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Leandro Papi

nasce il 5 marzo 1937 a Poggio San Costanzo, territorio collinare del comune di San Ginesio, in provincia di Macerata.
Nel 1959 si diploma nell'Istituto Magistrale del comune di residenza.
Costretto, come tanti giovani, a cercare lavoro lontano da casa, nel 1961 si trasferisce a Varese, dove viene assunto come educatore nel "Villaggio Cagnola" di Rasa, istituto che accoglie ragazzi con diversi problemi familiari.
Nel 1962 vince il concorso magistrale sempre a Varese e dall'anno successivo inizia ad insegnare nelle scuole elementari della stessa provincia.
Nel 1967 pubblica tre romanzetti per ragazzi con l'Editore Raiteri di Milano: La storia del gattino nero, Il merlo senza coda e Cento anni per Sergio.
Un anno dopo con l'Editore Menna di Varese pubblica ancora, sempre per ragazzi: Una gatta e un gattino attraversano l'Appennino.
Tra il 1974 e il 1978 collabora con il quotidiano La Prealpina di Varese in qualità di corrispondente locale di Cantello, paese vicino al confine svizzero, dove insegna e risiede.
Dopo circa trent'anni di impegno con la scuola, va in pensione e con il pensionamento ha più tempo da dedicare alla sua passione di scrittore.
Nell'agosto del 1996 pubblica con l'Editore Livi di Fermo (AP): Vita contadina, storia, tradizioni e abitudini della sua terra di origine.
Nell'estate del 1998 con lo stesso autore pubblica: Fàmmete dì (Fammiti dire), una raccolta di racconti, poesie e scenette comiche in dialetto maceratese.
Nell'estate del 2001 esce: La gente di Poggio. È un libro in due parti: storie e leggende della sua terra nella prima, la storia di ogni famiglia nell'evoluzione da vita contadina ad altre scelte lavorative, nella seconda.
Ancora nel novembre del 2002, pubblica con Ghisetti e Corvi Editori di Milano: Il regno di Henry, un romanzetto per gli alunni delle scuole medie.
Infine nel luglio del 2004, esce, per conto dell'Editore Michele Di Salvo di Napoli: Ho dimenticato il pigiama, romanzetto per adulti.




La Sacerdotessa di Afrodite
Romanzo del mondo classico




A mia madre e a mio padre
che, quando venni al mondo,
per nome mi chiamarono
Leandro

La narrazione si riferisce
ad un periodo imprecisato
della storia,
quando i Romani antichi
avevano stabilito
rapporti commerciali
con tutti i porti del Mediterraneo.



Indice


Era un giorno d'estate pag. 7
Capitolo primo " 9
Capitolo secondo " 12
Capitolo terzo " 15
Capitolo quarto " 18
Capitolo quinto " 23
Capitolo sesto " 26
Capitolo settimo " 29
Capitolo ottavo " 33
Capitolo nono " 38
Capitolo decimo " 43
Capitolo undicesimo " 48
Capitolo dodicesimo " 51
Capitolo tredicesimo " 55
Capitolo quattordicesimo " 57





Era un giorno d'estate

A me non piace andare al mare.
Troppa gente, troppa baraonda, troppo sole, troppo caldo, troppo di tutto insomma. Però qualche volta un sacrificio per la famiglia si può anche fare. Così, in attesa di potermene tornare a casa, me ne stavo sbracato su una sdraia sotto l'ombrellone e passavo il tempo a lambiccarmi il cervello con le parole crociate.
Quello era un cruciverba piuttosto difficile e, con tutta la collaborazione degli incroci, molte parole non riuscivo proprio a tirarle fuori. Allora, picchiettandomi il dorso della penna su labbro inferiore, vagavo qua e là con lo sguardo, con la mente sempre fissa alla ricerca di quella parola sconosciuta. Però poi capitava che lo sguardo si facesse prendere da qualche dettaglio interessante e la parola cercata finiva per sfuggirmi. Poco scostata dalla mia sdraia, mia moglie, una donna minuta e poco appariscente, tutta sparpagliata su un largo asciugamano colorato, si lasciava rosolare dal sole, dilettandosi nel frattempo a sfogliare una di quelle riviste che vanno a ficcare il naso nelle faccende private delle persone famose. La rivista, oltre a servirle da stimolo culturale, aveva anche lo scopo di ripararle gli occhi dalla luce accecante del sole.
Più in là, in un altro asciugamano messo di traverso, mio figlio era coricato su un fianco di fronte alla sua ragazza, a distanza piuttosto ravvicinata: amoreggiavano tranquillamente, incuranti dei numerosi spettatori che li circondavano. Non lontano, tre loro amici, rotolati sulla sabbia, avevano formato un gruppetto a sé e ridevano sguaiatamente delle cose più stupide, distraendo di tanto in tanto i due innamorati con qualche scherzo scemo, che essi accettavano con malcelato fastidio.
Ne ero irritato perfino io, tanto che mi veniva da pensare: "Fanno i cretini perché sono invidiosi di non avere anch'essi una ragazza".
Fin qui, sia pure con qualche breve distrazione, rincorrevo ancora le parole sconosciute del cruciverba. Ma appena gli occhi scavalcarono il gruppetto degli amici e si spostarono in là di qualche metro, il mio sguardo, da vago che era, fu come risucchiato e si avviluppò nelle rigogliose ed eccitanti forme di una di quelle femmine che ti lasciano secco al solo guardarle.
Era semisdraiata su uno di quei lettucci con lo schienale ribaltabile e già in quella posizione esplodeva in tutta la sua sensualità. Si aprivano due cosce rotonde e solide che, dal modo com'era distesa, una gamba allungata e l'altra ripiegata in dentro, davano la piacevole sensazione di una enorme conchiglia vuota, in attesa di essere riempita.
I seni poi, da come si potevano gustare in quella posa, turgidi e prominenti, sparavano avanti due capezzoli così appuntiti, come se da un momento all'altro stessero per bucare il sottile ed esiguo costume che li celava appena.
A valorizzare tutto il resto poi mostrava un viso straordinariamente incantevole, contornato da una fluente capigliatura bionda, che ne quasi plasmava i lineamenti. Gli occhi azzurri, immensi e profondi, sembravano racchiudere in sé tutta la vastità del mare. Le labbra, aperte al sorriso, tumide e carnose, tinte di un rosa appena accennato, parevano protendersi per essere golosamente baciate, prima di tutto il resto.
La stupenda e desiderabile creatura era circondata da tre uomini seduti sulla sabbia.
Uno, con un certo numero di anni più di lei, piuttosto bruttarello e malfatto, forse ricco, doveva essere il marito, il quale sorrideva beato ai complimenti verbali e manuali che due aitanti giovanotti esprimevano alla sua donna. Sembrava contento di vedersela lodare e palpeggiare. Ad un certo punto, probabilmente dietro la richiesta dei due, lei si alzò in piedi e roteò su se stessa, quasi a farsi osservare meglio e, vista così, sembrò davvero una Venere appena emersa dalle acque del mare.
Non ero io il solo a godermela con gli occhi.
A qualche passo di distanza da lei, un signore sulla settantina, forse un professore in pensione, capelli e barba bianchi, non le staccava gli occhi di dosso. Si vedeva da come la contemplava, che aveva l'acquolina in bocca. La fissava con la stessa voluttà con cui la fissavo io. Ad un certo punto però mi accorsi che mia moglie fissava me, allora feci finta di aver trovato la parola cercata e tornai al cruciverba. Solo per qualche attimo però, perché poi girai lo sguardo dall'altra parte e anche lì i dettagli interessanti non mancavano.
A poca distanza dalla mia sdraia un'altra famiglia si godeva l'estate sotto l'ombrellone: madre, padre e figlio. La madre era una formosa quarantenne dai seni solidi e dalle cosce robuste, quasi fatte apposta per fare da sostegno, pensai tra me e me, confrontandole con quelle mingherline e scarne di mia moglie.
Fra lei e il marito, che era seduto a leggere un libro, stava accoccolato il figlio, un ragazzetto poco normale pareva, che si trastullava con giocattoli alquanto pericolosi: una specie di lanciarazzi, che colpì il padre in un punto dove di solito fa male. Infatti da come reagì, sembrò che gli avesse fatto proprio male.
Oltre il loro ombrellone un gruppetto di ragazzine, vispe e giocherellone, scherzavano e ridevano attorno ad una signorina, così la chiamavano, probabilmente una loro capogruppo o qualcosa del genere. Ma la signorina aveva un carattere completamente diverso dal loro. Il fatto stesso che indossasse il costume intero lo faceva intuire. Seria ed accigliata, quasi scontrosa, sembrava indispettita dall'allegria delle ragazzine che la circondavano, per cui mi venne da pensare:" Avrà qualche problema psicologico nei confronti del proprio corpo".
Non osando guardare ancora a lungo verso la fantastica biondona, tenuto sotto controllo dalla mia signora, mi dedicai definitivamente al cruciverba. E ci fu subito il primo intoppo: una parola molto breve, ma sconosciuta.
Diedi allora uno scossone a mia moglie, tutta presa dalla sua lettura di pettegolezzi.
- L'amante di Leandro! - le dissi serio.
Lei mi puntò uno sguardo interrogativo:
- Io?! Ma che sei scemo?
- No, sei cretina! L'amante di Leandro: tre caselle.
- A me vieni a domandarlo? Che ne so!
- Se stai sempre a leggere quelle stupidate! - insistetti. - Possibile che non t'è mai capitato?
- Non m'è mai capitato - rispose seccamente e riprese a leggere.
Probabilmente questo Leandro era stato un personaggio famoso. Indagai nella memoria degli studi lontani, ma non venni a capo di nulla. Forse mio figlio, più fresco di scuola, era in grado di dirmelo.
- Luigi! - lo disturbai.
- Che vuoi? - si voltò un attimo, infastidito di dover sospendere le sue manipolazioni.
- Chi è l'amante di Leandro?
- Non la conosco, papà, - e riprese il lavoro interrotto.
Mi vennero i nervi.
- Che ti ho fatto studiare a fare allora, se non sai neanche dirmi chi è l'amante di Leandro, tre caselle.
Mio figlio si rivolse alla fidanzata:
- Gessica, se per caso sai chi è, diglielo, altrimenti questo qui non ci lascia in pace.
La ragazza si tirò su a sedere e si rivolse a me con un bel sorriso:
- Lei vuole sapere chi è l'amante di Leandro, quello che.....
- Sarà quello. Che ne so!
- Ero.
- Ero che cosa?
- Ero.
- Ho capito! Che cos'eri?
- Io non ero niente - aggiunse sorridendo ancora. - L'amante di Leandro si chiamava Ero, tre caselle.
- Ah già! Ero, tre caselle. Sei stata molto gentile. Grazie!
- Di niente!
Però non aveva fatto in tempo a ridistendersi, che la disturbai di nuovo.
- Gessica, scusami ancora, ma... questa Ero chi era?
- Papà, quanto rompi!... - si risentì mio figlio.
- Perché, tu lo sai?
- No, e non m'interessa.
- Allora sta' zitto! Gessica, scusami!
- Ma si figuri! C'è tutta una storia. Se vuole, gliela racconto.
- Certo che voglio!
- Perché non lo lasci perdere ? - intervenne un'altra volta mio figlio. Lei però lo richiamò al dovere:
- Scusa, Luigi, perché sei così sgarbato con tuo padre? Se gli interessa...
- Fa' un po' come ti pare! - e si azzittì, almeno per quel momento.
La ragazza, molto graziosa e molto gentile, si trascinò col sedere sulla sabbia verso di me.
- Si tratta di due amanti dell'antichità - iniziò.
- Ah, ecco perché la mia signora non li ha mai incontrati nelle sue letture culturali.
- Fanno parte della mitologia greca.
- Quindi ai tempi in cui c'erano gli dèi, che ne combinavano di tutti i colori ed erano anch'essi amanti e cornuti peggio degli uomini.
- Sì, più o meno - confermò Gessica con un sorrisetto.
- Molto interessante! Fammi sentire.
- Lei era una sacerdotessa di Afrodite, dea greca della bellezza, la Venere dei romani.
- Una monaca, quindi.
- Sì! Una specie di suora.
- Furbacchiona, eh? Si dava da fare la monachella. Va' avanti.
- Questa sacerdotessa dunque prestava servizio nel tempio di Afrodite, a Sesto...
- Sesto Calende?
- No!
- Sesto San Giovanni.
- Ma no!
- Papà, perché la interrompi sempre? - intervenne di nuovo mio figlio.
- Scusa, se non ho capito.... Poi, che t'immischi a fare tu?
La ragazza continuò:
- Era un altro Sesto, un paesetto sulla sponda asiatica dell'Ellesponto, l'attuale stretto dei Dardanelli.
- Adesso ho capito. E allora?
- Allora tutte le notti Ero veniva raggiunta a nuoto da Leandro, che abitava ad Abido, nella riva opposta.
- A nuoto e di notte. Quando c'era la luna?
- Non ce n'era bisogno. Per indicargli la via, Ero teneva accesa una lampada sulla sua finestra.
- Beh, sì! Come punto di riferimento poteva anche andare. Ma lo stretto...diciamo così era... stretto. Giusto quattro bracciate?
- No, no! Era largo qualche chilometro.
- E lui si faceva a nuoto qualche chilometro tutte le notti....
- Così si racconta.
- E dopo quella nuotata aveva ancora la forza per... Eh sì! I giovani di una volta non ci sono più... Poi magari si fecero beccare e scoppiò uno scandalo.
- No, non andò così. Una notte di tempesta il vento spense la lampada e Leandro, travolto dai flutti, morì annegato.
- Beh, ma allora era proprio scemo! Mettersi in mare con una tempesta, a nuoto e di notte... E infine successe che lei lo pianse così tanto che, per consolarsi, se ne trovò un altro.
- No! La storia si concluse in modo molto più tragico. La mattina dopo Ero scorse il cadavere di Leandro scaraventato dai marosi sulle rocce e, affranta dal dolore, si precipitò dall'alto per morirgli accanto.
- Allora era proprio innamorata! E morì?
- Sì!
- Proprio morta. Non è che fosse svenuta, ferita?...
- Morta! Morti tutti e due.
- Come si fa a saperlo? Potevano sembrare morti, li credevano morti, invece erano semplicemente svenuti.
- Morti, papà! Morti tutti e due - tagliò corto mio figlio. Si alzò e prese la ragazza per mano.
- Vieni! Andiamo a fare il bagno.
Corsero tutti e due verso la riva, lasciandomi lì con i miei interrogativi.
Li seguii con lo sguardo. Luigi voleva invitarla in acqua, ma Gessica sembrava che non ne avesse voglia.
Sedette sulla sabbia, mentre mio figlio si tuffò con una rincorsa e prese il largo a bracciate.
Continuavo a fissarli, con i pensieri che rincorrevano i due amanti sfortunati del racconto di Gessica. "Non è possibile! Due ragazzi che si amano non possono morire. Non potevano morire. A quei tempi poi c'erano un sacco di dèi, mica come adesso che c'è un Padreterno solo, lo preghi e non ti dà mai retta! Tra tutti quei dèi, vuoi che qualcuno non li abbia aiutati?"
Così disteso sulla sdraia, seguendo mio figlio che nuotava in lontananza, chiusi gli occhi e, preso da un leggero torpore, mi lasciai trasportare dalla fantasia.
A poco a poco mi si costruì nella mente una straordinaria e movimentata storia d'amore, con immagini talmente vive, da sembrare il susseguirsi delle sequenze di un film. Molti dei bagnanti che mi circondavano, ne diventarono i personaggi.

