulla vecchia base di concessioni parallele dell'Inghilterra alla Francia nel campo della sicurezza in cambio di concessioni francesi alla Germania nel campo del disarmo. E che cosa è di essenzialmente diverso il Patto di Fiducia? E la sicurezza francese non rientra naturalmente nel quadro generale della conservazione e della stabilità che è il quadro della politica britannica?

iii. Piú gravi sono le conseguenze del Trattato di Losanna nei nostri rapporti con la Germania. La nostra politica verso la Germania - che nori poteva certo in questi anni essere piú liberale - è stata fondata sul concetto che né all'Italia conveniva permettere che la Francia acquistasse una schiacciante supremazia in Europa, né conveniva all'Europa impoverire, umiliare e isolare la Germania. Questo concetto ha anche costituito, come dicevo, uno dei piú forti anelli di congiungimento tra l'Inghilterra e noi. Noi avevamo giustamente a temere che una Germania impoverita, umiliata e isolata si volgesse per soccorso o alla Russia o alla Francia, e che si venisse cosí o a saldare l'alleanza tedesco-bolscevica di Rapallo, o a stringersi in condizioni di disuguaglianza un accordo franco-tedesco, ben piú pericoloso per noi che quello al quale avevano mirato con la loro politica conciliatrice, e in condizioni di relativa uguaglianza, Herriot e Briand. Sostenendo e incoraggiando la Germania, noi abbiamo perseguito in questi anni essenzialmente due fini: quello di mettere la Germania in condizione di resistere alla Russia e alla Francia, e quello di mettere in valore di fronte ai Francesi la posizione dell'Italia. A noi sembrava che un rafforzamento della Germania era necessario non solo per impedire che essa o divenisse preda del bolscevismo russo o cadesse sotto il predominio francese, ma anche perché da una parte essa potesse frenare la pressione bolscevica sull'Europa, e dall'altra costituisse per la Francia una tale minaccia da obbligare la Francia a rivedere la sua politica verso di noi, e aprirci eventualmente per mezzo di una revisione dei mandati, le porte del suo impero coloniale.
I Tedeschi hanno sempre perfettamente inteso che questi erano i veri fini della nostra politica. Ma avendo necessità del nostro aiuto - e nei limiti di questa necessità - hanno dovuto servirci. Dico nei limiti di questa necessità perché - come è avvenuto subito dopo la conclusione del Trattato di Locarno - ogni volta che essi hanno creduto di poter fare a meno dell'Italia, essi si sono rivoltati contro di noi con l'antico odio che nutriscono per il nome italiano e con l'animo fisso all'Austria e all'Alto Adige. Vi è stata sempre anzi in questi anni una sorda inimicizia tra i Tedeschi e noi, che ha serpeggiato sotto la tenue superficie dei nostri buoni rapporti, noi in realtà intendendo che i Tedeschi si rialzassero dalla loro prostrazione e divenissero tanto forti da minacciare la Francia, ma non da minacciare noi, essi intendendo di essere cosí forti e cosi liberi, da non aver piú bisogno dell'aiuto italiano, che essi hanno sempre accettato piú con rancore che con gratitudine.
Per risolvere la questione delle riparazioni e quella del suo riarmamento - per riacquistare cioè la sua indipendenza economica e la sua indipendenza politica - l'aiuto dell'Italia è stato ed è alla Germania indispensabile. In questi anni è stata l'azione combinata del Governo britannico e del Governo italiano, che ha permesso alla Germania di respirare, e la stessa politica di riconciliazione perseguita da Briand è stata dettata alla Francia piú dal timore di restare isolata nei suoi tentativi di isolare la Germania, che da un cangiamento nell'atteggiamento francese. La Germania ha avuto, ha e avrà ancora bisogno di noi. Quello però che è certo è che quando questo bisogno verrà a mancare, quando la Germania cioè avrà raggiunto la sua indipendenza economica e politica, si produrrà nella politica tedesca un deciso cambiamento di direttive nei riguardi dell'Italia. La conferenza di Losanna - con la cancellazione delle riparazioni - ha affrettato questo movimento come la conclusione del Patto di Fiducia, aumentando i pericoli di un isolamento politico della Germania in Europa, lo ha ritardato. Bisognerà vedere fino a che punto queste due forze opposte si potranno equilibrare.
