La fine della Viribus Unitis

Un episodio significativo della prima guerra mondiale, soprattutto per l'importanza simbolica che ha finito per acquisire nella memoria storica nazionale, è costituito dall'affondamento della "Viribus Unitis" ad opera delle Medaglie d'Oro Paolucci e Rossetti, avvenuto nel munito porto di Pola, sede della Marina militare austro-ungarica, all'alba del 1° novembre 1918. La vicenda, tuttavia, ha avuto aspetti particolari che è bene chiarire, anche a fronte delle interpretazioni divergenti fornite da talune parti in causa, fino a dubitare, in qualche caso, della legittimità di quelle Medaglie.

Ignorando l'eroismo degli incursori italiani e l'altissimo senso dell'onore militare di cui seppero dare prova, destinando il premio per la loro impresa alla famiglia dell'Ammiraglio Vulkovic, Comandante in capo della flotta avversaria che si era inabissato con la sua nave (una corazzata da 21.600 tonnellate costruita da soli quattro anni, forte di 1.097 uomini di equipaggio), è stato detto che non si trattò di un'operazione di guerra ma di una "nuotata fuori stagione", sebbene l'armistizio non fosse stato ancora stipulato, tanto è vero che la firma sarebbe avvenuta a Villa Giusti il 3 novembre e che i combattimenti sarebbero terminati il giorno successivo alle ore 15, col sacrificio a più forte ragione doloroso degli ultimi Caduti, fra cui quello davvero emblematico del Capitano Alberto Riva di Villasanta.

Era accaduto che il 31 ottobre, immediata vigilia dell'incursione, quando i MAS che trasportavano Paolucci e Rossetti erano già in navigazione agli ordini di Costanzo Ciano, a seguito di una minuziosa preparazione in atto da parecchi mesi, la flotta austro-ungarica alla fonda nel porto di Pola aveva innalzato la bandiera croata, cosa di cui costoro non erano a conoscenza. D'altra parte, anche in caso contrario l'azione avrebbe dovuto essere portata a compimento: in primo luogo perché quella bandiera non apparteneva ad uno Stato riconosciuto (la Jugoslavia sarebbe sorta sulle ceneri dell'Impero grazie al trattato di pace del 1919 ed affidata alla monarchia dei Karageorgevic), ma nello stesso tempo perché, in caso di prosecuzione del conflitto, sarebbe stato logico presumere che l'Austria cercasse di recuperare le sue navi, e se del caso, di impiegarle attivamente, anche se fino a quel momento lo aveva fatto poco e male.

Vale la pena di aggiungere che durante le prime trattative antecedenti l'armistizio (iniziate il 30 ottobre quando il Generale austriaco Weber fu condotto al Comando Supremo italiano per i preliminari di competenza), non era mai emersa, logicamente, l'intenzione dell'Imperatore Carlo di non far cadere la flotta in mano agli italiani e di cederla "in omaggio" agli slavi, come egli tentò di fare con modalità patetiche in quel fatidico 31 ottobre: cosa palesemente illecita, come risulta dalla pertinente testimonianza di Rino Baroni, "perché non agli sconfitti ma ai vincitori sarebbe spettato stabilire quale sorte e quale destinazione dovessero avere gli armamenti dei vinti, flotta compresa".

Del resto, la pronunzia del sedicente "Consiglio nazionale degli slavi del sud", formulata proprio il 31 ottobre per affermare l'avvenuta costituzione di uno "Stato degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi", poteva avere, nella migliore delle ipotesi, un mero valore deontologico, dato che il futuro assetto europeo sarebbe scaturito necessariamente da una Conferenza di pace, in cui le garanzie fornite all'Italia già dal 1915 circa la redenzione della Venezia Giulia, dell'Istria e della stessa Dalmazia sarebbero state eccepite senza indugio alla stregua del principio secondo cui "pacta sunt servanda" (a più forte ragione, in un caso come quello di specie, suffragato dal sangue di 650 mila Caduti).