Capitolo primo

È una mattina d'estate. Un giovane di Abido, sacco a rete e fiocina a tracolla, si tuffa nello stretto di mare. Deve raggiungere la sponda opposta, molto rocciosa, abbondante di polipi, da catturare per offrire una cena agli amici. Giunto sull'altra riva, inizia la cattura. Ora smovendo qualche pietra, ora tuffandosi sul fondo, nessun polipo in vista riesce a sfuggire alla sua fiocina veloce e precisa, tanto che, nel giro di qualche ora, nel sacco a rete quasi pieno, si agita una miriade di tentacoli, che inutilmente cercano la fuga attraverso le strette maglie.
Si siede su un masso e, ammirando soddisfatto il groviglio delle sue prede, dice tra sé: "Una bella pescata, ma anche una bella faticata. Per oggi basta così! M'è venuta fame e anche sete". Si guarda in giro e scorge ad alcune centinaia di passi lungo la scogliera ai piedi del promontorio, un boschetto dove gli pare di notare anche alberi di frutta. Forse c'è anche una sorgente. C'è da sfamarsi e da dissetarsi. Vale la pena di approfittarne.
Sacco a rete, gocciolante e in tumulto sulla spalla sinistra, fiocina nella mano destra ad uso di bastone, s'avvia scalzo e malsicuro lungo la riva pietrosa e viscida.
Man mano che s'avvicina al boschetto ha come l'impressione di udire, confuso con lo sciabordio delle onde, a volte più nitido, a volte appena percettibile, un dolce canto femminile. Incuriosito, allunga il passo, cercando di mantenersi celato tra i primi arbusti.
Ormai il canto gli arriva nitido e di una soavità straordinaria da fargli fremere il cuore.
Chi può essere? Una dea o una sirena distesa sugli scogli?
S'accosta con discrezione, quand'ecco apparire ai suoi occhi una bellissima fanciulla, vestita di una leggera tunica che le arriva fino ai piedi, stretta ai fianchi da una cintura dorata che li mette molto bene in evidenza. I lunghi capelli neri sparsi sulle spalle, oscillano ad ogni suo movimento. Si sposta, cantando, qua e là per la spiaggia e, di tanto in tanto, si china per raccogliere le conchiglie più belle.
Il giovane di Abido, già a vederla così, in quella posizione, si sente scombussolare tutto.
Esce da dietro il cespuglio e declama con entusiasmo:
- Quale dea sì fulgente sei tu, che appari al mio sguardo incantato?
Lei si solleva di scatto e si volta sorpresa:
- Straniero, mi hai spaventata! O sei forse un dio emerso dalle onde del mare?
Vista davanti è veramente splendida, con un viso incantevole.
- Ti chiedo umilmente perdono, bellissima dea! Non sono alcun dio. Ecco, vedi? Sono soltanto un pescatore per diletto. Ma dimmi chi sei tu, ch'io possa narrare agli amici la fugace visione della tua meravigliosa bellezza. Potrò così vantar la fortuna di avere incontrato una dea.
Lei gli sorride lusingata: - Ma che dici, straniero? Io non sono una dea, ma una donna mortale.
- Quand'anche tu fossi una donna mortale, la tua seducente bellezza è pari a una dea e, se non temessi di offenderle, direi che le superi tutte.
- Sei un poeta, straniero! Da dove vieni?
- Non sono un poeta, splendida fanciulla! Sono soltanto rapito dalla tua meravigliosa bellezza. Vengo da Abido, il paese che vedi là, dopo la striscia di mare. Mi trovavo lassù sulle rocce, in cerca di polipi per offrire una cena agli amici, quando un dio certamente m'ha spinto fin qui, perché ai miei occhi si offrisse sì deliziosa visione.
- Basta con le lodi, straniero! Mi fai svenire di gioia. Allora mi dici chi sei?
- Non l'ho fatto e mi scuso, bella più che una dea! Sono figlio di un mercante romano. Mio padre ad Abido possiede un emporio.
- Sei dunque romano. E il tuo nome?
- Il mio nome è Leandro. Ma fammi sapere anche il tuo, sì che le mie labbra possano gustarne la dolcezza del suono.
- Ero, è il mio nome, Leandro.
- Ero, un nome che è un soffio, un sospiro. Un sospiro per te, dolce ed affascinante fanciulla.
- Sono tutti così sentimentali i giovani romani? Ne ho sentito parlare, ma non ho incontrato che te.
- Sarebbero tutti molto più sentimentali di me, se avessero avuto la mia stessa fortuna. La fortuna d'incontrarti.
- Sento che hanno ragione le mie amiche a lodarli.
- Sono commosso alle tue parole, dolcissima Ero. Io, l'umile figlio di un mercante romano, mentre tu certamente una principessa.
- Ma che dici, Leandro? Non sono una principessa, ma una giovane come tante, che ha scelto di servire una dea, la dea Afrodite, la più bella di tutte.
- Una sacerdotessa dunque sei tu? M'inchino a baciare i tuoi piedi.
Con molta devozione s'inginocchia per baciarle i piedi, stringendole lievemente le caviglie, quasi fossero un sostegno.
Lei rifiuta un tale omaggio, ma non si sente affatto infastidita che le sue caviglie gli facciano da appoggio.
- Leandro, che fai? Non a me, ma alla dea è dato l'onore.
Così inginocchiato, senza liberare la presa, la guarda in viso:
- Ero, dimmi chi è, ch'io possa adorarla!
- Alzati, dunque! Te l'ho detto, è Afrodite.
Il giovane, nell'alzarsi, affaticato com'è, si aggrappa alle sue ginocchia e, sollevandosi del tutto, le sfiora le cosce e i fianchi.
Le sussurra poi da vicino:
- Ero, sono spiacente! Non conosco il suo nome, né lei.
- Ma come? Non conosci Afrodite, la dea della bellezza e dell'amore?
- Questa dea a Roma non c'è. Un'altra è la dea della bellezza e dell'amore: il suo nome è Venere.
Gli sorride, anche lei, da vicino: - È la stessa, Leandro. Afrodite in Grecia, Venere a Roma. Due nomi diversi, ma è la stessa identica dea.
- Davvero?! Che strano! Una dea con due nomi. Ma tu, perché sei qui sola? Sei forse fuggita dal tempio? Hai bisogno d'aiuto? Posso starti vicino? Sediamoci un po'!
- No, Leandro, non sono fuggita. Sono ancora fedele alla dea. Un momento di svago sulla spiaggia a sognare. Ed ora il tempio mi aspetta.
- Vuoi già andare?
- Devo, Leandro.
- Non puoi ritardare?
- Non posso. Il tempio mi aspetta.
- Il tuo tempio lo vedo da Abido, appena un po' su, in cima alle rocce. E d'ora in avanti, guardando quel tempio, dirò: "Lì fa servizio una meravigliosa fanciulla, ad Afrodite votata" - e anch'io sognerò.
- Bando ai sogni, Leandro. Ci dobbiamo lasciare.
- Già vai! Com'è fuggente il tempo felice. Ti posso accompagnate lassù?
- No, Leandro! Lassù ad un uomo è vietato. T'ho incontrato con gioia, Leandro. Io vado. Torna pure alla tua barca.
- Ero, con me non ho barca. L'attraverso a nuoto questo braccio di mare.
Lo guarda meravigliata:
- A nuoto fin là! Come sono forti, robusti e....anche belli, i giovani romani!
- Ero, la tua voce m'incanta. Vorrei restare qui ad aspettarti.
La giovane sacerdotessa lo fissa con uno splendido sorriso misto a civetteria:
- E se più non tornassi?
- Resterei qui fino al mio ultimo giorno.
- Torna là, bel romano! Sei giovane e robusto e il tuo ultimo giorno deve attendere a lungo.
- Vado, dolcissima Ero! Ma quando potrò riascoltar la tua voce?
- Per quale scopo, Leandro?
- Perché tu mi possa parlar di Afrodite. Vorrei conoscerla, sapere di lei, per poterle offrire i miei doni.
- Se questo è il tuo desiderio, Leandro, ti sarò volentieri maestra.
- Sì, Ero! Ed io il tuo diligente scolaro.
- Allora, Leandro, a domani.
- Sarò puntuale, bellissima Ero. A domani!
Si mette a tracolla il sacco a rete e la fiocina e con un tuffo è tra le onde del mare.
Nuotando, si gira e solleva un braccio per salutare ancora una volta la deliziosa fanciulla.
La sacerdotessa risponde al saluto e prende a risalire la scalinata per il tempio, una scalinata nascosta dalle rocce, invisibile dalla riva. Lungo la rampa si ferma un attimo per tirare il fiato, cerca con gli occhi Leandro, ormai un puntino tra le onde e gli manda un lungo sospiro: "Se non avessi offerto la mia verginità alla dea, la offrirei volentieri a te, mio bel giovane romano. Sapessi come te la offrirei volentieri!"


Capitolo secondo

Una bettola è sempre una bettola, in tutte le parti del mondo, in tutti i tempi: tavoli e sedie, gente che s'abbuffa, beve e strepita, cameriere procaci tra i tavoli, avventori che palpano loro il sedere con gaudenti manate, cuochi indaffarati a preparare vivande.
Questa volta il cuoco sta friggendo i polipi che Leandro ha pescato per offrire una cena agli amici, seduti con lui intorno ad un tavolo, in attesa.
Ma quando l'attesa è lunga, l'impazienza freme. Ippolito, uno di essi, cerca di sollecitare il cuoco:
- Pancrazio, allora sono pronti o no questi polipi? È un'ora che aspettiamo!
Il cuoco, rosso in viso per il calore della fiamma e tutto impataccato d'olio, si volta infastidito:
- Ragazzi, un po' di pazienza! Se hanno la pelle dura, non è mica colpa mia.
Interviene l'altro amico, Policarpo:
- E va bene, ma ci fai morire di fame!
Leandro osserva compiaciuto: - Mi pare di capire che non vedete l'ora di assaggiare la mia pesca!
Turibio, il terzo, conferma: - Pesca abbondante e, spero, gustosa. Ma dove ne hai trovati così tanti?
- Che domande! Nel mare. Dove vuoi che li abbia trovati?
- Molto precisa come risposta! Intendevo dire: in quale posto del mare?
Il ricordo del mare risveglia nella mente di Leandro l'incontro inatteso con la splendida Ero e rimane un attimo assorto in quel pensiero.
Turibio gli fa oscillare la mano davanti agli occhi: - Oh! Sto dicendo a te!
Policarpo ride: È partito!
Poi Ippolito:
- È la pesca che lo ha stancato troppo.
Leandro ritorna al presente e sorride:
- Ma che cosa state dicendo?
Turibio ripete:
- Ti ho chiesto dove hai pescato tutti quei polipi. In quale posto preciso.
Leandro non ha nessuna intenzione di svelare agli amici il suo straordinario segreto, perciò dà una risposta vaga:
- Su, lungo la spiaggia dove cominciano le rocce.
Turibio insiste:
- Ma dove sono le rocce?
- Dove vuoi che siano? In su. Ho camminato parecchio, che cosa credi?
Interviene Policarpo:
- Non vuole dircelo. Ha paura che gli rubiamo il posto.
- Capirai! Se aspetto voi, allora sì che li mangiamo i polipi.
Finalmente arriva il cuoco che depone sul tavolo un largo vassoio di terracotta stracolmo di frittura profumata e stuzzicante.
Ippolito esclama subito:
- Ottimi, Pancrazio!
E Turibio, come si avvicina una cameriera, le dà una bella manata sul sedere:
- Bella culona, portaci una caraffa di vino e, mi raccomando, di quello buono.
Per un po' le loro bocche sono impegnate a sgranocchiare tentacoli, trance di polipo e a tracannare vino.
Quando gli stimoli del piacere di gola si placano, Ippolito trova il tempo per ringraziare:
- Bravo, Leandro! Veramente bravo!
Leandro risponde con un sorrisetto:
- Ed io, con il tuo bravo, mi ripago di tutta la fatica che ho fatto!
Ma Policarpo, che bada solo a gustare il prelibato cibo e spera di gustarne presto di nuovo, domanda:
- Quand'è che vai a pescarne ancora?
- Per qualche giorno, amici, non mi sarà possibile. Devo aiutare mio padre nell'emporio e temo che non riuscirò ad allontanarmi tanto facilmente.
E Turibio:
- Ma lascia perdere tuo padre! Che si arrangi da solo.
Policarpo ribatte: - L'importante che ti dia denaro da spendere.
Leandro spiega: - Il fatto è che se non lo aiuto, niente denaro.
Turibio di nuovo: - E tu glielo rubi!
- Sì, poi se ne accorge e mi dà un sacco di bastonate.
Ippolito conferma: - Ha ragione! Voi non lo sapete, ma il pater familias romano è un padre molto severo.
Policarpo a sua volta: - Lo sappiamo, lo sappiamo molto bene. Del resto anche i nostri lo sono.
Leandro cerca di sviare il discorso: - Comunque sono contento di avervi offerto una cena molto gustosa.
Ippolito domanda: - E noi con che cosa possiamo ricambiare?
È Turibio a rispondere: - Avete ragione, ragazzi! Avete proprio ragione. Sì, bisogna ricambiare e noi offriremo a Leandro qualcosa di molto interessante.
Leandro chiede curioso: - Che cosa sarà mai?
- Una bella cavalcata!
- Capirai che gusto! Io vado tutti i giorni a cavallo.
- Ma io parlo di un'altra cavalcata, amico mio.
- E sarebbe?
Ippolito gli fa notare: - Non l'hai ancora capito?
Riprende Turibio: - Tu, Ippolito, sì che te ne intendi! Devi sapere, Leandro, che proprio oggi al lupanare sono arrivate quattro giovani egiziane bellissime. Ecco la cavalcata che vogliamo offrirti. Giusto, ragazzi?
Ippolito conferma subito: - Giusto!
Ma Policarpo ride ironico: - Tutte e quattro per lui? E mica gliela fa!
Turibio lo riprende: - Che cosa stai dicendo? Una ciascuno. A lui lasciamo la scelta.
Tutte le volte che al lupanare è arrivata merce fresca, i quattro amici sono stati sempre i primi a servirsene e Leandro non s'è mai tirato indietro: da giovane romano qual è, ha voluto dimostrare ogni volta quanto vale. Ma questa sera la sua mente è occupata altrove. È tutta presa dal desiderio per la bellissima Ero, che domani rivedrà e, forse, qualcosa di più. Prova ancora nelle sue dita la morbidezza e il calore di quella pelle appena sfiorata attraverso la leggera tunica, risente ancora la sua voce soave e carezzevole, è ancora tutto imbevuto del suo sguardo penetrante. Questa sera no. Una prostituta del lupanare, sia pure giovane e bella, non lo attira affatto.
Vedendolo incerto, Turibio incalza:
- Allora, ci vogliamo decidere?
- Ragazzi, io questa sera non mi sento in forma. Preferisco non venire.
- Come sarebbe a dire? Che cosa ti è successo?
- Il fatto è che, forse perché sono stato in giro tutto il giorno, sono stanco e stasera proprio non mi va.
- Eh no, eh! Tu ci hai offerto un'ottima cena e noi vogliamo ricambiare con una cavalcata. Che storie sono queste?
Interviene Policarpo: - Non ci puoi dire di no. Ci offenderesti!
- Ve l'ho detto, amici, sono stanco. Ci può essere una volta che uno non sia disposto, no? Poi domani mattina devo alzarmi presto, ché c'è un sacco di merce da sistemare nell'emporio e già questo mi leva la voglia. Facciamo un'altra volta, dai! Questa sera non mi sento in vena.
Turibio si esalta. - Ma quale altra volta? Ci sono quattro egiziane che ci aspettano e tu vorresti rimandare ad un'altra volta. No, no! Si va questa sera e non si discute.
- Dai, Turibio, per favore!
- Senti, falla finita con le tue inutili scuse! Si va e basta! Ti facciamo scegliere la più bella. Che cosa vuoi di più?
Si lascia convincere. Non vuole che trapeli il minimo sospetto.
- E va bene! Se poi però non funziona, Turibio, è colpa tua.
- Funziona, funziona, vedrai!