Intanto è ovvio che la posizione della Germania rispetto a noi si è rafforzata. La cancellazione delle riparazioni è un netto e permanente vantaggio per la Germania - economicamente e politicamente. La conclusione del Patto di Fiducia è uno svantaggio per tutti e due. E in un certo senso anzi è uno svantaggio piú per noi che ci siamo visti abbandonare dall'Inghilterra, che non lo sia per la Germania, la cui politica non era fondata, come la nostra, sopra un'intima collaborazione con l'Inghilterra. Se il Patto di Fiducia poi è stato il prezzo che MacDonald ha pagato a Herriot per l'abbandono delle riparazioni, la Germania ne ha tratto dopo un certo suo vantaggio, noi non ne abbiamo tratto nessuno. Anzi di fronte al Patto di Fiducia - se esso indica una ricostruzione dell'Intesa Cordiale - noi abbiamo tanto bisogno della Germania che la Germania di noi. Fatto il bilancio finale dei vantaggi e dei danni, quello solo che si può dire è che la Germania è ora in una minore condizione di necessità di fronte a noi, noi in una maggiore condizione di necessità di fronte alla Germania.
È facile vedere che questa situazione non può logicamente svilupparsi che a nostro danno. Liberatasi dal peso delle riparazioni, e dalle dure limitazioni
che le riparazioni hanno imposto alla sua indipendenza politica, la Germania non potrà che perseguire con maggiore rapidità e decisione i suoi immediati obiettivi. Questi sono, come ho accennato al principio del presente memorandum, essenzialmente due, la revisione delle clausole del Trattato di Versailles relative ai suoi armamenti, e l'assorbimento dell'Austria. La Conferenza di Losanna la ha avvicinata all'uno e all'altro di questi obiettivi.
Non mi indugio sulla questione degli armamenti, poiché è ormai chiaro che il principio dell'"uguaglianza di diritto" posto con suprema abilità di uomo di stato dal Dr. Brüning nel suo discorso del 9 febbraio, è entrato per cosí dire, nella coscienza popolare dell'Europa e sta facendosi inevitabilmente strada a Ginevra. Prima della Conferenza di Losanna, sarebbe stato forse possibile alla Francia venire a un accordo con la Germania offrendo per suo conto la cancellazione delle riparazioni tedesche in cambio di un mantenimento per qualche anno del regime fissato nel Trattato di Versailles, o di una stabilizzazione degli armamenti tedeschi. Oggi la Francia non ha piú armi per negoziare, e il tempo lavora ineluttabilmente a favore della Germania, che a febbraio aveva dalla sua solo il diritto e il buon senso e ora ha anche una maggiore indipendenza e il coraggio che le viene dall'avere abbattuto definitivamente il meccanismo delle riparazioni. La Parte V del Trattato di Versailles è oramai una vecchia porta corrosa e von Papen con un colpo di spalla può farla cadere, mentre è chiaro che la liberazione dei suoi obblighi finanziari verso gli Alleati darà alla Germania la possibilità di un'attiva ripresa economica, e quindi di una vasta politica di armamenti. La realtà è dunque che a Losanna la Germania non solo ha ottenuto la cancellazione delle riparazioni, ma anche la possibilità pratica di migliorare e in un secondo tempo, aumentare il suo esercito e la sua flotta, rafforzando cosí di fronte a noi, come alla Francia, la indipendenza della sua politica.