C'è di più. In quei giorni di sostanziale anarchia, Pola doveva confrontarsi con la presenza di parecchie migliaia di slavi tuttora in assetto di guerra (gli eserciti imperiali erano composti da militari appartenenti ad una dozzina di nazionalità diverse, ma nell'occasione i croati erano rimasti in maggioranza), che non intendevano prendere in considerazione l'ipotesi ormai realistica, o meglio irreversibile, di trasferimento all'Italia, e che si macchiarono di ripetute violenze a danno della popolazione, prima che la città si aprisse, in un tripudio di tricolori, alle truppe italiane giunte il 5 novembre.


In questo senso, non è azzardato affermare che l'affondamento della "Viribus Unitis" abbia avuto un ruolo di deterrente psicologico e di abbattimento delle attese nemiche, facendo sì che parecchi soldati e marinai slavi prendessero la strada di casa e che le velleità croate potessero almeno momentaneamente rientrare, non senza incidenti sanguinosi anche altrove (nella stessa Trieste i dimostranti anti-italiani, oltraggiando la cosiddetta "vigliaccata" di Paolucci e Rossetti, spararono colpi di fucile e di rivoltella contro i patrioti inneggianti alla redenzione, uccidendone uno).

I due affondatori, dopo una brevissima prigionia, tornarono in libertà non appena gli italiani giunsero a Pola, ed ebbero gli onori del caso. In seguito, furono vicini all'impresa dannunziana di Fiume, ma non risulta che abbiano avuto un ruolo attivo nell'esperienza fascista, dalla quale, al contrario, Rossetti volle prendere le distanze. Sul fronte avversario, la fine della corazzata austriaca indusse la perdita di circa 300 uomini d'equipaggio: gli incursori, al momento della cattura successiva all'applicazione della "mignatta" (una carica esplosiva da ben 200 chili), avevano dichiarato che la nave era stata minata, ma senza essere subito creduti.

L'episodio, come si diceva, è entrato a pieno titolo nella simbologia della Vittoria e dei valori nazionali, tanto che le ancore della "Viribus Unitis" fanno bella mostra di sé all'ingresso del Ministero della Marina in Roma, e che due proiettili della nave sono stati collocati presso il Faro di Trieste, inaugurato nel 1934. Il relitto, a parte alcuni interventi dei sommozzatori di poco successivi all'affondamento, è rimasto nelle acque di Pola, perché giace ad una profondità che non crea problemi per la navigazione.

Oggi, a 90 anni di distanza, il giudizio storico aspira ad essere per quanto possibile oggettivo anche sull'episodio del 1° novembre 1918: un evento bellico attestante, se ve ne fosse stato bisogno, il valore della Marina italiana, che d'altra parte aveva già avuto momenti altrettanto significativi, sempre nell'Alto Adriatico, col sacrificio di Nazario Sauro, col siluramento della "Santo Stefano" ad opera di Luigi Rizzo, e con la celeberrima Beffa di Buccari per mano dannunziana (episodi che coincisero, è inutile ricordarlo, con il conferimento di altre Medaglie d'Oro).

Resta il fatto che non sono mancati tentativi a livello giornalistico, più che storiografico, di interpretare l'attacco alla "Viribus Unitis" come un atto proditorio nei confronti della cosiddetta Marina croata, solo perché da qualche ora erano state innalzate le sue bandiere in luogo di quelle imperiali, ad avallo di pretese quanto meno intempestive, e certamente infondate anche dal punto di vista del diritto internazionale, su Pola e sull'Istria. Si tratta, per le ragioni militari e politiche già esposte, ma nello stesso tempo per evidenti motivi formali, che nella fattispecie assumono carattere cogente, di conati senza reali fondamenti, e resi ancor meno credibili dal nobile comportamento di Paolucci e Rossetti.

Per concludere, l'impresa di Pola mantiene a buon diritto un posto di rilievo primario nel pantheon delle glorie italiane, e merita di essere adeguatamente ricordata agli immemori, ma soprattutto a quanti intendano metterne in dubbio il valore morale, ancor prima che militare.


carlo montani

 

webmaster Fabio D'Alfonso