Capitolo terzo

Entrano nel lupanare, già occupato da diversi uomini, con le donnine discinte che gli si strofinano addosso, per eccitarli in anticipo.
Ma quando la matrona vede i quattro amici, assidui frequentatori e sempre ben paganti, fa loro cenno di avvicinarsi.
- Immagino che siate qui per le egiziane!
Turibio risponde per tutti:
- E per chi, se no?
La matrona le fa chiamare subito. Sono quattro morettine dai capelli lunghi, con la frangetta diritta sulla fronte, ben fatte e rotondette.
Leandro la sceglie dallo sguardo, quella che gli sembra più dolce e meno volgare.
L'egiziana lo prende per mano e gli sussurra con un sorriso:
- Andiamo, bel giovane! Non ti farò pentire della scelta.
Entrano in una stanza. La ragazza chiude la porta, si libera subito dei pochi indumenti e lo fissa in atteggiamento provocante:
- Che te ne pare?
- Sei molto carina! Leandro si toglie con lentezza la toga, ma la sua mente vaga lontano, molto lontano da quel corpo che si offre a lui dietro pagamento.
La donna si accorge della sua titubanza.
- Beh, che fai? Non ti decidi? O devo spogliarti io? Se è così, dai! - e comincia a slacciargli la tunica. Il giovane però mostra una visibile resistenza e infine confessa:
- Scusami! Questa sera non me la sento.
- Come sarebbe a dire? Hai pagato, sei venuto qui dentro e ora non te la senti? Questa roba forse non ti fa abbastanza effetto? - e gli si struscia contro provocante. Lui, pur mostrandosi gentile, rifiuta.
- Scusami, ma in questo momento non mi sento in vena, anche se sei una splendida ragazza.
- Oh! Mi dici che cosa ti succede?
Cerca una scusa, la meno indicata.
- Non lo so. Forse perché penso a tutti quelli...
- Vuoi dire a tutti quelli che sono stati con me?
- Può darsi. Sai, alle volte vengono in mente certe idee e ...
Lei se la prende a male:
- Guarda che sono pulita! Sono lavata e profumata.
- Lo so, ci credo, però ci sono stati e la cosa mi crea un certo fastidio.
- Devi sapere, giovane romano, che quando una donna è pulita, è come se non ci fosse stato nessuno.
Non sa come giustificarsi ancora.
- Lo so, però......
L'egiziana cerca di smontare le sue incertezze.
- Scusa, tu forse con le tue mani non hai toccato a volte le cose più schifose? Non ti è capitato di toccare anche la merda? E allora come mai ci prendi anche il pane che mangi? Non ti fanno schifo le tue mani?
- Che cosa c'entra? Le mani sono un'altra cosa.
- No, bello mio! È la stessa cosa.
- Sarà pure così, che vuoi che ti dica? Tante altre volte non ho provato questa impressione. E non erano così carine come te. Questa sera è così. Non ci posso fare niente.
- Allora sei stato altre volte qui dentro?
- Certo! Parecchie volte.
- E non hai mai provato questa sensazione?
- Le altre volte, no.
Si è tradito da solo.
- Quindi il motivo è un altro. Non sarà che in questa testolina si è insinuata una qualche dolce fanciulla?
- Ma che cosa dici?
- Dico, dico. È così?
Gli viene spontanea la risposta: - Può darsi.
- È così! Allora hai pienamente ragione e non facciamo proprio nulla.
Continua anche mentre si riveste:
- Sono contenta per te! E ora capisco tutto: i tuoi amici hanno voluto portarti qui anche questa sera, tu però non volevi, perché il tuo cuore è già occupato. Mi sbaglio?
- Forse no.
- Va' dalla tua dolce fanciulla, bel giovane. Vedrai che con lei non proverai questi scrupoli. Va' e goditi la tua giovinezza con lei.
Leandro le bisbiglia quasi mortificato: - Scusami ancora. Comunque sei molto carina e gentile.
- Grazie per il complimento!
- Ciao e auguri!
- Auguri a te, bel giovane romano!
Nell'andarsene le sfiora la guancia con un bacio, quasi a farsi perdonare.

È notte e la luna splende nel cielo.
Leandro, seduto sulla spiaggia del mare, ha lo sguardo perduto in quel ponte d'argento gettato tra le due sponde dalla luna. Un ponte che lascia correre i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue nostalgie. Ma anche dall'altra parte del ponte d'argento gli stessi pensieri, gli stessi desideri, le stesse nostalgie. Ero, distesa nel suo lettuccio con le mani sotto la testa, sospira pensando a lui: "Sono lunghe queste ore di attesa, ma domani ti rivedrò, Leandro. Forse mi sto innamorando di te e non dovrei. Ad una sacerdotessa del tempio è proibito innamorarsi. Non dovrei rivederti più, ma non posso non rivederti. Te l'ho promesso. Ho promesso di parlarti di Afrodite. Quindi dovrò incontrarti ancora. A domani, Leandro! Ovunque tu sia, buonanotte!" Si gira di fianco, si aggomitola su se stessa e abbraccia forte il cuscino, quasi che il suo calore le dia la sensazione del corpo altrettanto caldo del giovane romano.
Gli amici di Leandro, uscendo dalle camerette del lupanare, si raccontano con entusiasmo le loro rispettive impressioni.
Ippolito guarda verso la camera dove è entrato l'amico e chiede:
- Ma Leandro, com'è che ancora non esce?
Turibio osserva:
- Avete visto? Diceva che non era la serata giusta. Invece sta ancora là dentro.
Policarpo allora si mette a gridare:
- Leandro, se ne hai ancora per molto, faccelo sapere, che ti aspettiamo.
Ippolito ride forte:
- "Non funziona", diceva.
La ragazza egiziana che era stata con lui, uscita al loro fracasso, risponde ad alta voce:
- Infatti non ha funzionato.
Turibio chiede subito:
- Che cosa hai detto?
- Ho detto che non ha funzionato. E sapete perché? Perché il vostro amico è innamorato.
Interviene incredulo Policarpo:
- Leandro innamorato? Ma che cosa stai dicendo?
- Sì, ragazzi! È con me che non ha funzionato, ma in questo momento starà funzionando sicuramente molto bene con un'altra.
Mentre tornano a casa, Turibio continua a ripetere:
- Non è possibile! Innamorato di chi, se non l'abbiamo mai visto con nessuna ragazza.
Ippolito fa notare:
- Ecco perché durante la cena era così pensieroso, così assente.
Turibio non si dà pace:
- Ma questa ragazza chi può essere e dove può essere? Dobbiamo farcelo dire. Non è giusto che se la goda da solo.
E Policarpo con invidia:
- Intanto, adesso se la sta godendo da solo e noi non sappiamo chi è.
Ippolito conclude:
- Ragazzi, è inutile che ci rompiamo il cervello. Domani mattina andiamo all'emporio e ce lo facciamo dire da lui stesso.



Capitolo quarto

L'emporio è in piena attività: carri che partono e che arrivano, gente che carica, che scarica, che ammassa la merce. Il padre di Leandro tiene tutto sotto controllo e annota sia quello che esce sia quello che entra. I tre amici, avvicinandosi, lo salutano:
- Ave, domine!
- Salve, ragazzi!
Policarpo chiede subito:
- Possiamo parlare con Leandro?
E Ippolito aggiunge:
- Gli dobbiamo chiedere un favore .
L'uomo, sempre tenendo d'occhio la sua merce:
- Leandro, ragazzi, è andato via.
Turibio subito:
- È andato via! E dov'è andato?
- Questo proprio non lo so. A me non dice mai dove va.
E Policarpo:
- Ma, è partito a piedi o a cavallo?
Poi Ippolito:
- Intendiamo dire se è andato vicino o lontano.
- È andato a piedi, ma non so se sia andato vicino o lontano.
Turibio specifica:
- Eravamo convinti di trovarlo qui. Ci ha detto che doveva aiutarti.
- Aiutarmi?! E quando mai? Tutti così i giovani d'oggi. Fannulloni e sfruttatori. Sono capaci soltanto di chiedere denaro.
Policarpo ancora:
- Non sai quando ritorna?
- Certamente per l'ora di pranzo. Ed ora scusatemi, ragazzi, ma ho molto da fare.
Rimasti soli, Ippolito commenta:
- Allora è proprio vero!
Policarpo aggiunge:
- Aveva ragione l'egiziana.
Turibio si chiede:
- Dove può essere andato?
Policarpo ha un'idea:
- Vogliamo fare una cavalcata in giro?
Ippolito esclama:
- Che cosa vuoi cavalcare, se è andato a piedi!
Turibio aggiunge:
- Se è andato a piedi, vuol dire che sta qui intorno.
Policarpo osserva: - Sì, ma qui intorno dove? Da queste parti non conosco una ragazza che gli possa interessare.
Scartano del tutto l'idea di cercare Leandro per le vie di Abido, perché sarebbe impossibile incontrarlo. Se è in intimità con una ragazza, non si mette di certo in mezzo alla strada.
Siccome il padre ha detto che sarebbe ritornato per l'ora di pranzo, decidono di aspettarlo nelle vicinanze dell'emporio. Sono troppo seccati che lui abbia una ragazza, senza che essi ne sappiano niente. Turibio non si dà pace:
- Possibile che non riusciamo a sapere dove possa essere in questo momento?


Leandro, come si può benissimo immaginare, è seduto su un gradino della scalinata accanto ad Ero. Prendendole le mani quasi a farsi scusare, le sussurra:
- Perdonalo, dolcissima Ero, questo scolaro distratto. Non ho capito bene quanto m'hai appena raccontato.
La giovane sacerdotessa allora, con infinita pazienza e dolcezza:
- Dunque te lo ripeto, Leandro. La dea Afrodite in tempi lontani emerse dalla schiuma del mare e quello fu il suo giorno natale.
- Tu forse vuoi dire che la dea venne partorita dalla schiuma del mare? Ho capito bene le tue parole?
- Hai capito benissimo, Leandro. È così!
- Ma come è possibile che il mare possa partorire una dea?
- Ti spiego allora come successe. Devi sapere, Leandro, che un giorno Urano, il dio del cielo, vagava per diletto tra le nuvole, quando adocchiò Gea, la dea della terra, che era sua madre e sua sposa...
Ascoltando il racconto di Ero, nella mente di Leandro prende forma una scena crudele e incredibile nello stesso tempo. Gea ha in odio Urano perché ha fatto rinchiudere nel Tartaro i Ciclopi suoi figli e aspetta il momento per vendicarsi.
È un caldo pomeriggio di avanzata primavera. La dea della terra è distesa tutta nuda tra i suoi fiori e i suoi frutti e si gode, ad occhi socchiusi, il calore del sole che accarezza i suoi rigogliosi seni e le sue cosce tornite. A tale vista, il dio Urano, eccitato più che mai, è preso dalla bramosia di possederla e in un attimo si cala accanto a lei. Lascia cadere il mantello dalle spalle e, tutto nudo anche lui, sta per gettarsi sulla preda allettante, quando all'improvviso sbuca da un cespuglio il loro figlio Crono, al quale la madre aveva armata la mano di un'affilatissima falce dentata.
Crono, afferrati all'improvviso i genitali del padre con la sinistra, mena un veloce fendente di la falce con l'altra mano e glieli tronca di netto. Soppesa ghignante quello strano trofeo, tra le urla strazianti di Urano, poi lo scaglia verso il cielo con tutte le forze.
I genitali così recisi, roteando nell'aria come un uccello senz'ali, vengono spinti lontano, sempre più lontano, per finire la corsa con un tuffo leggero in mezzo al mare.
Al contatto dell'acqua accade un fatto eccezionale: si sprigiona da essi una grande quantità di schiuma che dà inizio ad una straordinaria trasformazione. Il pene a poco a poco prende le sembianze di una testa e i testicoli di due seni.
La testa diventa poi un bellissimo volto circondato da una fluente capigliatura bionda, i seni si fanno sempre più turgidi.
La trasformazione continua, finché emerge dalle onde una creatura stupenda. Nasce in questo modo Afrodite, la dea della bellezza e dell'amore.
A tale rivelazione, scappa detto a Leandro:
- Allora quella dea lì è proprio una testa di fallo nel vero senso della parola!
Ma Ero lo rimprovera dolcemente:
- Leandro, non dire queste cose con una sacerdotessa del tempio!
- Scusami, dolcissima Ero! Ti chiedo perdono. E poi che successe?
- Successe che subito dopo la sua nascita Afrodite ha cominciato ad amare, ad amare sempre.
- Chi è stato il fortunato di così grande amore?
- Sono stati tanti, mio bel giovane romano.
-Ah, sì! Fammi conoscere i loro nomi, ti prego!
- La dea Afrodite era ancora una fanciulla quando, durante una passeggiata lungo la riva del mare, fu presa da grande passione per il giovane eroe troiano Anchise e dal loro amore nacque Enea.
- Sì, conosco la storia di Enea. E poi?
- Poi il sommo Giove, perché non desse scandalo nell'Olimpo e per altri motivi che non ti sto a raccontare, la costrinse a sposare il dio Efesto, che voi Romani chiamate Vulcano.
- Chi, quel dio storpio e deforme che la madre scagliò dall'Olimpo appena nato, per quant'era brutto?
- Sì, proprio lui, il fabbro degli dèi.
- Capirai che bell'affare! Come poteva piacere ad Afrodite uno sgorbio del genere?
- Infatti non le piaceva per niente. Tant'è vero che lo tradì più volte (anzi ne divenne addirittura l'amante) con quel dio prepotente e attaccabrighe che è Ares, o Marte , come lo chiamate voi.
- Il dio della guerra.
- Sì! E dal loro amore turbolento nacquero cinque figli: Deimos il terrore e Fobos la paura, poi anche Eros, Anteros e Armonia.
- E così siamo arrivati a sei.
- Di che cosa?
- Di figli.
- A sette, perché intanto con Vulcano aveva concepito Priapo. Per essere sinceri, qualcuno sospetta che fosse figlio di Bacco, ma non si sa con certezza. Però ad un certo punto Vulcano si rese conto di avere le corna.
- E che razza di corna! M'immagino che gli pesassero parecchio.
- Allora, per scoprire la tresca, escogitò una trappola.
Leandro ascolta sempre più incuriosito e resta incantato al fluire della voce armoniosa di Ero. E ancora una volta la sua fantasia crea le immagini scaturite dalle parole della giovane sacerdotessa.
Vulcano sospetta da tempo che la sua bella e stravagante moglie abbia un amante. Tutti quei figli non possono essere suoi. Non gli somigliano affatto.
Però, nonostante i suoi ripetuti appostamenti, nonostante il suo precipitarsi improvviso in camera da letto, quando la moglie lo credeva lontano, non è mai riuscito a sorprenderla con l'amante. La trova invece sempre da sola, a volte addirittura addormentata. Però non si dà pace. Il dubbio è sempre in agguato.
Allora prepara una trappola di quelle che solo gli dèi sanno inventare. Costruisce una rete invisibile che distende in alto sopra il letto. La rete è collegata, tramite fili altrettanto invisibili, ad un congegno nascosto nello stesso letto, capace di farla precipitare e avviluppare chi vi è sopra, in seguito a ripetuti movimenti ritmici.
Così un giorno, uno dei tanti, eccoti il dio Ares che si accinge a possedere la bellissima dea al solito modo prepotente e un po' violento.
I due giacciono avvinghiati e si amano in modo frenetico, quando all'improvviso cala su di loro la rete che li avvolge completamente. Più essi si dibattono per liberarsi, più la rete li stringe inesorabile.
Quando torna a casa Vulcano, prima si gode rabbioso lo spettacolo, poi spalanca una finestra e si mette a gridare con tutto il fiato che ha in gola:
- Tu, sommo Giove, e voi dèi e dee di tutto l'Olimpo, accorrete. Accorrete a contemplare la scena vergognosa che sta dando mia moglie con il dio Ares.
Dalle finestre, dalle porte, da ogni nuvola, si affacciano gli dèi e le dee.
L'Olimpo intero rintrona di sonore risate con ammiccamenti salaci da finestra a finestra, da porta a porta, da nuvola a nuvola. Solo qualche pudica dea si ritira vergognosa e rossa in viso.
Leandro chiede con evidente curiosità:
- Fu sufficiente quello scandalo, perché la dea rimanesse fedele a suo marito?
- Mio caro ingenuo romano, quando una dea ama, il suo amore non ha limiti e non ci sono scandali a fermarlo. Tant'è vero che, se con Bacco c'era stato solo qualche pettegolezzo circa il figlio Priapo, diventarono poi amanti per lungo tempo.
- Anche un dio ubriacone! Se li sceglieva nel mazzo questa dea i suoi spasimanti.
- Mio caro giovane romano, quando si ama sul serio, è l'amore che conta, non la persona amata.
- E con Bacco come andò a finire?
- Con lui ebbe tre femmine, le Grazie, e un maschio, il dio Imene.
- E così siamo arrivati a undici. Di figli, naturalmente.
- Non sono mica finiti! Con Poseidone, il dio del mare che voi chiamate Nettuno, ebbe Rodo e con Mercurio le nacque Ermafrodito.
- Siamo arrivati a tredici. Bastano?
- I figli sì, gli amanti no.
- Ancora no? Se non mi sono sbagliato a contare, sono stati cinque più un marito. Dico bene?
- Dici bene, Leandro. Ma il suo più grande amore contrastato fu quello con un altro giovane mortale, il bellissimo cacciatore Adone. Di lui si innamorò perdutamente, ma la gelosia furiosa di Marte mise fine ai suoi giorni.
- O poveretto! In che modo?
- Marte, geloso del suo bellissimo rivale, mentre egli andava a caccia, prese le sembianze di un cinghiale, s'avventò su di lui e lo uccise.
- Sapessi quanto mi dispiace! Certo però che questa dea, con tutti i suoi amanti e con quella sfilza di figli, è stata proprio una gran mignottona!
- Non dire così, Leandro! - gli sussurra accostandosi a lui. - Afrodite è una dea dal cuore ribollente di passione, pronta a donare il suo immenso amore ad ogni dio, ad ogni mortale, disposti ad accoglierlo e a ricambiarlo. Afrodite, bel giovane romano, è quella dea che spinge inesorabilmente un essere verso un altro essere. E il mortale non può opporsi alla sua volontà. Hai capito, Leandro? Non può opporsi. Hai capito? - e lo fissa da vicino con molta intensità.
- Sì, certo! Ho capito.
Lì per lì, in realtà, non recepisce il messaggio. S'è lasciato coinvolgere dal racconto di quella dea così tanto bislacca. Ma un attimo dopo si rende conto di aver capito benissimo. Allora assume un'espressione assorta. La fissa anche lui e le sussurra:
- Ero!
- Che cosa c'è, Leandro?
- È venuta, Ero!
- Chi, Leandro?
- La dea Afrodite.
- Dov'è, Leandro?
Le prende le mani:
- Non la vedo, ma la sento. Sento che mi spinge inesorabilmente verso di te, Ero!
- Davvero, Leandro?
L'abbraccia stretta stretta, serrandosela addosso:
- Non riesco a resisterle, Ero! Non la senti anche tu questa forza che ti spinge verso di me?
Anche le mani di lei cominciano a fremere sulla pelle di lui:
- La sento, Leandro, la sento. E tu non la senti, Leandro, la dea che ci spinge verso quel prato erboso? Non la senti, Leandro?
La sua voce è ansante di desiderio, lo stesso desiderio di Leandro.
- Sì che la sento, Ero! La sento e come!
In un attimo si ritrovano distesi sull'erbetta fresca.
Un momento dopo i loro corpi nudi, avvinghiati, stretti, spasimanti, esprimono tutto il desiderio di fondersi insieme.