Questo fatto già di per sé avvicinerebbe la Germania a quello che si è chiaramente rivelato fin dal luglio dell'anno scorso essere il suo essenziale obiettivo - e cioè l'assorbimento economico e politico dell'Austria - anche se a questo obiettivo la politica dell'Inghilterra non l'avesse intanto, da un anno in qua, avvicinata. L'Inghilterra oramai non ne vuole piú sapere dell'indipendenza austriaca. Il Protocollo del 1922 è lettera morta nella politica inglese. All'Aja l'anno scorso esso è stato salvato con grande sforzo dalla Francia e da noi, contro la volontà dell'Inghilterra, che non solo si è dissociata dalla nostra azione davanti alla Corte Permanente di Giustizia Internazionale, ma ha lasciato a Sir Cecil Hirst di sostenere in seno alla Corte le ragioni della Germania. Da Losanna al momento che si è trattato di rinnovare gli impegni del Protocollo, ci siamo trovati di nuovo di fronte alla opposizione britannica, che a tanto anzi è giunta da spaventare Herriot, il quale, se non fosse stato per il resoluto atteggiamento italiano, avrebbe ceduto all'Inghilterra e rinunziato a quella clausola politica, che l'anno innanzi ci aveva permesso di far cadere il progetto di unione economica fra l'Austria e la Germania. E pure tanto forte la Germania si è sentita a Losanna da poter rifiutare la sua adesione al Protocollo, e fare all'Austria un'offerta separata di assistenza finanziaria, mettendo sotto i"nostri stessi occhi quelli che sono i primi effetti della cancellazione delle riparazioni.
Come dunque è fatale che la politica tedesca si diriga verso l'indipendenza degli armamenti e verso l'assorbimento dell'Austria, cosí è fatale che la nostra libertà d'azione verso la Germania venga a essere limitata e ridotta. Voglio dire che noi non avremo piú la libertà di essere amici o nemici della Germania, ma saremo obbligati o ad accettare con nostro danno i risultati della sua politica, o a legarci con la Francia contro di essa.
iv. Messi cosí fra il Patto di Fiducia - che nel suo svolgimento logico dovrebbe portare a un rinnovamento, in qualche forma, dell'intesa franco-britannica - e la minaccia di un risorgimento della potenza tedesca, noi non possiamo non considerare senza apprensione lo stato futuro dei nostri rapporti con la Francia. Negli anni passati il nostro ragionamento si è fondato sulla ipotesi di una Germania, che, lentamente rafforzandosi, avrebbe fatto lentamente sentire alla Francia il bisogno dell'amicizia italiana. Una Germania povera, umiliata e isolata ci spiaceva - come ho detto piú sopra - anche perché la Francia non sentendosi minacciata, non poteva volgersi all'Italia, ma pensava, con le sue alleanze orientali di far fronte eventualmente a una coalizione italo-tedesca, se mai l'Italia avesse stretto tanto i suoi vincoli con la Germania, da tornare al regime della Triplice. Non avevamo torto di ragionare cosí, poiché è nell'avara natura dei Francesi, "piú taccagni, diceva il Machiavelli, che prudenti" di cedere solo alla necessità, e bisognava mettere avanti ai loro occhi il pericolo di una Germania risorta, per indurla a considerare, sopra una base di uguaglianza e con adeguati compensi, l'alleanza italiana. Ma in relazione a questi obiettivi la nostra politica ha avuto sempre e deve necessariamente avere un limite. Noi non potremmo mai spingere il nostro appoggio e il nostro favore alla Germania fino a permettere che la posizione si rovesci, e la potenza tedesca diventi cosí minacciosa da obbligarci a un'alleanza forzata con la Francia. Questo sarebbe un rischiare la nostra libertà internazionale, e per evitare il pericolo di un predominio francese, favorire con le nostre stesse mani lo stabilirsi di una condizione di cose in Europa che farebbe la nostra politica prigioniera di necessità piú forti di noi. Quale sarebbe infatti la posizione dell'Italia il giorno che una Germania armata e potente si affacciasse sulle nostre Alpi e guardasse improvvisamente verso il nostro Mare? Che cosa potremmo fare allora noi? O meglio che cosa altro potremmo fare se non accettare dalla Francia quella garanzia che nel 1925 Briand ci offrí e noi avemmo allora la forza e la saggezza di rifiutare?
Ma il problema di un nostro riavvicinamento alla Francia non può essere considerato solo in relazione alla intensità della pressione che la Germania può esercitare sull'Europa Centrale. Esso è strettamente legato anche agli sviluppi della politica franco-britannica che a Losanna si è realizzata nel Patto di Fiducia. Se la Francia infatti non verrà come noi crediamo a un accordo vantaggioso con l'Italia, se non stretta dalla necessità di assicurarsi l'alleanza italiana contro la crescente potenza della Germania, è chiaro che nel misurare questa necessità essa dovrà inizialmente partire da una valutazione della solidità e della stabilità delle garanzie di sicurezza che le offre la politica britannica .
Oggi queste garanzie sono precise ma incerte. Il Trattato di Locarno le fissa con una esattezza giuridica alla quale non fa tuttavia riscontro una fermezza di direttive politiche che possa dare alla Francia quel senso di sicurezza che essa ansiosamente chiede all'Inghilterra da un trattato all'altro e dall'una all'altra alleanza. Vi è, qualche cosa cri provvisorio e di sfuggevole nella politica britannica che non soddisfa l'immaginazione francese la quale dominata dall'incubo di una nuova aggressione tedesca, vuole vedere davanti a sé degli eserciti pronti a marciare, non i cinque parlamenti dell'Impero disputarsi sull'interpretazione degli obblighi di assistenza militare previsti dai Trattati. Quello che la Francia ha in questi anni costantemente tentato e tenta ora di ottenere è un impegno piú generale e piú incondizionato da parte dell'Inghilterra a intervenire in un nuovo conflitto europeo, qualora la Germania tenti di provocare con le armi quella revisione dei Trattati sulla quale essa ha per ora concentrato la sua azione diplomatica. Segna il Patto di Fiducia l'inizio di una piú intima collaborazione franco-britannica? O il primo passo verso una ricostituzione della Intesa Cordiale? O la maschera colla quale il Governo britannico vuole presentare al popolo inglese una politica di piú precisi impegni di pace e di guerra con la Francia? Oggi è difficile dirlo. Il Patto di Fiducia ha fatto troppo evidentemente parte di un piú complesso mercato fra Francia e Inghilterra, ed è ancora troppo intimamente legato alla questione delle riparazioni e degli armamenti tedeschi, per potere fissare il valore politico permanente che esso potrà avere. Ma, come dicevo, in principio, piú che un riavvicinamento franco-britannico esso rappresenta la constatazione che, per risolvere i problemi europei la procedura piú adatta deve far capo a un accordo preliminare fra l'Inghilterra e la Francia.
Anche in questi limiti il Patto di Fiducia già indebolisce la nostra posizione di fronte alla Francia, già esso suggerisce alla Francia che la strada dell'alleanza britannica è tuttavia sempre aperta, già incoraggia la Francia a perseguire i suoi sforzi per una ricostituzione dell'Intesa Cordiale, invece di volgersi a noi, in cerca di una soluzione equa e soddisfacente dei rapporti franco-italiani che garantisca e Congiunga gli interessi dei due paesi di fronte alla Germania. Solo nell'avvenire noi sapremo se questi sforzi riesciranno a fissare la posizione ora cosí mobile dell'Inghilterra, e se gli interessi che l'Inghilterra ha in comune con la Francia alla stabilità e conservazione dello status quo prevarranno sulle tendenze essenzialmente isolazioniste del popolo inglese, e vinceranno la pesantezza e complessità del meccanismo imperiale. Solo nell'avvenire potremo cioè sapere esattamente quale sarà il significato definitivo del Patto di Fiducia, ma ora considerato nelle condizioni attuali, e dal nostro punto di vista, esso rappresenta una forza di deviazione da quella strada sulla quale noi vorremmo incamminare i rapporti franco-italiani.