Capitolo quinto

Mentre il giovane romano e la bellissima Ero si godono il loro amore appassionato, capita a passare da quelle parti la dea cacciatrice Artemide, o Diana che dir si voglia, seguita dalle sue Ninfe.
Artemide, piccoletta e magra, temperamento nervoso, carattere arcigno, è quella dea che prova disgusto per il sesso. Per lei il rapporto tra maschio e femmina è osceno e schifoso, tanto più se compiuto da una sacerdotessa.
Quindi, mentre le giovanissime Ninfe si fanno intorno curiose per godersi da vicino i contorcimenti dei due amanti, lei volta lo sguardo da un'altra parte, nauseata da quell'orribile scandalo. Rimbrotta aspramente le sue Ninfe, perché se ne stiano lontane e si precipita come una furia da Afrodite, la quale invece la accoglie con molta cordialità.
- Oh! Ecco la vergine Artemide, solitaria cacciatrice tra vallate e foreste, più amante degli animali che degli essere umani! Quali notizie mi porti?
Le risponde accigliata:
- Brutte, Afrodite! Molto brutte! Guarda tu stessa! Quella tua sacerdotessa di Sesto sta commettendo un'azione indecente con un giovane mortale.
Afrodite volge lo sguardo con un sorriso verso i due giovani che si amano con tutto l'ardore della loro età.
- Vedo, vedo, Artemide! Perché dici che sta commettendo un'azione indecente? Osservali bene! Non vedi come sono carini?
- Lo sai benissimo, Afrodite, che una sacerdotessa del tempio ha consacrato a te la sua verginità. Dunque devi provvedere!
- D'accordo, d'accordo, Artemide, provvederò. Ma non te la prendere così tanto!
Artemide se ne va poco soddisfatta e piena di livore. Afrodite contempla ancora il caloroso amplesso della sua sacerdotessa con il giovane romano e sorride di nuovo:
- Non c'è bisogno che provveda io. Hanno già provveduto da soli.


Leandro, che non sa nulla degli intrighi celesti, continua a godersi e a far godere quel fantastico corpicino della giovane sacerdotessa. Ma non sa neanche di essere atteso, morbosamente atteso dai suoi amici, che hanno tutte le intenzioni di carpirgli il segreto.
Dopo le ultime bracciate infatti, ha appena toccato terra e si sta avviando verso casa fischiettando, quando se li trova davanti. Allora li saluta con un largo sorriso:
- Ohé! Salve, amici! Che cosa fate di bello da queste parti?
E Turibio subito:
- È allegro il signorino, oggi!
- Eh?!.... Sono allegro. Dovrei forse piangere?
A sua volta Policarpo:
- Come mai tutta questa allegria?
- Fatemi capire, ragazzi! Che razza di gioco è questo? Perché non lo conosco. È forse arrivato dall'Egitto o da qualche paese dell'Oriente?
Turibio, serio:
- È arrivato dall'Egitto.
- Bene! Bello! Insegnatemelo, ché voglio giocarci anch'io.
Interviene Ippolito:
- Non fare finta di non capire. È arrivato dall'Egitto nel senso che ieri sera l'egiziana ci ha raccontato tutto.
Turibio di nuovo:
- E tu non dici niente ai tuoi amici. Allora, chi è?
- Eh! Purtroppo non lo so, perché se lo sapessi, sarei io il primo a dirvelo. Scusate se ve lo chiedo: mi volete dire di che cosa state parlando?
Policarpo reagisce:
- Leandro, non ci va per niente che ti prendi gioco di noi. Siamo tuoi amici e abbiamo il diritto di sapere chi è.
Leandro tutto direbbe, meno che confidare loro il suo favoloso segreto:
- Ragazzi, facciamo le persone serie. Che cos'è che dovrei dirvi?
Ancora Ippolito:
- Perché, Leandro, continui a far finta di non capire? Non siamo mica scemi! Ce l'ha detto l'egiziana che sei innamorato. Così innamorato che con lei non hai combinato nulla. E se lo hai detto a lei, devi dirlo anche a noi.
Leandro si fa una lunga risata:
- Miei cari ingenui amici, non l'avete capito da soli? Ho inventato quella balla con la prostituta per non fare brutta figura. E sapete perché? Perché con lei purtroppo non sono riuscito a.... compiere il mio dovere. Del resto ve l'avevo detto che non era la serata giusta. Può capitare qualche volta, no? A voi non è mai capito? Pensate che se avessi davvero una ragazza, non lo direi a voi che siete i miei unici amici?
Ippolito pronto:
- Allora perché te ne sei andato per conto tuo e non ci hai aspettati?
- Beh! Mi seccava fare un'altra figuraccia anche con voi a raccontarvelo.
Ma Turibio non è convinto e domanda risoluto:
- Invece questa mattina dove sei stato? Non dovevi aiutare tuo padre?
- Sì, ma....dopo la brutta figura di ieri sera, non ne avevo voglia. Così sono andato nuovamente a pescare per offrivi un'altra cena.
Policarpo è ironico:
- Certo! Tu che sei un così bravo pescatore, questa volta sei andato a pescare con le mani nude e hai preso, come stiamo vedendo, un sacco di pesci.
- O Policarpo! Se sapessi quello che mi è successo...
- Sentiamo, sentiamo che cosa ti è successo di tanto grave.
- È inutile che fai quel sorrisino da prendere in giro! Posso anche fare a meno di dirvelo.
- No, no! Per carità! Raccontacelo pure, siamo tutt'orecchi.
- Sentite, se ci credete, ci credete, altrimenti fate come vi pare. Sta il fatto che ero riuscito a catturare diverse cernie. Stavo tornando a riva quando, sicuramente attirato dall'odore del sangue, sono stato assalito da uno squalo. L'ho ripetutamente colpito con la fiocina, ma è riuscito a strapparmele con tutta la rete. Allora gli ho scagliato la fiocina con quanta forza potevo avere nell'acqua, però la bestiaccia è riuscita a fuggire lo stesso, portandosi via anche la fiocina conficcata in un fianco.
Questa volta è Turibio a ironizzare:
- E tu, lottando con uno squalo, non hai riportato neanche un graffio.
A questo punto Leandro perde la pazienza:
- Sentite, ragazzi, se non mi volete credere, non posso farci proprio niente. Sapete che vi dico? È da questa mattina che sto in mezzo all'acqua. Sono stanco e m'è venuta anche fame. Io vado a casa a mangiare. Vi dispiace se continuiamo il discorso un'altra volta?
Turibio insiste:
- Poi però ci dici chi è!
- Ma che cosa vi devo dire, se non ho nessuna ragazza. Salve, amici, e buon appetito anche a voi.
Turibio, dopo che Leandro si è allontanato, esclama:
- Non mi convince e non mi convince!
E Ippolito:
- Quella dello squalo poi è proprio una balla. Se gli avesse portato via le cernie, sarebbe furioso come una belva, altro che fischiettare allegramente.
Policarpo conclude:
- Certo che è una balla! Il giovanotto fa il furbo con noi, però se non ce lo dice, lo scopriremo da soli. Basta pedinarlo quando esce. Ma a quel punto sarà peggio per lui.
Intanto Leandro, che ha capito benissimo le loro intenzioni, camminando ragiona tra sé: "Sarebbero capaci anche di venirmi dietro, ma col cavolo che mi faccio fregare! Se per caso venissero a sapere che me la intendo con una sacerdotessa del tempio, chi li ferma più? Mi vanno a creare casino anche là dentro, mandandomi tutto all'aria. Già rischio per conto mio! Figuriamoci se ci si mettono anche loro!"



Capitolo sesto

È scesa la notte.
Ero, chiusa nella sua cameretta, si sta facendo bella. Si profuma tutta, indossa prima una vestaglietta corta, poi una lunga trasparente, poi un'altra ancora. Deve essere tale che, indossata, provochi già, prima di essere tolta. Infine si pettina ben bene, lasciando i lunghi capelli sparsi sulle spalle.
Anche il lettuccio aggiusta con molta cura, profumando anch'esso qua e là. Deve accogliere per la prima volta e in gran segreto il suo grande ed appassionato amore.
Ma è molto in ansia. In ansia che Leandro non riesca a venire o che possa succedere qualcosa ad impedire quel tanto desiderato incontro. Tuttavia, come gli ha promesso, accende la lanterna sulla finestra che guarda verso il mare. E, mentre la dispone sul davanzale, parla con lei, quasi una complice del suo furtivo incontro: "Lumicino mio, risplendi! Risplendi e non ti spegnere mai! Tu sei la guida al mio Leandro che presto verrà da me".
Anche Leandro, da parte sua, si sta preparando per il fantastico incontro notturno. Però è quasi certo che fuori ci siano gli amici in attesa di poterlo pedinare. Allora gli viene in mente una straordinaria trovata: scende nella scuderia, salta in groppa al suo cavallo e parte al galoppo. Come ha intuito, nota gli amici appostati, e come ha deciso, anziché verso il mare, punta a tutta velocità verso l'entroterra.
Turibio scatta in piedi:
- Leandro ci ha fregati!
Ippolito a sua volta:
- Se ha preso il cavallo, significa che la ragazza è lontana.
E Policarpo:
- Seguiamolo a piedi! Con un po' di fortuna forse riusciremo a ritrovare il cavallo vicino alla casa della sua amata.
Leandro intanto, raggiunto al galoppo un boschetto, sicuro ormai di aver distanziato gli amici, scende da cavallo, lo lega ad un tronco tra gli alberi e raggiunge il mare a piedi per un altro sentiero. Giunto sulla spiaggia, sta per tuffarsi, poi ci ripensa: "Chi me lo fa fare a quest'ora di notte?"
Sale sulla sua barca e prende a remare velocemente verso l'altra sponda. La luna ancora non è apparsa e questo è un bene, perché non può essere scorto dagli amici, qualora, insospettiti, decidano di tornare indietro. Ma è anche un male, poiché con quel buio fitto non vede assolutamente nulla. Tuttavia ben presto nota la flebile luce della lanterna sulla finestra di Ero e la segue come punto di riferimento.


Mentre Leandro attraversa lo stretto, i suoi amici correndo ancora, tutti trafelati, sono giunti nei pressi del piccolo bosco dove ha lasciato il cavallo.
È Policarpo ad avvertire qualcosa:
- Fermi un po'!
S'arrestano e Ippolito chiede:
- Che cosa c'è?
- M'è parso di sentire lo sbuffo di un cavallo.
Tendono le orecchie. Il cavallo che certamente li conosce, fa udire di nuovo la sua presenza. S'addentrano a tentoni tra gli alberi. Il cavallo si fa notare ancora. Turibio si avvicina, lo accarezza, palpa la sella.
- Mi sembra proprio il cavallo di Leandro.
Ippolito conferma:
- Certo che è il suo, altrimenti non si farebbe toccare tanto facilmente.
Policarpo ansioso:
- Sì, ma lui dove sarà andato?
E Ippolito:
- In quale casa sarà entrato?
Turibio propone:
- Sapete che cosa si fa? Si bussa a tutte le porte, dicendo che cerchiamo Leandro, perché il padre s'è sentito male. Prima o poi finiremo per trovarlo!
Policarpo però non è d'accordo:
- Quelli mica lo sanno chi è Leandro. Scambiandoci per ladri, potrebbero darci una bella bastonata in testa.
Ippolito, più tragico.
- O infilarci una spada nella pancia.
A Turibio non rimane che un suggerimento:
- Aspettiamolo qui, vicino al suo cavallo e quando torna farà i conti con noi.


Leandro ha raggiunto la sponda opposta.
Lega la barca ad un arbusto, attraversa a tentoni il breve spazio dove la mattina aveva amoreggiato con Ero e, sempre a tentoni, si avvicina alla scalinata. La luna che sta sorgendo dalle casette di Abido, getta il suo primo leggero chiarore da vederci appena.
Sale la gradinata ed entra guardingo nel grande portico immerso nel buio. Si ferma un attimo contro una colonna e scruta intorno: non si ode nessun rumore.
Fa ancora qualche passo. "Mi ha detto: la seconda porticina a sinistra. Spero di non sbagliare con questo buio. Ci vorrebbe che entrassi nella camera di qualche altra sacerdotessa. Senti che casino!"
Un filo di luna arriva finalmente anche sotto il portico. Controlla bene, si assicura che si tratti proprio della seconda porta a sinistra, poi picchia i tre leggeri colpetti convenuti.
La porta si apre in silenzio e una manina nel buio lo guida dentro.
Come la porta è richiusa, abbracci e baci frenetici, parole dolci appena sussurrate:
- Leandro, amore mio, temevo che non venissi più!
- Non potevo non venire, amatissima Ero!
Non si dicono altro. Tra l'ansimar dei loro cuori, si ritrovano nudi, avvinghiati stretti stretti su quel lettuccio che per la prima volta accoglie l'amore.