È troppo evidente che noi non potremo attirare la Francia a una alleanza con noi, se essa avrà la possibilità di ricostituire per suo conto l'Intesa Cordiale, perché io debba insistere su questo punto. Ma vi sono due considerazioni che devono essere assolutamente chiare. Una è che a un aumento della potenza e dell'aggressività tedesca in Europa corrisponderà necessariamente un rafforzamento dei rapporti franco-britannici, l'altra è che un progressivo rafforzamento nei rapporti franco-britannici progressivamente limiterà la nostra libertà d'azione verso la Francia. Il giorno infatti che la Germania, restaurata la sua vita economica e ristabilita la sua pace civile, comincerà a ricostruire su nuove fondamenta il sud edificio imperiale, e getterà sull'Oceano le sue navi, forzerà i mercati, metterà in piedi un esercito, e guarderà avidamente ai piccoli e deboli paesi che le sono intorno e che dovranno cadere preda della sua forza, il giorno che la Germania riapparirà in Europa nell'impeto della sua grandezza violenta e della sua irrefrenabile aggressività, allora si risveglierà anche in Inghilterra il senso, ora attutito, del pericolo tedesco, e come la Germania tenterà di scuotere l'edificio dell'Europa, l'Inghilterra fatalmente si stringerà all'unica forza veramente conservatrice che resti sul Continente, e cioè alla Francia. Quel giorno noi stessi - minacciati come saremo dal rinascere della potenza tedesca, che premerà sulle nostre Alpi e dal rinnovamento della cooperazione franco-britannica che premerà sul Mediterraneo - non avremo scelta, e o ci dovremo legare definitivamente alla Germania, o il nostro riavvicinamento alla Francia avverrà allora in condizioni di necessità e di svantaggio, che ci priveranno di ogni vera facoltà di negoziare.
Anche dal punto di vista dei rapporti franco-britannici, è necessario che il nostro riavvicinamento alla Francia - se questo è veramente negli scopi generali della nostra politica estera - si faccia prima che il risorgimento del Reich imperiale trasformi sulla Manica e sulle Alpi le condizioni essenziali nelle quali il problema attualmente si pone.
v. Questo implica anche naturalmente una revisione dei nostri rapporti con i paesi danubiani alleati della Francia. È un concetto comunemente diffuso che questi rapporti sono interamente dipendenti da quelli franco-italiani, e che una volta che noi saremo giunti a un accordo con la Francia, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia e la Romania saranno obbligate a venire a patti con noi. Vi è anzi chi va piú oltre: chi pensa che noi potremo negoziare con la Francia in condizioni cosí vantaggiose da indurre la Francia a scegliere fra queste alleanze orientali e noi, e che la Francia, pur di assicurarsi l'amicizia e la collaborazione dell'Italia allenterà i suoi vincoli con la Jugoslavia e la lascerà sola e indebolita, a dover regolare le questioni che noi abbiamo con essa sull'Adriatico. Noi potremo allora - si dice - con molto minor sforzo e con molte maggiori probabilità di successo spezzare la Piccola Intesa, e disfare - facendo leva sul separatismo croato - l'unità jugoslava, e acquistare cosí quella sicurezza e quella libertà sui confini orientali che i nostri alleati nel 1919 ci negarono.
Qui non è il luogo di esaminare questo problema, né se il disfacimento dell'unità jugoslava sia uno scopo praticamente perseguibile e una volta perseguito possa veramente portare dei vantaggi all'Italia. È difficile interessare i Croati a una politica separatista senza garantire loro i porti sull'Adriatico, che ora sono nelle mani della Jugoslavia, e col garantire loro questi porti viene a cadere una delle prime ragioni, e anzi la piú essenziale, per le quali noi potremo essere indotti ad aiutare il loro movimento. Del resto una volta indipendente, la Croazia o si volgerebbe all'Ungheria - e si ricostituirebbe allora in un'unione ungaro-croata quel problema che avremmo tentato di risolvere dissolvendo l'unità jugoslava - o si volgerebbe a cercare, contro l'Italia, la protezione di Grandi Potenze, e per essere piú debole della Jugoslavia, e piú esposta, sarebbe obbligata a dare a questa nuova dipendenza un carattere di vassallaggio che l'alleanza franco-jugoslava attualmente non ha. Il risultato piú immediato del dissolvimento dell'unità jugoslava sarebbe dunque di creare ai nostri confini un piccolo Stato, che o sarebbe vassallo della Francia, o cadrebbe, incapace a difendersi, sotto i colpi che la Germania tenterà di dare alla presente struttura politica dell'Europa Danubiana.
In realtà il problema dei nostri rapporti con gli Stati della Piccola Intesa, e in particolare con la Jugoslavia, non può essere impostato fuori del quadro dei nostri rapporti con la Germania. Se la Germania si prepara a riprendere di nuovo, sulle rovine dell'Impero austro-ungarico, la sua marcia verso l'Europa sud-orientale, sarà la politica tedesca - assai piú che non la politica francese - quella che noi sentiremo gravare a nostro danno nella Valle del Danubio e sulla riva destra dell'Adriatico. Oggi la Germania non ha e non può avere che un programma: quello di aprirsi, con l'annessione dell'Austria, la strada dei Balcani. Assorbita l'Austria, questo programma diventerà irresistibile. Con l'Austria i Tedeschi non solo si saranno assicurati una base geografica per la loro espansione, ma diventeranno gli eredi di una tradizione imperiale, non ancora interamente spenta, nella Valle del Danubio. Non solo avranno aumentata materialmente la loro forza, ma avranno rimesso le mani nella vecchia struttura economica e culturale - non ancora interamente dissolta - dell'ex Impero austro-ungarico. Non solo sul Brennero e a Vienna avremo in realtà la Germania, ma a Budapest e a Zagabria, sulle Alpi Giulie e sull'Adriatico, dovunque vi sono ancora popolazioni e tradizioni austriache, dovunque ancora il tedesco è la lingua della cultura e del commercio, dovunque ancora si rimpiangono i vantaggi dell'unità imperiale, e l'ordine, la buona amministrazione e il prestigio del vecchio Impero.
Negli anni che sono davanti a noi, noi dovremo far fronte allo svilupparsi di questo programma che, in una prima fase, possiamo ragionevolmente immaginare come diretto all'assorbimento dell'Austria, alla dissoluzione della Cecoslovacchia e a una manomissione piú o meno velata e indiretta della indipendenza ungherese. Dovremo o potremo assistere inerti al raggiungimento di questi obiettivi? Lasceremo la Germania disfare a suo vantaggio la struttura degli Stati Danubiani? E con quali forze? Con quali alleanze? Suscitando e mantenendo quali elementi di resistenza?
I soli Stati sui quali noi possiamo appoggiarci per resistere a una ripresa della marcia tedesca sull'Europa Danubiana, sono in definitiva gli Stati della Piccola Intesa. La politica di questi Stati verso l'Austria e verso l'Ungheria non poteva essere piú sciocca e piú rozza di quella che è stata, ed essi sono in gran parte responsabili delle tendenze pangermaniste di Vienna e Budapest, ma è comunque sulla loro cooperazione che riposa ogni possibilità pratica di difendere l'Indipendenza dell'Austria e dell'Ungheria. Questo non è solo vero, negativamente perché ove la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania si dirigessero verso una politica di accordi con la Germania, l'Austria e l'Ungheria dovrebbero fatalmente essere sacrificate ai vantaggi dell'amicizia tedesca, ma anche positivamente perché la cooperazione degli Stati della Piccola Intesa si è mostrata assolutamente indispensabile a risolvere i problemi fondamentali del Bacino Danubiano. Certo il problema si presenterebbe in modo assolutamente diverso se vi fosse una possibilità pratica qualunque di garantire l'indipendenza austriaca per mezzo di un'intesa fra noi e la Germania. Ma questa possibilità non esiste. Anche se la Germania si inducesse a creare con noi e con l'Ungheria un regime di accordi politici e economici, per preservare l'indipendenza dell'Austria, la parte che essa avrebbe nel funzionamento pratico di questi accordi sarebbe sempre preponderante, e noi dovremmo o rassegnarci a una condizione di netta inferiorità nel Bacino Danubiano, o a precipitarci a distruggere, sollecitando gli aiuti degli Stati della Piccola Intesa quel regime che noi stessi avremo, con nostro danno e con pericolo dei nostri interessi creato.