Gli amici di Leandro sono sempre in attesa del suo ritorno.
Ma l'attesa lunga, con quel frescolino del bosco, mette sonno. E al sonno non si comanda.
Decidono di fare la guardia a turno, uno alla volta. A Turibio che ha avuto l'idea, tocca il primo.


Nella camera della giovane sacerdotessa continuano gli impetuosi abbracci e i godimenti senza fine. La dea Artemide getta uno sguardo disgustato a quella scena ripugnante ed esplode: "Ecco come ha provveduto quella troia! Pure in camera se l'è portato. Che schifo!"
Vola difilata da Afrodite per rinfacciarglielo, ribollente di rabbia:
- È così che hai provveduto, vero? Guardali!
Afrodite si volta seccata:
- Si può sapere che cosa vuoi ancora da me?
- Devi intervenire e subito! Se l'è portato perfino a letto. Nel letto di una sacerdotessa che ha offerto a te la sua verginità. Te ne rendi conto?
- E va bene, dea Artemide! Quanto ti preoccupi! Lei ha offerto a me la sua verginità ed io la cedo volentieri a quel bel ragazzo. Guardali come fanno tenerezza! Sono due giovani che si amano, Artemide! Lo capisci o no? Si stanno amando!
- Tu lo sai benissimo, Afrodite, che ad una sacerdotessa è proibito accoppiarsi.
- Sì, lo so, Artemide! Ma per una volta passiamoci sopra, no? Guarda, ti garantisco che non succederà più.
Artemide se ne va, scorbutica come al solito, ben poco convinta dell'intervento di Afrodite.


È ormai l'alba.
Leandro entra nel porticciolo con la barca, la ancora al solito posto e si avvia verso il bosco per riprendere il cavallo. Ridacchia per conto suo: "Che notte allucinante, ragazzi! Se lo sapessero i miei amici, gli scoppierebbero le budella per la rabbia. Il fatto è che non lo sapranno mai!"
Anche lungo la stradina continua a ragionare tra sé: "Ieri sera, poverini, hanno fatto tanto per venirmi dietro e non ci sono riusciti. Chissà come ci sono rimasti male! Sicuramente sono tornati a casa delusi ed ora sognano di avere scoperto il mio segreto".
Si sta addentrando tra i primi alberi del bosco, quando a momenti gli prende un colpo. I suoi amici sono lì, poco lontani dal cavallo. Però dormono profondamente tutti e tre.
Forse riesce a fargliela un'altra volta. Tranquillizza il cavallo che ha girato la testa verso di lui, accarezzandolo sul collo. Lo slega e se lo porta dietro piano, piano. Gli zoccoli sull'erba non fanno rumore. Appena è uscito dal bosco, lo cavalca di corsa e parte al galoppo.
È forse il rumore degli zoccoli in allontanamento a svegliare Turibio. Salta in piedi di scatto, con un grido:
- Per Giove! Ci ha fregati di nuovo.
Si scuotono anche gli altri e Policarpo domanda ansioso:
- Che cosa?!
Ippolito ancora insonnolito:
- L'hai visto?
Turibio deluso:
- No! S'è preso il cavallo se n'è andato.
Policarpo esplode:
- Brutto deficiente! Eri tu di guardia.
- Che ci posso fare se mi sono addormentato anch'io?
Ippolito cerca di essere conciliante:
- È inutile arrabbiarsi tanto. Ormai è andato.
Turibio conclude imbestialito:
- Più tardi faremo i conti a casa sua.


Capitolo settimo



Il padre a pranzo lo rimprovera:
- Ragazzo, stai facendo troppo il bighellone.
Leandro cerca di giustificarsi:
- Padre, sono giovane. Cerco di divertirmi un po'. Tu forse non ti sei divertito quand'eri giovane?
- Sì, certo! Però intanto vai in giro tutto il giorno ed io sto qui a sgobbare da solo. Ma ora basta! Questa sera si salpa per Salonicco e tu vieni con me.
- No! Questa sera no, padre. Non posso. Ho un appuntamento molto importante.
- Anch'io ho un appuntamento molto importante: un carico di merce da consegnare. Ed è più importante del tuo.
Gli ordini del padre, del pater familias, più di tanto non si possono discutere. Leandro ha promesso ad Ero che sarebbe tornato anche questa sera. Sa che non può andare e non può non farglielo sapere. Non se la sente di star via una settimana senza dirle nulla. Ci resterebbe troppo male. Deve riuscire a vederla a tutti i costi.

È il primo pomeriggio.
Salta sulla barca e attraversa lo stretto. Spera invano di trovarla al solito posto. Non c'è. Di solito scende solo al mattino. Non gli resta che salire quella scalinata anche di giorno.
Ero gli aveva detto: "Ad un uomo è proibito salire fin lassù", perché evidentemente può essere visto da qualcuno. Si augura quindi di non venire scoperto e di poter parlare con lei. È possibile che stia riposando nella sua cameretta.
Sale guardingo la scalinata, sporgendosi appena. Di giorno nota quello che non aveva notato di notte: il porticato, che in parte conosce, circonda per due lati un piccolo parco con grandi alberi e cespugli fioriti. In quel piccolo parco vede passeggiare lentamente, ognuna per conto suo, in silenzio, il capo coperto da un ampio velo, lo sguardo rivolto a terra e le mani incrociate sul seno, come assorte in meditazione, le giovani sacerdotesse.
S'abbassa di colpo, ma nessuna l'ha visto. Come fare però per avvicinarsi?
Studia la situazione: una siepe di cespugli fioriti, partendo dall'inizio della scalinata, corre lungo il lato esterno del parco, formato da un muretto in pietra, una specie di parapetto verso il mare. Tra il muretto e la siepe c'è spazio sufficiente per infilarvisi. Con molta circospezione, s'addossa alla ringhiera della scalinata, cerca di stare chino più che può e al momento opportuno scivola dentro.
Scorrendo lentamente lungo il muretto ed evitando di muovere i rametti della siepe, si sposta in avanti, finché nota un'apertura. Rimane nascosto e osserva attraverso le foglie, le sacerdotesse ad una ad una, cercando di individuare Ero. Non è facile, con quel grande velo che nasconde in parte anche il viso piegato a terra. Finalmente la riconosce. Anche lei si muove lentamente, spostandosi da una parte all'altra del parco.
La implora con gli occhi: "Passa qui vicino, ti prego!"
Altre sacerdotesse gli passano accanto, ma Ero no. È un'attesa lunga ed estenuante.
Infine anche Ero gli arriva a portata di mano. Come sfiora il cespuglio, la tira di scatto per un braccio, tappandole la bocca con l'altra mano. Non riesce tuttavia ad evitarle un grido soffocato, che fa alzare la testa ad una sacerdotessa poco lontana, mentre lei sparisce dietro al cespuglio.
Riavutasi dal momentaneo sgomento, gli sussurra sbalordita:
- Amore mio, sei tu!? Ma sei pazzo a venire qui di giorno?
Leandro le bisbiglia all'orecchio:
- Devo imbarcarmi con mio padre e starò via una settimana. Non potevo non fartelo sapere.
L'altra sacerdotessa guarda con insistenza verso il cespuglio. Allora il giovane strappa un ramo fiorito e le mormora:
- Adesso vai! Quella là potrebbe sospettare qualcosa. Prendi questo. Sembrerà che sei venuta per i fiori.
- Ti lascerò ugualmente la lampada accesa tutte le notti.
Un veloce bacio ed Ero ritorna alla sua meditazione. L'altra sacerdotessa sembra tranquillizzata. Leandro lascia passare qualche momento, poi fa la stessa strada a ritroso con la medesima circospezione.

Il porto è in pieno fermento.
Tutti i lavoranti sono indaffarati a caricare la nave. Leandro e suo padre controllano la merce in partenza. È tutto preso dal suo lavoro inconsueto, quando vede avvicinarsi Turibio, Policarpo e Ippolito. Li saluta da lontano:
- Salve, ragazzi!
Dice al padre:
- Vado a salutare gli amici.
- Sì, ma fa' presto!
Si rivolge loro con un sorriso, quando sono a pochi passi:
- Spero che non vi siate offesi per lo scherzo di ieri sera.
Turibio risponde freddo:
- Non ci siamo offesi. Volevamo scoprire chi è la tua amante, però non ci siamo riusciti.
E Policarpo:
- Ci hai dato una bella fregatura!
- Siete proprio fissati con quest'amante! Vi ripeto che è stato solo uno scherzo. Ieri sera vi avevo visti nascosti in attesa che io andassi chissà dove, allora m'è venuto in mente di fare una galoppata con il cavallo.
Turibio precisa:
- E l'hai lasciato in mezzo al bosco.
- È naturale! Altrimenti mi avreste visto e allora dov'era lo scherzo? Sono tornato a casa a piedi e mi sono nascosto quando vi ho sentiti correre.
Ippolito chiede:
- E dopo?
- Dopo sono andato a letto. Quando stamattina sono ritornato a prendere il cavallo, dormivate così bene, che mi dispiaceva svegliarvi. E vi ho lasciati tranquilli.
Policarpo butta là una minaccia:
- Leandro, non ci convinci. Ma se non ce lo dici tu, lo scopriremo da soli e allora sarà peggio per te.
- Ragazzi, fate come vi pare! Però dovrete aspettare qualche giorno, perché questa sera m'imbarco e starò via una settimana.
Ippolito pronto:
- Staremo a vedere se è vero che t'imbarchi.
- Non dovete fare altro che aspettare. Vi saluto, amici! Devo aiutare mio padre.
Rimasti soli, è ancora Ippolito a sospettare.
- Voi ci credete che parte?
E Policarpo:
- Restiamo e lo sapremo. Eppure nessuno mi leva dalla testa che un'amante ce l'ha.
Infine Turibio:
- Passare da fesso con lui non mi va per niente. E con un romano per di più.

È scesa di nuovo la notte.
Ero, pur sapendo che quella sera il suo amore non potrà venire, accende ugualmente la lampada sulla sua finestra.
Qualche mattina dopo si sta lavando. Le si avvicina quella sacerdotessa che nel parco aveva guardato con sospetto il suo sparire dietro la siepe.
- Ero, toglimi una curiosità.
- Dimmi, Eufrasia.
- Sono diverse sere che ti vedo accendere un lume sulla tua finestra. Mi dici perché lo fai?
- Semplice: un voto ad Afrodite per un favore che mi deve fare. Però non chiedermi quale. È un segreto.
- Non sarà invece che il lume è un segnale per qualcuno?
Ero le fa un risolino ironico:
- Qualcuno, chi? Il dio Poseidone non ha mica bisogno di un lumicino per navigare durante la notte!
- Io, Ero, non sto parlando di un dio, ma di un mortale.
- Ma che cosa stai dicendo, Eufrasia? Sei impazzita? O sei tu che cerchi qualcuno?
- Io non cerco nessuno. Mi sono votata alla dea.
- E perché, io no?

È passata una settimana.
La piccola nave rientra in porto carica di merci e viene attraccata alla banchina sotto la guida di Leandro che, mentre scende, getta una sguardo pieno di desiderio verso il promontorio di fronte.
E' arrivata la notte. Ero si è preparata per riceverlo, come tutte le sere. Appena ode i colpettini leggeri, apre la porta e spalanca le braccia.
- Finalmente, amore mio, sei tornato! Mi sei mancato tanto, sai? Non potrò più stare senza di te.
- A chi lo dici? Non ho fatto altro che pensarti in questi giorni!
Abbracci, baci, parole e sospiri che continuano nel letto.
Nel buio della notte da una stanzetta poco più avanti scivola fuori un'ombra silenziosa che va a premere l'orecchio nella porticina di Ero.
Per Leandro e la giovane sacerdotessa è giunto il momento di separarsi. Un ultimo abbraccio appassionato.
- Torna anche domani sera, amore mio!
- Tornerò sempre, amatissima Ero! Tutte le volte che vedrò accesa la tua lampada.
- Sì, amore mio! La lampada accesa è il mio grande amore per te, un amore che non si spegnerà mai.
Leandro esce dalla camera di Ero. La porta di quella stanzetta più avanti è socchiusa. La stessa ombra, nel buio, osserva Leandro che se ne va.


Danza religiosa nel tempio.
Le sacerdotesse si muovono a tempo di musica con le braccia ad arco sopra la testa. Danzando e volteggiando, s'intrecciano le une con le altre, passandosi vicine.
Eufrasia fa del tutto per sfiorare Ero di tanto in tanto:
- Questa notte l'ho visto.
- Chi hai visto?
Altri volteggi:
- Il giovane.
- Quale.....Quale giovane?
- Quello che era da te.
Volteggiano di nuovo:
- Ma sei impazzita?
- No! Ho ore....
Di nuovo un volteggio:
- Ho orecchie e occhi buoni.
La danza continua:
- Che cos'hai?
- Te lo spiego dopo.

Cameretta di Ero.
- Tu, Eufrasia, ieri sera hai mangiato troppo e questa notte hai avuto gli incubi.
- Senti, Ero, è inutile che mi prendi per scema! Ho avuto il sospetto già quando eravamo in giardino e sei sparita all'improvviso dietro il cespuglio. Poi la lampada alla finestra. Questa notte sono stata sveglia e ho sentito i vostri sospiri appassionati, poi l'ho visto uscire. Te lo devo descrivere?
- No, lascia perdere! E naturalmente adesso andrai a riferirlo alla sacerdotessa anziana?
- No, se mi paghi bene.
- Quello che vuoi. Per il tuo silenzio sono disposta a pagare qualsiasi cifra.
- Voglio una cosa sola.
- Che cosa?
- Lui!
- No! Lui, no! Non mi puoi chiedere questo. Mi è troppo caro. Non te lo posso cedere. Quello che vuoi, ma non lui!
- Guarda che non lo voglio per sempre. Solo per qualche notte.
- Ti prego, Eufrasia, non me lo chiedere! Tutto quello che vuoi, ma non lui.
- Ne sei innamorata, eh? Ti capisco! Guarda, voglio essere buona. Per una sola notte. Questa notte!
- No, ti scongiuro, non chiedermelo!
È inflessibile.
- Ho detto: questa notte. O me lo mandi, o domani mattina la sacerdotessa anziana e tutte le altre sapranno del tuo amore segreto. Le conseguenze le conosci.



Capitolo ottavo

Ero abbraccia Leandro costernata.
- Capisci, amore mio, che cosa mi ha chiesto?
Leandro soffoca a stento un risolino di soddisfazione, poi si dà un'espressione triste:
- È terribile, mia dolce Ero! No, io non lo farò mai. Non posso farlo!
- Ti prego, Leandro, accetta questo sacrificio per salvare il nostro amore.
- Non me la sento, non ci riesco. Non posso!
- Fallo, ti prego! Lo capisci che è in pericolo il nostro amore?
Il giovane romano rimane un attimo serio e assorto. Infine declama deciso:
- Mi rendo conto, Ero! È in pericolo il nostro amore! Se devo sacrificarmi per salvare questo nostro amore, mi sacrificherò. Ma sappi che non lo faccio volentieri!
- Va', ti prego e non soffrire troppo. Ti aspetto con ansia. Due porticine più avanti. Va'!

Leandro è nell'atrio.
Si guarda intorno. Ci sono una ventina di porte rese appena visibili da un raggio di luna. Dietro ognuna di esse, una giovane sacerdotessa. Chissà che non lo veda qualche altra!
Batte un leggero colpo alla camera di Eufrasia. La porta si apre e una candida mano lo tira dentro.
- Vergine sacerdotessa, sono qui a pagare il prezzo per il tuo silenzio.
Comincia a levargli la toga:
- Vediamo, bel giovane, se vali abbastanza da farmi tacere.

Ero, sdraiata nel suo lettuccio, con un braccio ripiegato e la mano che sorregge la testa, piange in silenzio: "Perdonami, Leandro, se ti ho chiesto questo grande sacrificio. Ma ne andava di mezzo il nostro amore. Perdonami!"


In camera di Eufrasia si lavora in piena attività.
- Allora, sto pagando bene il tuo silenzio?
Eufrasia, ansima di piacere:
- Sì, siiì! Lo paghi bene, molto bene! Dai, dai, pagami ancora, ancoraaaa!

Diana Artemide si affaccia dall'Olimpo nauseata: "No, non è possibile! Ora non una, ma due sacerdotesse. Che disgusto!"
Si precipita ancora una volta dalla dea dell'amore e l'assale con furore:
- Dea Afrodite, stammi a sentire bene! Le tue sacerdotesse hanno superato ogni limite. Non una, ma addirittura due, si sono date alle sporche orge con quel giovane romano. Se non intervieni immediatamente, intervengo io. Chiaro?
- Senti, verginella! Se due giovani che fanno l'amore ti danno fastidio, girati da un'altra parte, ma lasciami in pace e lasciali in pace. È chiaro questo per te?
- Allora è così! Siccome tu hai fatto la troia per tutta la vita e hai ammucchiato una gran quantità di amanti e di figli, lasci che le tue sacerdotesse facciano altrettanto. Ma c'è una legge, Afrodite, e devi farla rispettare. Altrimenti la faccio rispettare io. Non devono essere tutte mignotte come te.
Afrodite si altera sul serio:
- Come ti permetti di parlarmi in questo modo, vergine ammuffita! Sì, è vero! Io ho amato molto e il tanto amore ha portato i suoi frutti. E allora? Ne sono fiera e soddisfatta! E voglio che le mie sacerdotesse trovino altrettanta soddisfazione nell'amore. Ci siamo capite?
- Questo lo sapevo da un pezzo. Puttana tu e puttane le tue sacerdotesse. Ma è un comportamento deve finire!
Afrodite cerca di essere comprensiva, si rabbonisce un po':
- Io, Artemide, non riesco proprio a capirti. Mi vuoi spiegare una buona volta che cosa c'è dentro quella tua testaccia, da farti vedere sporca la cosa più bella della vita? Mi vuoi dire perché ce l'hai tanto contro il tuo corpo, da sacrificarlo in questo modo e da tenerlo così gelosamente nascosto? Tu che, per essere stata vista nuda dal cacciatore Atteone mentre facevi il bagno, l'hai punito atrocemente, trasformandolo in cervo per essere sbranato dai suoi stessi cani. Insomma, quale mistero si nasconde sotto questi vestiti? E fammelo vedere com'è fatto questo tuo corpo!
Nel dire così, le strappa all'improvviso il vestito di dosso. Artemide, che non se l'aspettava, dopo un attimo di sgomento, s'indigna, strepita come terrorizzata e, coprendosi con le mani per quanto può, urla:
- Maledetta, ridammi il mio vestito! Maledetta! Te ne pentirai.
Afrodite invece sorride bonaria:
- In fondo hai un bel corpicino. Lo sai che non è niente male?
L'altra, sempre più sgomenta per la vergogna, tenta di riprenderselo in tutti i modi:
- Ridammelo, maledetta! Ridammelo!
- No! Nuda devi restare! Devi abituarti ad ammirarlo e ad amarlo questo tuo corpo.
Allunga il braccio e getta il vestito dalla finestra, mentre Artemide, coprendosi alla meglio le sue parti intime, fugge via gridando:
- Maledetta, maledetta! Me la pagherai!

Un'altra notte ancora.
Leandro sta attraversando lo spazio tra la scalinata e il portico per entrare da Ero.
Viene intravisto e seguito, prima con sospetto, poi con curiosità, da un giovane eunuco che presta i suoi servizi al tempio. Costui nota molto bene che entra in una cameretta e s'accorge, sia pure con la poca luce, che una sacerdotessa lo accoglie in abbigliamento discinto. Allora si avvicina guardingo alla porta e osserva: "Sì, questa è proprio la camera di Ero e quel simpatico giovane è entrato qui."
Punta l'orecchio e rimane a lungo in ascolto.


Diana Artemide va a raccontare la sua umiliazione al sommo dio.
- Padre Giove, la dea Afrodite mi ha profondamente offesa!
Il vecchio dio, lisciandosi la lunga barba bianca, l'accoglie con serenità:
- Che ti ha fatto mai, figlia mia?
- Anzitutto ha permesso che due delle sue sacerdotesse si unissero in modo carnale con un giovane mortale, poi mi ha spogliata tutta nuda. Che vergogna, padre Giove! Che vergogna!
- Quali novità mi fai sentire, figlia mia! Afrodite che è stata l'amante di tanti dèi e di tanti uomini, ora si mette pure con una donna? No, non ci posso credere!
- Ma non in quel senso, padre Giove! Lo ha fatto per disprezzo, per rendermi ridicola, per oltraggiarmi.
- Figlia mia, tu sei sempre così vestita. Non ti spogli mai. È bene che qualcuno lo faccia al tuo posto, no? Dai retta a me! Spogliati qualche volta e ti sentirai meglio.
- Io però, padre Giove, sono profondamente offesa. Devi punirla! E non devi permettere che lasci prostituire le sue sacerdotesse.
- Lo farò, lo farò, figlia mia. Anche se con le sue sacerdotesse è libera di fare quello che vuole. Ma appena ho un attimo di tempo, lo farò. Te lo prometto! E tu promettimi di spogliarti ogni tanto.
Artemide s'allontana per i corridoi dell'Olimpo irritata: "Spogliarmi! Lui è peggio di quella troia. Però dovevo aspettarmelo! Ha collezionato più amanti quello lì che tutti gli dèi messi insieme: zie, sorelle, cugine, figlie, nipoti, donne mortali.....Non si sa quante ne ha avute. Almeno una trentina, se non di più. Credevo che facesse qualcosa per una figlia, invece non gliene frega proprio niente. Dovrò arrangiarmi da sola. Ma ci riuscirò e come ci riuscirò a punire quelle due puttanelle. A costo di giocarmi quello che non vorrei mai.

L'eunuco bussa alla porta della cameretta di Ero.
- Sei tu, Ermogene? Entra! Che cosa vuoi?
- Devo raccontarti una bella storia, Ero.
- Sentiamo. Raccontamela!
- Una sera, anzi ieri sera, un bel giovane è entrato nella camera di una sacerdotessa.
- Puoi fermarti qui, Ermogene. Il resto te lo racconto io. Quel giovane che ieri sera è entrato qui di nascosto è mio fratello. È venuto a dirmi che nostra madre sta molto male. Infatti questa notte ho pianto sempre. Non vedi che ho ancora gli occhi tutti rossi?
- Sai, Ero, non sapevo che quando una ragazza piange, afflitta per la madre malata, fa: "Dai, amore, ancora, ancora, ti prego!" È così che piangi tu?
- Insomma, eunuco, che cosa vai cercando? Vuoi essere pagato per il tuo silenzio? Dimmi quanto vuoi e facciamola finita!
- Sì, Ero! Voglio essere pagato. Ma in natura!
Ero si fa una lunga risata:
- Vuoi fare all'amore con me, tu, eunuco?
Ermogene è serio.
- No con te. Con lui!
Questa volta è sbigottita.
- Con lui?! Che cosa stai dicendo, Ermogene? Non ti vergogni?
- Mi vergognerò pure, ma le cose stanno come ti ho detto.
- E se lui non fosse disposto?
- Spiffero tutto alla sacerdotessa anziana e sai bene quello che ti succede.
- Mi fai schifo, eunuco!
- Ti farò anche schifo, ma questi sono i patti. Tu sai dov'è la mia camera. Se questa sera non viene da me, domani mattina vado immediatamente dalla sacerdotessa anziana.
- Ci proverò, Ermogene, ma mi fai schifo lo stesso!


Leandro sta per toccare con la sua barca la spiaggetta davanti alla scalinata. È tutto allegro: "Questa notte, un'altra notte d'amore. Ogni notte una fantastica notte d'amore. E se non basta una, ci sono tutte le altre."
Ha salito la scalinata.
Passa sotto il portico e s'avvia deciso verso la porticina. Picchia i soliti colpi, la porticina si apre, entra e trova Ero in lacrime. Le stringe le mani preoccupato:
- Amore mio, che cosa è successo?
- Una cosa terribile, Leandro. Una cosa terribile!
- Siamo stati scoperti?
- In un certo senso.
- Che cosa significa: in un certo senso? Mi ha visto un'altra sacerdotessa? Non è un problema. Lo sai che per te, per il nostro amore, sono pronto a sacrificarmi.
- Sono contenta, Leandro, che parli così!
Gongola dentro di sé.
- Allora chi è? In quale camera dorme? Ci vado subito e ci togliamo il pensiero.
Ero ha qualche dubbio:
- Solo che....
- Solo che?
- Non è proprio una sacerdotessa.
- Come, non è proprio una sacerdotessa? Allora chi è?
Ero gli si butta addosso più lacrimosa che mai:
- Ti prego, Leandro, fallo per me, fallo per il nostro amore! Altrimenti fa la spia e siamo perduti.
- Ho capito. Ma chi?
- Lui!
- Come, lui? Che significa?
- Sì, Leandro. È un eunuco. Gli piacciono gli uomini.
- Eh, no, eh! Questo, Ero, non me lo puoi chiedere. Con un uomo, no!
Le lacrime e i singhiozzi si accentuano.
- Però con una donna ci saresti andato! Allora non è vero che mi ami?
- Che c'entra questo discorso? Io sono una persona normale.
Lo stringe forte forte, lo bacia, lo lava con le sue lacrime.
- Ti prego, Leandro, vacci! Una volta sola. Fagli qualcosa, giusto per accontentarlo. Pensa a me, quando lo fai. Lo capisci che se non vai, siamo perduti? Che per me è la fine e forse anche per te? E questo non lo voglio. Non lo vorrò mai. Ti amo troppo, Leandro!
- Va bene, Ero! Va bene! Ci andrò!

L'eunuco sculetta qua e là per la sua camera, agghindandosi meglio che può.
Colpetti alla porta. Apre e fa entrare Leandro, spalancandogli il più seducente dei suoi sorrisi.
- Bel fustone, sapevo che saresti venuto.
- E, secondo te, perché sono venuto?
- Per trascorrere una meravigliosa notte d'amore. Per che cos'altro, altrimenti, sciocchino?
Col volto alterato, lo afferra per il pettorale e lo sbatte contro la parete.
- No! Sono venuto qui per strozzarti. Ricordati, culattone fallito, che se ti azzardi poco poco a fare la spia e succede qualcosa ad Ero, io ritorno qui e ti faccio a pezzetti, ma a pezzetti talmente piccoli, da non sapere a quale parte del corpo appartengano. Poi li butto giù dalle rocce da far mangiare ai pesci. È chiaro? Io sono un romano e tu sai bene che noi romani non scherziamo. Ci siamo capiti?
L'eunuco è spaventato:
- Lasciami, cattivone! Mi fai male!
Leandro allenta la stretta:
- Sì, ti lascio, ma fai bene attenzione!
Ermogene si lamenta:
- Ecco, tutti così! Non mi vuole nessuno! Perché non devo avere un po' di amore anch'io?
Leandro capisce di avere esagerato:
- Stammi a sentire, giovanotto. Io mi rendo conto che anche tu hai il diritto di amare e di essere amato. Ma devi scegliere la persona giusta. Io, purtroppo, non sono quella persona. Io amo solo ed esclusivamente le donne. Tu sai quante giovani sacerdotesse ci sono qui dentro? Ebbene, me le farei tutte. Ma con un uomo, no. Che ci posso fare? Allora non lo puoi pretendere con un simile ricatto. Mi sono spiegato?
- Sì, sì, ti sei spiegato, giovane romano.
- Vuoi soldi? Vuoi che ti porti con me ad Abido? Lì, quello giusto lo trovi. Ce ne sono tanti! Con me no. Non lo puoi e non lo devi pretendere.
- Non voglio soldi, giovane romano. Se ad Abido mi presenti qualcuno, mi farebbe molto piacere.
- D'accordo! Appena possibile ti porto con me ad Abido. Però sia chiaro che......
- Lo giuro per Afrodite. Non dirò niente. È come se non ti avessi mai visto.
- Io non giuro per nessuno, ma le mie promesse le mantengo, quali esse siano.


Bottega da fabbro di Vulcano.
Il dio deforme, come al solito, sta modellando armi: martella sull'incudine una spada arroventata dalla fucina, che schizza scintille da tutte le parti.
Arriva Diana Artemide.
- Dio Vulcano, sempre al lavoro? Sei sempre affaccendato nella tua officina?
- Dea cacciatrice, come mai da queste parti?
- Passavo di qui, allora mi son detta: "È da tanto tempo che non lo vedo. Voglio portare i miei saluti al dio Vulcano."
- Ti ringrazio, dea cacciatrice! E poi, perché sei venuta a trovarmi?
- Sì, è vero, dio Vulcano. C'è anche un altro motivo.
- E allora dimmelo!
- Ecco, dio Vulcano. Alcune sacerdotesse hanno offeso tua moglie e devi punirle.
- Meno male che qualcuno ci ha pensato. Che le hanno fatto?
- Si sono lasciate sedurre da un giovane mortale. Anzi, e qui l'offesa è ancor più grave, sono state loro che hanno sedotto il giovane.
- Ti meravigli per questo? Mignotta lei, mignotte le sue sacerdotesse.
- Devi punirle, dio Vulcano. Le devi punire!
- Punirle? Io gli darei un premio! Va' pure, dea Artemide, va' a caccia per boschi e vallate con le tue Ninfe e non ti occupare di certi problemi che non ti riguardano.
- Sicché non intervieni in difesa di tua moglie?
- In difesa di quella puttana? Me ne guarderei bene! Infatti sono poche le figure di cornuto che mi ha fatto fare.
- Ma è sempre tua moglie, dio Vulcano.
- È sempre una gran mignotta, dea Artemide.
- Mi fai pena, dio Vulcano!
- E tu mi fai perdere tempo, dea Artemide!
Vulcano si rimette a martellare, senza più curarsi di lei, che se ne va indispettita e scontrosa come al solito.


Capitolo nono



Spiaggia di Abido. È notte e la luna splende nel cielo.
Gli amici di Leandro cercano di smaltire la sbornia. Camminano abbracciati, cantando a squarciagola. Turibio s'interrompe e fa sentire la sua sentenza da ubriaco:
- Con tutte le brocche di vino che ho scolato, qui dentro mi sento un fuoco come se ci fosse una fornace accesa.
Policarpo, ubriaco anche lui:
- Io brucio tutto dalla testa ai piedi. Che dite, amici, andiamo a sederci in mezzo all'acqua?
Interviene Ippolito non meno brillo degli altri due:
- Ma che cosa dice questo qui? Non sai che l'acqua è bagnata? E se ti bagni il culo, poi dicono che ti sei pisciato addosso.
Turibio si fa una risata scema:
- Perché, tu pisci col culo?
E Ippolito di rincalzo:
- Mi sembri proprio ubriaco! Se sei bagnato, significa che ti sei pisciato addosso, no? Perché, se ti cachi sotto, puzzi. Tu puzzi? No! Allora ti sei pisciato addosso.
Policarpo allora:
- Ma che razza di stronzate stai dicendo, Ippolito? Andiamo sì o no a bagnarci il culo?
E Turibio:
- Sì, tutti dentro! E chi si rifiuta lo prendo a calci.
Ippolito di nuovo:
- Chi prendi a calci tu, che non ti reggi in piedi? Se alzi una gamba, caschiamo per terra tutti e tre.
Vanno a sedersi tra l'acqua e riprendono a sbraitare la canzone interrotta.