Noi saremo dunque fatalmente spinti verso un accordo con gli Stati della Piccola Intesa. Questo è stato già evidente l'estate scorsa, quando ci siamo dovuti stringere con la Francia e la Cecoslovacchia, a difendere l'indipendenza dell'Austria contro il progetto di Unione Doganale; ma diverrà anche piú evidente negli anni prossimi, quando la Germania, liberatasi ormai dal peso deRe riparazioni, e rafforzata la sua struttura economica e politica, riprenderà con piú animo e piú vigore, la sua politica espansionista sul Danubio. Sarà essa allora che tenterà di dissolvere i legami tra la Piccola Intesa, di separare la Polonia dagli alleati danubiani della Francia, di spezzare l'unità jugoslava per soddisfare le rivendicazioni ungheresi, di far sue queste rivendicazioni, per allargare i limiti della sua politica e rafforzare e facilitare la sua azione di sovvertimento e di dominio nell'Europa Centrale. Dopo tutto non bisogna dimenticare che se la Piccola Intesa è unita in una politica di mantenimento dei Trattati, gli interessi della Cecoslovacchia, della Jugoslavia e della Romania di fronte al problema tedesco non sono identici. Solo per la Cecoslovacchia l'Anschluss è veramente questione di vita e di morte. In un primo periodo, e cioè nella fase puramente austriaca della sua politica espansionista, la Germania, con la promessa di sacrificar loro gli interessi revisionisti dell'Ungheria, potrà tentare di conciliarsi la Jugoslavia e la Romania e solo dopo aver spezzato la Piccola Intesa volgere contro di esse il programma delle rivendicazioni ungheresi.
Noi saremo allora obbligati a difendere e sostenere l'unità della Piccola Intesa, e a stringere gli interessi jugoslavi e romeni alla difesa dell'indipendenza austriaca; e premuti dal volgere degli avvenimenti e dalla forza crescente della Germania, dovremo noi far sacrificio degli interessi ungheresi, gettando l'Ungheria definitivamente dalla parte tedesca.
Non pare dubbio che sia dunque nostro interesse chiarire e rivedere i nostri rapporti con la Piccola Intesa, prima che la Germania inizi la sua politica di espansione danubiana. Né si vede perché dovremmo in questo procedere d'accordo con la Francia. A noi non conviene far dipendere i nostri rapporti con la Piccola Intesa dai nostri rapporti con la Francia, ché anzi abbiamo interesse a tener separati i due problemi, e a non entrare in negoziati con la Francia, se non prima avremo raggiunto una cordiale intesa con la Jugoslavia. Sarà forse piú difficile negoziare con la Jugoslavia, mentre questa è alleata della Francia e i rapporti italo-francesi sono cosí oscuri e incerti, ma è infinitamente piú pesante negoziare con la Francia, in regime di alleanza franco-jugoslava e con la Jugoslavia a noi nemica. La Francia o esigerà un nostro riavvicinamento alla Jugoslavia, e allora dovremo rivedere i rapporti italo-jugoslavi in una situazione svantaggiosa, o calcolerà il riavvicinamento italo-jugoslavo come un suo apporto, e allora dovremo pagare il riavvicinamento italo-jugoslavo due volte: una volta alla Francia e l'altra alla Jugoslavia. L'ipotesi che la Francia sacrifichi la Jugoslavia a noi non può essere neppure calcolata, perché la Jugoslavia è un elemento essenziale del piano di isolamento e accerchiamento della Germania e, una volta che noi ci saremo impegnati a sostenere questo piano, non avremo noi stessi interesse a gettare la Jugoslavia nelle braccia della Germania.