Proprio in quel momento Leandro, lasciata la riva opposta, sta ritornando con la sua barca. Man mano che si avvicina, sempre più stupito, soprattutto dalle loro voci, riconosce in quei tre fagotti neri tra le onde, i suoi amici: "Sono ubriachi fradici! Se continuano a star lì, gli viene un colpo a tutti e tre."
Ippolito è il primo a notarlo:
- Ecco Leandro! Lui però il culo non se lo bagna.
E Policarpo:
- Che ne sai, tu?
Ma Turibio:
- Allora sei scemo! Non lo vedi che è seduto nella barca?
Leandro si avvicina:
- Andiamo a casa, ragazzi! Vi fa male a sta lì. Andiamo.
Policarpo, senza muoversi:
- Noi vogliamo stare con il culo al fresco.
Turibio con voce lamentosa:
- Vieni anche tu, Leandro. Sta' un po' con noi! Ci lasci sempre soli.
Leandro li consola:
- Domani staremo ancora insieme, ragazzi. Adesso andiamo.
Lega la barca ad un palo e scende con i piedi nell'acqua:
- Andiamo, dai, vi accompagno a casa.
Li aiuta a tirarsi su e Policarpo, sforzandosi di alzarsi:
- Sì, andiamo. Quest'acqua è troppo bagnata.
Ippolito, sorreggendosi a lui:
- Tu sei molto buono, Leandro!
Anche Turibio prova a sollevarsi:
- Sì, sei molto buono, ma ci hai lasciati soli.
Poi riflette sulla situazione del momento:
- Mi sento pesante d'acqua. Voi non ci crederete, ma mi sento pesante.
Leandro cerca di tirarli fuori:
- Siete tutti e tre bagnati zuppi. Andiamo a casa e cambiatevi subito. Lo capite che se restate tutti bagnati con quest'aria fredda, vi prendete un malanno?
E Turibio:
- Però anche a te, Leandro, fa male andare in barca di notte. Lo sai che ti fa male?
- Sì, sì, lo so! È stata una combinazione. Andiamo!
Tarda mattinata.
Leandro è davanti all'emporio e sta sistemando della merce. Arrivano i tre amici.
Turibio lo saluta :
- Ave, Leandro!
- Salve, ragazzi! Allora è passata la sbronza? Tutto a posto? Non è che state male, no?
Risponde Policarpo:
- Tutto a posto, Leandro. Tutto a posto!
Continua Ippolito:
- Stiamo benissimo e siamo venuti a ringraziarti di quello che hai fatto per noi.
- Ma vi pare! Chi non avrebbe dato una mano ai propri amici?
E Turibio:
- Per dimostrarti la nostra riconoscenza, abbiamo pensato di dare una festa in tuo onore.
- Eh, ragazzi! Non merito tanto per così poco. Che tipo di festa?
Policarpo spiega:
- Una festa con un sacco di amici e di amiche. Si mangia, si beve, si balla e ci si diverte.
Ippolito chiede:
- Spero che non ti rifiuterai di venire?
- Come posso rifiutarmi, se è in mio onore? E quando questa festa?
Risponde Policarpo:
- Oggi pomeriggio.
Leandro precisa:
- In serata però devo essere qui. Mio padre adesso mi tiene un po' legato.
Turibio lo tranquillizza:
- Ma certo che in serata sarai qui! Saremo tutti a casa in serata. Per questo non ci sono problemi.
Leandro è curioso:
- Dove, questa festa?
E Policarpo:
- Eh! Dev'essere una sorpresa.
Poi Turibio:
- Altrimenti non c'è gusto. Tu raggiungici a casa mia con il cavallo, poi andremo insieme.
Ippolito suggerisce:
- Non dire niente a tuo padre, altrimenti è capace di non mandarti.

I quattro galoppano in aperta campagna. Ad un certo punto Leandro chiede:
- Ma dov'è questo posto?
Risponde Turibio:
- Non ti preoccupare! Manca poco.
- Perché così fuori mano?
Policarpo lo tranquillizza:
- Stiamo più in pace, no? Così nessuno ci darà fastidio.
Leandro guarda avanti e dietro lungo il sentiero:
- E gli altri dove sono? Come mai non si vede nessuno?
Ippolito spiega:
- Vengono più tardi. Intanto finiamo di preparare.
Turibio domanda:
- Gliel'hai detto a tuo padre?
- Scherzate! Non s'è neanche accorto che sono uscito. Purché ritorni a casa prima di notte.

Arrivano in un casolare abbandonato.
Policarpo propone:
- Intanto mettiamo dentro i nostri cavalli.
Ma Leandro:
- E gli altri dove li mettono?
Turibio pronto:
- Gli altri s'arrangeranno. Pensiamo ai nostri.
- Però avete scelto un posto isolato e squallido.
Policarpo:
- Te l'ho detto. Per stare più in pace.
Turibio aggiunge:
- Di fuori sembra squallido, ma dentro è un'altra cosa.
Salgono la scala esterna che conduce al piano di sopra. Turibio apre la porta con una chiave:
- Entra prima tu che sei il festeggiato.
Entrano e Turibio richiude con la chiave, che subito toglie.
Leandro nota il disordine:
- Dove sono i preparativi per la festa? Ho capito: mi avete fatto uno scherzo.
Turibio ora ha lo sguardo duro. Gli indica uno sgabello:
- Sì, è uno scherzo. Siediti!
- Ragazzi, mi volete spiegare questa storia?
Policarpo ripete:
- Siediti!
Leandro, dubbioso, si siede e Ippolito:
- Adesso te la spiega lui.
Turibio comincia, mantenendo il suo sguardo duro:
- È da un mese, Leandro, che ci stai prendendo per i fondelli.
- Cioè?
- Prima eravamo amici, stavamo sempre insieme, ci dicevamo tutto, ci confidavamo ogni segreto. Ciò che faceva uno, lo sapevano anche gli altri...
Continua Policarpo:
- Poi, un bel giorno, ti sei trovata una ragazza misteriosa. E da allora ti sei allontanato da noi, hai continuato a negare, a prenderci in giro, insomma.
Riprende Turibio:
- E noi non siamo disposti a farci prendere in giro da te.
Leandro reagisce:
- Scusate, ragazzi! Io gli scherzi li accetto, ma non si deve esagerare. Prima di tutto non ho nessuna ragazza misteriosa. Poi, scusate, eh! Quand'anche fosse, sono affari miei! Non vi pare? Comunque non ho nessuna ragazza misteriosa.
Turibio lo fissa :
- Guarda, amico, che questa notte eravamo ubriachi, ma non scemi. Ti abbiamo visto benissimo che sei rientrato con la barca.
Ippolito:
- E questo significa che la tua donna misteriosa sta al di là dello stretto.
Policarpo si fa vicino, arrogante:
- Allora chi è? Forse una ricca signora di Sesto? Te la fai con qualche ricca matrona romana o con qualcuna delle sue figlie? Se è merce buona, vogliamo farne parte anche noi.
Turibio ha un atteggiamento poco tranquillizzante:
- Ti conviene dircelo, Leandro, altrimenti...
Comincia a sentirsi preoccupato:
- Altrimenti?
Continua Turibio:
- Altrimenti resti qui finché non ce lo dici.
Cerca di controbattere:
- Insomma, si può sapere che cosa vi siete messi in testa? Adesso perché uno esce di notte con la barca per controllare se nelle nasse ci sono le seppie, deve avere per forza una ragazza nell'altra parte dello stretto.
Ma Turibio:
- Sappiamo benissimo che non hai nasse e non vai a pesca di seppie. E poi nel pieno della notte? A chi vuoi darla ad intendere? Quindi devi dirci chi è, perché noi vogliamo farne parte.
Policarpo fa finta di essere più conciliante:
- Siamo amici, no? Quello che è di uno, è di tutti.
Anche Ippolito:
- È da questo che si riconoscono gli amici.
Turibio invece alterato:
- Allora, per l'ultima volta: chi è?
Questa volta Leandro perde la pazienza sul serio e si alza in piedi di scatto:
- Ragazzi, mi avete stufato! Aprite quella porta e lasciatemi andare, perché altrimenti io...
Si fanno indietro tutti e tre e sfilano i pugnali da sotto la toga.
È sempre Turibio, serio e minaccioso:
- Perché altrimenti, tu...?
- Ah! Siete pure armati! Allora fate sul serio?
Policarpo duro anche lui:
- Facciamo sul serio! Allora chi è?
Si risiede costernato e spaventato:
- Come ve lo devo dire che non c'è nessuna ragazza?
Turibio sarcastico, verso gli amici:
- Che cosa dite? Glielo facciamo adesso un forellino nella pancia?
Ma Ippolito:
- Ora no! Diamogli il tempo di riflettere. Può darsi che domani sia disposto a dircelo.
- Domani! Ma siete impazziti? Vi ho detto che questa sera ho da fare con mio padre nell'emporio.
Ribatte Policarpo:
- No! Tu questa sera devi andare dalla tua donna. Ma non ci andrai. E non ci andrai più da solo. Sappilo fin da ora!
Conclude Turibio:
- Nell'altra stanza troverai pane, una brocca d'acqua ed anche un mucchio di paglia per dormire. Pensaci, Leandro, perché noi non scherziamo.
Escono e chiudono la porta a chiave. Leandro, maledicendoli in cuor suo, aspetta che lo zoccolìo dei cavalli si sia allontanato, poi si alza, si guarda intorno e studia qualche tentativo per potersi liberare. Non può rimanere lì dentro. Ha promesso ad Ero che sarebbe andato da lei. Prova a forzare la porta e la finestra, ma senza risultati. La porta è molto robusta e la finestra è stata fissata con grossi chiodi. Dà un'occhiata nell'altra stanza, ma la situazione è la medesima. Cerca in giro un pezzo di ferro, un legno, un qualsiasi arnese che gli sia di aiuto, ma non trova nulla. Allora esplode pieno di rancore: "Disgraziati! Avete pensato a tutto!" Non gli resta che sedersi di nuovo con mille pensieri che gli roteano nella testa.



Capitolo decimo

Ero è in ansia per la lunga assenza di Leandro.
Socchiude la porta della sua camera e chiama l'eunuco, mentre fa le pulizie nelle altre stanze:
- Ermogene, vieni un po' qua.
- Che cosa vuoi, Ero?
Mentre si avvicina:
- Come mai la mia camera è tutta sporca?
- Se l'ho appena pulita.
- Pulita, dici? Vieni a vedere.
Ermogene tra sé: "O sono scemo io, oppure è scema lei stamattina!"
Entra e la guarda:
- Allora dove sarebbe questo sporco?
- Era una scusa per farti venire, Ermogene. Siediti, ti devo parlare.
- Volevo ben dire! Che cosa vuoi?
- Mi devi fare un grande favore, Ermogene. Devi andare ad Abido.
- Ad Abido?! A fare che cosa?
- A chiedere notizie di Leandro. Non viene da quattro notti e sono preoccupata.
- Affari vostri, Ero. Non m'interessa!
- Ti prego, Ermogene, sii buono! Cerca di capire la mia situazione.
- Perché, voi avete capito la mia? Tu mi hai trattato male e lui peggio.
- Però ti ha promesso di portarti ad Abido e farti trovare quello che cerchi.
- Ma non ha mantenuto la promessa.
- Ermogene, cerca di capire! La persona che ti interessa, non si trova mica così... Deve guardarsi in giro, sentire, adocchiare il tipo adatto proprio per te. Non ti può mica presentare il primo che capita! Tu non ci crederai, ma una delle ultime volte che è venuto, me lo diceva: "In questi giorni farò contento Ermogene. Lo porto con me ad Abido, perché sto conoscendo una personcina che sembra fatta per lui". Poi purtroppo non è più venuto.
- Dici davvero, Ero?
- Certo che dico davvero. Vedi bene che non ha dimenticato la sua promessa. Ma se non mi aiuti a sapere dov'è...
- Si capisce che ti aiuto! Dimmi che cosa devo fare.
- Grazie, Ermogene! Te ne sarò grata per sempre. Allora, appena hai attraversato lo stretto, cerca l'emporio del mercante romano. Ti sarà facile rintracciarlo. E quando sei lì, con molta discrezione, chiedi notizie di Leandro.


Diana Artemide, per riuscire a portare a compimento la sua vendetta, decide di tentare anche con il dio Marte, uno dei numerosi amanti di Afrodite.
Lo trova che sta indossando la sua poderosa armatura.
- Dio Ares, sei veramente splendido con questa magnifica corazza! Dal tuo portamento sprizza una forza invincibile, che uomo mortale non potrà mai eguagliare.
Il dio della guerra capisce subito l'antifona:
- Questi tuoi complimenti, dea Artemide, mirano a qualcosa. Che vuoi da me?
- Ebbene sì, dio Marte! Però non a me, ma è ad Afrodite che devi fare un favore.
- Perché non me l'ha chiesto lei stessa?
- Forse non ha osato, pensando che le serbi rancore per averti tradito con il mortale Adone.
- È vero, le serbo rancore. Dunque che cosa vuole da me costei?
- Dio Marte, se ti è ancora caro il ricordo del tuo focoso amore per lei, se ti sono ancora cari i cinque figli che ha avuto con te, devi punire coloro che l'hanno offesa.
- Chi ha osato tanto, vergine dea? Saranno trafitti da questa mia spada.
Artemide gongola dentro di sé. Ha trovato chi punirà le due puttanelle e di riflesso Afrodite stessa.
- Due sacerdotesse del tempio di Sesto, dio Marte, l'hanno profondamente offesa.
Il dio Ares eplode:
- Maledetto il giorno in cui sono nate! Quali colpe hanno commesso contro Afrodite? Dimmelo, dea cacciatrice, ed io le colpirò con tale violenza, da non avere il tempo per rimpiangere la propria colpa.
Artemide è sicura di avere raggiunto lo scopo.
- Ecco la loro grande colpa, dio Marte: hanno sedotto e si sono lasciate possedere da un giovane mortale.
Ares, fa un passo indietro e la fissa:
- Vergine dea, l'offesa dov'è?
Rimane un attimo sconcertata, poi riparte:
- Mi domandi dov'è l'offesa, dio Marte? Hanno violato con un uomo la loro verginità offerta ad Afrodite e tu mi domandi dov'è l'offesa?
- Fammi capire, vergine dea. La punizione delle due sacerdotesse interessa Afrodite o sta a cuore a te che non concepisci e non ammetti il rapporto sessuale?
- Insomma, dio Mare! Chi interessa, interessa! Hanno offeso la dea e devono essere punite.
Il dio Ares comincia a togliersi l'armatura con noncuranza.
- Ho capito, vergine dea. Non sopporti che due sacerdotesse perdano quello che tu hai paura di perdere. Mi slacci qui dietro, per favore? Sai che cosa penso, vergine dea?
- Che cosa pensi, dio Marte?
Intanto continua a spogliarsi:
- Penso che, affinché tu possa comprendere la grandiosità di quell'invincibile desiderio che spinge irresistibilmente dèi ed esseri umani ad unirsi, a possedersi, maschio e femmina, devi conoscere il piacere e non la paura di tale atto sublime.
- Che razza di discorso stai facendo, dio Marte?
Non le risponde. Ha finito di togliersi l'armatura. Le si avvicina e all'improvviso l'afferra e la stringe a sé:
- Devi provarlo anche tu questo piacere. Adesso, con me.
La dea Artemide, colta di sorpresa, si divincola violentemente, sferrando calci e pugni.
- Lasciami, dio Marte! Lasciami! Non te lo permetto! Non lo permetterò mai, a nessuno!
Marte, di fronte a lei, massiccio e muscoloso, sembra un gigante. I pugni e i calci della dea non lo scuotono minimamente. Comincia a spogliarla:
- Sì, che me lo permetti, vergine dea, e vedrai quanto sarà bello!
- Lasciami! Non voglio! Lasciami!
Divincolandosi con tutte le sue forze, sguscia nuda dalle mani del gigante e fugge via, coprendosi con le mani.
- Ma perché scappi?
Vergognosa e rossa di rabbia, gli grida addosso:
- Che tu sia maledetto, dio Marte! E sia maledetta la dea Afrodite!
Non tenta neanche di rincorrerla:
- Vieni qui, vergine dea! Vedrai che tutto sarà più facile. Capirai molte cose.
Lei da lontano grida ancora:
- Maledetto! Maledetto!
Quasi parlando a se stesso:
- Ma sì, tienitela stretta la tua verginità! È un capitale da tener da conto.