Per una ricostruzione della nostra politica estera quale si impone dopo la conferenza di Losanna, noi dobbiamo anzi cominciare proprio dai rapporti con la Jugoslavia. Dobbiamo proprio cominciare col riesaminare questi rapporti alla luce di quelle che saranno fatalmente le direttive della nostra politica nell'Europa Centrale; spinti come già siamo, o saremo di piú nell'avvenire, ad una sorda lotta con la Germania, per sbarrarle prima la strada di Vienna, e poi quella dei Balcani. Per resistere alla Germania dovremo prima di tutto - prima cioè anche di volgerci ad un'alleanza con la Francia - costituirci una base di azione nell'Europa Danubiana, che di fronte alla stessa Francia ci renda piú indipendenti e piú forti. Sarebbe sciocco e imprudente, per costituirci questa base, abbandonare l'Austria e l'Ungheria alla grossolana cupidigia dei paesi della Piccola Intesa. Dobbiamo anzi fare il contrario: e cercare di alleviare la pressione della Piccola Intesa su di loro, svegliando a Praga, a Belgrado, a Bucarest il senso del pericolo tedesco e delle sconfinate rivendicazioni della Germania, e spegnendo il timore del pericolo asburgico e delle rivendicazioni ungheresi. Tuttavia per fare questo dobbiamo pur dare alla Piccola Intesa - se vogliamo che essa diventi baluardo e difesa dei nostri interessi contro l'espansionismo tedesco - la sicurezza e la fiducia della nostra amicizia.
vi. Ma una volta che ci saremo messi su questa strada non dovremo rinunciare noi al nostro revisionismo? Non dovremo invertire le premesse della nostra politica e passare, armi e bagagli, alla politica della conservazione dei Trattati? Sarà possibile conciliare le nostre premesse revisioniste con un'alleanza italo-francese e anzi con una politica di collaborazione tra l'Italia e la Piccola Intesa?
In realtà il nostro revisionismo per quanto riguarda l'Italia, ha sempre avuto e ha uno scopo preciso: quello di rivedere a nostro vantaggio la distribuzione dei territori coloniali. In Europa il nostro revisionismo ci ha servito a esercitare una pressione politica sulla Francia, non a soddisfare alcuna necessità nostra. Parlando di revisione dei Trattati il nostro animo si è volto sempre all'Africa, al Mediterraneo orientale, all'iniqua distribuzione dei mandati che fu fatta alla Conferenza di Parigi, alle condizioni di inferiorità nella quale si trova l'Italia rispetto alle altre Grandi Potenze vittoriose. Noi abbiamo sempre pensato che era utile eccitare e aumentare il pericolo tedesco in Europa, perché la Francia fosse costretta a rivedere in nostro favore la situazione coloniale. Non dobbiamo perdere di vista questa impostazione del problema italiano. Non sono né i Tedeschi della Slesia che ci interessano, né gli Ungheresi della Transilvania. Sono gli Italiani ai quali bisogna dare terre e lavoro, campi da coltivare e mercati da sfruttare. Sia la Siria o sia il Camerun noi abbiamo la nostra "revisione" che ci preme. Gli altri dovranno pensare a sé.
Ora il grave problema che, dal progetto austro-tedesco di Unione Doganale alla conferenza di Losanna, si è posto davanti a noi, è che un risorgere troppo rapido e troppo violento della potenza tedesca non sovrapponga alle necessità coloniali italiane delle esigenze piú immediate e piú urgenti di sicurezza europea; e la conferenza di Losanna ha aumentato non indebolito questo pericolo. Dalla Conferenza di Losanna la Germania è uscita piú libera e piú forte, la Francia piú sicura. Nei mesi che verranno si vedrà se sarà piú rapido il processo di ricostruzione dell'Intesa Cordiale o il processo di ricostruzione della Germania Imperiale, e se di fronte al rinascere della potenza economica, politica e militare della Germania, l'Inghilterra non sentirà la necessità di stringersi piú strettamente alla Francia. Ma noi intanto - messi tra il pericolo dell'Anschluss e il pericolo del Patto di Fiducia - dobbiamo subito por mano a ricostruire vigorosamente la nostra politica estera, mentre siamo ancora in condizione di farlo, e prima che la Germania Imperiale ci forzi su posizioni di necessità sulle quali noi saremo obbligati a sacrificare le necessità vitali della nostra espansione.
Aia, 10-11 luglio 1932.