I tre "amici" di Leandro tengono consiglio in un luogo solitario, una strada tra i campi, chi seduto per terra, chi con la schiena appoggiata ad un tronco.
È Policarpo a chiedere:
- Che dite, pagherà?
E Turibio:
- Paga, paga! Se vuole rivederlo vivo, paga.
Poi Ippolito:
- È stata un'idea davvero geniale!
Ancora Turibio:
- Visto che non ha voluto rivelarci il nome dell'amante e dato che ormai è nelle nostre mani, tanto vale usarlo come ostaggio per spillare denaro a suo padre.
Policarpo conferma:
- Quel mercante romano è così pieno di soldi...
Ippolito continua:
- E se ne dà un po' a noi, non gli reca gran danno.
Policarpo si pone il problema:
- Però qui, ragazzi, le cose sono due. Una volta avuto il riscatto dal padre: o lo facciamo fuori davvero o dobbiamo fuggire noi.
Ippolito aggiunge:
- Io non ci tengo affatto a farmi saltare la testa con un colpo di spada.
Ma Turibio:
- Adesso pensiamo ad avere i denari. Per il resto decideremo poi.
Policarpo suggerisce:
- Ma perché non cadano i sospetti su di noi, forse ci conviene andare dal padre, fare la faccia triste e chiedere notizie di Leandro.
Ippolito non se la sente, ma gli altri lo minacciano e Turibio conclude:
- Si va tutti e tre e guai a chi si tradisce!

L'eunuco ha raggiunto con la sua barchetta la spiaggia di Abido.
Si guarda attorno e s'avvia per una stradina.

All'interno dell'emporio i tre amici, con le facce addolorate, stanno parlando con il padre di Leandro. Turibio esprime il suo disappunto:
- Siamo sconvolti dalla notizia. Siamo veramente sconvolti! Non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere.
Ippolito chiede sconsolato:
- Chi può averlo rapito?
- Purtroppo, ragazzi, non lo so. Da un po' di tempo a questa parte si nota in giro un sacco di gentaccia. Proprio non lo so.
Policarpo premuroso:
- Ti hanno chiesto molti soldi?
- Sì, molti.
E Turibio:
- Pagherai?
- Volete che non paghi? Anche se ho paura che poi non lo rivedrò lo stesso.
Policarpo, più afflitto di tutti:
- Noi siamo veramente distrutti! Se possiamo fare qualcosa per Leandro...
Ippolito, imitandolo:
- Era....è il nostro migliore amico.
- Io vi ringrazio, ragazzi, ma temo che non possiate fare proprio niente.
In quel momento entra nell'emporio Ermogene.
S'avvicina al gruppo e si rivolge all'uomo:
- Ave! Chiedo scusa! Io sto cercando un giovane di nome Leandro. È tuo figlio?
Gli risponde con espressione triste:
- Sì, è mio figlio. Almeno spero che... lo sia ancora.
- Ma, è successo qualcosa?
Risponde Ippolito:
- È stato rapito.
- È stato rapito?!
Il padre conferma:
- Purtroppo sì!
- E da chi è stato rapito?
Questa volta risponde Turibio:
- È quello che vorremmo sapere anche noi.
Sono usciti dall'emporio.
Camminano a testa bassa: i tre avanti, l'eunuco dietro. Ad un certo punto Turibio si volta:
- Senti un po', finocchietto! Perché stai cercando Leandro?
Ermogene fissa Turibio, poi gli altri due:
- Perché...perché è il mio amante e sono quattro notti che non viene a trovarmi.
Turibio esplode in una lunga risata:
- Leandro è il tuo amante?! Ah, ah, ah, ah!
E Policarpo:
- Abbiamo finalmente scoperto l'amore misterioso di Leandro. Ah, ah, ah!
Poi Ippolito:
- Sarà contento Leandro di sapere che abbiamo conosciuto il suo amante. Ah, ah, ah, ah!
L'eunuco li osserva senza aggiungere altro.
I tre, non curandosi più di lui, saltano a cavallo e partono al galoppo.
Ermogene li segue con lo sguardo. S'allontanano, continuando a ridere a più non posso.

E continuano a ridere anche di fronte a Leandro, loro prigioniero.
Comincia Policarpo:
- Ah, ah, ah! Finalmente, Leandro, abbiamo scoperto il tuo amore segreto.
Leandro, a tale rivelazione, è preoccupato:
- Ma che cosa state dicendo?
Turibio, ridendo anche lui:
- Sì, sì! Abbiamo conosciuto il tuo grande amore.
Tenta di mostrarsi indifferente, abbozzando un sorriso:
- Mi volete spiegare! Chi avete conosciuto?
Ippolito interpreta a suo modo il disagio di Leandro.
- C'è rimasto male. Guardate! C'è rimasto male. Simpatico però il finocchietto! Molto simpatico.
Intuisce e si tranquillizza. Intuisce che Ero ha mandato Ermogene a cercarlo.
- Finocchietto?! Ma che cosa significa?
Policarpo spiega:
- Sì! Piccolino, carino, sculettante. Molto simpatico!
- Mi fate capire! Questo tizio di cui parlate, chi è? Dove l'avete visto?
Risponde Ippolito:
- È andato a chiedere notizie a tuo padre, così ha saputo che sei stato rapito.
- E adesso dov'è?
Policarpo fa dell'ironia:
- Che cosa vuoi che ne sappiamo noi? Sarà andato a trovarsi un altro amante. Ah, ah, ah, ah!
Turibio è categorico:
- A questo punto, Leandro, che tu ami una donna o che ami un uomo, non ce ne frega più niente. Ora c'interessano soltanto i soldi di tuo padre.
Policarpo lo informa:
- E ha detto che paga.
Leandro teme che quelli non scherzino per niente:
- Ma, dopo che mio padre avrà pagato, che cosa mi succederà?
Un attimo di silenzio in cui si nota il disagio, poi risponde Turibio:
- Sarà una sorpresa. Te lo diremo in seguito.
- Posso immaginarlo fin da ora con amici come voi.
Ancora Turibio:
- Avresti dovuto pensarci prima. Noi ora andiamo a prendere gli accordi per il riscatto. Ci rivedremo presto. Hai da mangiare e da bere in abbondanza.
Policarpo aggiunge:
- E anche da dormire comodo.
Ippolito conclude:
- Sogni felici, Leandro!



Capitolo undicesimo

I tre saltano a cavallo e partono al galoppo. Da dietro un cespuglio l'eunuco li osserva allontanarsi e quando ormai non si vedono più, corre verso il casolare, sale le scale e picchia alcuni colpi contro la porta:
- Leandro, Leandro, sei qui dentro?
Al prigioniero si allarga il cuore.
- Sì, Ermogene, sono qui. Bravo che sei venuto. Sapevo che Ero ti avrebbe mandato a cercarmi.
Ermogene da fuori:
- Adesso cerco di sfondare la porta.
- Fa' presto! Potrebbero tornare indietro. Quelli non scherzano.
- Faccio in un attimo.
Scende le scale di corsa e afferra una grossa pietra. Risale incerto con quel peso tra le mani e si dà a battere furiose pietrate contro la porta. Dai e dai, è ansante, ma non c'è niente da fare. Informa avvilito il prigioniero:
- Leandro, è troppo resistente. Non cede.
- Vedi se trovi un'asta di ferro, un palo, qualcosa. Va' a vedere giù sotto nella stalla.
Il povero Ermogene si dà da fare con tutte le sue energie. Scende di corsa nella stalla, torna su con un palo, picchia disperatamente, ma non c'è verso di sfondarla. Comunica di nuovo la sua delusione:
- Non ci riesco, non ci riesco!
Leandro da dentro suggerisce altri tentativi:
- Non ti scoraggiare, Ermogene! Stammi a sentire: c'è ancora il mio cavallo?
- Sì, un cavallo c'è. Non so se è il tuo.
- Benissimo, Ermogene! È il mio. Ascoltami bene. Ci deve essere una fune appesa alle travi. L'ho intravista l'altro giorno quando mi hanno portato qui. Lega un capo alla sella del cavallo. Ce l'ha ancora la sella?
- Sì, ce l'ha.
- Per fortuna non si sono preoccupati di levargliela. Allora: porta fuori il cavallo, lega un capo della corda alla sella, poi vedi se riesci a passarmi l'altro capo da sotto la porta. C'è un po' di vuoto, dovrebbe entrarci. E speriamo che a quegli idioti non venga in mente di tornare indietro in questo momento.
Leandro è in ansia, perché proprio di questo ha paura. Se li scoprissero durante il tentativo di fuga, lui ed Ermogene correrebbero un grosso rischio. Perciò segue con il batticuore, attraverso i rumori, i movimenti dell'eunuco che traffica con il cavallo.
- Allora, a che punto sei?
Ermogene in pochi minuti esegue quanto gli è stato suggerito e si ripresenta poco dopo in cima alle scale.
- Ecco, Leandro, ti passo un capo della corda.
- L'altro l'hai legato bene alla sella?
- Sì, tutto a posto.
Tira un po' la fune e arrotola un bel nodo alla maniglia di ferro, poi grida da dentro:
- Adesso fa' andare il cavallo lentamente. Molto lentamente, mi raccomando! Non a strattoni.
Ermogene con mano incerta fa avanzare il cavallo e grida a sua volta:
- Va bene così?
- Sì, sempre lentamente.
Spinge anche lui, quasi per aiutare il cavallo e segue con lo sguardo la porta che a poco a poco cede e la serratura si sgancia. Infine si presenta trionfante sul pianerottolo:
- Bravissimo, Ermogene! Sei stato un fenomeno.
- Sono contento per te, Leandro. Molto contento per te e per Ero.
Scende le scale e gli stringe calorosamente la mano.
- Siamo stati fortunati. Ora dobbiamo filare.
Slega la corda dalla sella e senza curarsi di raccoglierla, salta in sella, tira su Ermogene dietro di sé e parte a tutta velocità, tagliando per i campi, onde evitare di incontrarli.
Mentre galoppano, ormai più tranquillo, Leandro chiede curioso:
- Fammi capire, Ermogene. Mi dici come hai fatto a trovarmi?
- Semplice, Leandro. Già quando li ho visti all'emporio di tuo padre, le loro facce non mi sono piaciute per niente. Poi le loro risate sguaiate, le loro insinuazioni su di me e su di te e soprattutto una frase di uno di loro.
- Che frase?
- Questa: "Sarà contento Leandro di sapere che abbiamo conosciuto il suo amante?" Quel "di sapere" m'ha fatto intuire che eri nelle loro mani.
- Ma perché, tu che cosa gli hai detto?
- Ho detto che ti cercavo, perché eri il mio amante.
- Ah, è per questo che.....ah, ah, ah! E dopo?
- Dopo li ho seguiti di corsa.
- Non vorrai dirmi che corri come un cavallo?
- Io no, ma gli occhi sì che corrono come un cavallo. Così da una collina ho visto dove si sono fermati.
- Sei forte, Ermogene! Sei proprio forte! Lo sai che ti debbo la vita?
- Perché, quelli?.....
- Sì, sì, ne sono sicuro. Appena avuti i soldi da mio padre, mi avrebbero fatto fuori. Ma gli è andata male e se raggiungiamo l'emporio senza essere visti, siamo salvi.


Giungono all'emporio al galoppo. Il padre lo abbraccia con le lacrime agli occhi.
- Figlio mio! Finalmente! Ti credevo perduto! Ti hanno liberato o sei riuscito a fuggire?
- Sono riuscito a fuggire, padre mio. Mi ha aiutato lui.
- Ah! Era venuto a cercarti. Che gli dèi ti proteggano sempre! Chi è stato, figlio mio?
- Sono stati loro a rapirmi, padre. I cosiddetti amici.
- Loro? Com'è possibile? Proprio questa mattina erano qui, quand'è arrivato lui, a chiedere notizie di te. Ed erano così addolorati per il tuo rapimento!
Ermogene non può non esprimere il suo parere:
- Falsi! Io l'ho capito subito che erano facce sospette.
Il padre non riesce a darsi pace:
- Come potevo dubitare dei tuoi migliori amici? Erano sempre qui a cercarti per chiederti di uscire con loro.
- Devono essere impazziti, padre, ed ora potrebbero mettere a segno qualche vendetta.
- Non gliene daremo il tempo, figliolo.
Si rivolge ad un lavorante:
- Tu li conosci, vero?
- Sì, domine. Li conosco molto bene.
- Allora va' subito a denunciarli alla milizia.
Leandro gli offre il suo cavallo per arrivare più in fretta. Il lavorante salta in groppa e parte di corsa.
Quel pater familias romano, il padre burbero e severo in apparenza, è veramente felice:
- Ragazzi, sarete stanchi e affamati. Andiamo in casa, poi mi racconterete tutto.
Per Leandro è un'ottima idea e la sarebbe anche per Ermogene, ma lui deve assolvere un incarico ricevuto e sa che la persona che glielo ha commissionato è molto in pena:
- Ti ringrazio, domine, ma preferisco di no. Io, Leandro, corro da Ero a portarle buone notizie. È molto preoccupata.
Il padre chiede subito:
- Chi sarebbe questa Ero?
Leandro gli risponde con un sorriso:
- Ti spiego dopo, padre.
Quindi si rivolge ad Ermogene:
- Se vuoi partire subito, ti ringrazio. Dille che questa sera farò del tutto per andare da lei.
- Glielo dirò e ne sarà contenta!
Ermogene si avvia, ma Leandro richiama:
- Ermogene.
- Sì!
- Grazie ancora! Appena puoi, ritorna. Devo mantenere la promessa che ti ho fatto.
- Ne sarei felice, Leandro! Tornerò appena possibile.
Il padre circonda con un braccio le spalle del figlio ritrovato:
- Andiamo, figliolo! Sarai molto provato dalla prigionia di questi giorni.


Capitolo dodicesimo

Il lavorante galoppa veloce verso il presidio della milizia. I tre amici sono seduti davanti ad una bettola ed è Policarpo il primo a notarlo:
- Ragazzi, quello non è il cavallo di Leandro?
Turibio risponde senza alzare gli occhi:
- Ma che razza di stupidate stai dicendo? Il cavallo di Leandro è chiuso laggiù nella stalla.
Ippolito invece lo segue con lo sguardo.
- Quello che lo cavalca però, è un lavorante dell'emporio.
Policarpo insiste:
- Io vi dico che è il cavallo di Leandro.
Turibio taglia corto.
- Basta accertarsene. Forza, inseguiamolo!
Saltano sui loro cavalli e partono a tutta velocità nella direzione in cui si è diretto il lavorante. Non hanno percorso però che poche centinaia di passi quando, sbucando da una curva, rallentano la corsa, come per un presentimento. Il lavorante è fermo davanti al presidio militare e sta parlando con alcuni soldati. Non solo. Appena li scorge, indica verso di loro con il braccio teso. I tre si fermano per un istante e osservano. È Turibio il primo a parlare:
- Dev'essere successo qualcosa!
Policarpo a sua volta:
- Pare anche a me, ma non capisco come.
Intanto alcuni soldati, armati di arco e di frecce, montano sui cavalli e si dirigono al galoppo verso di loro. Ippolito esclama:
- Qui le cose si mettono male! Ci conviene filare.
Si voltano velocemente e si danno a precipitosa fuga, ma i soldati sono già alle calcagna. Ha inizio l'inseguimento. I tre spronano i cavalli, tentando di mettersi in salvo per sentieri scoscesi attraverso campi, boschi e sterpaglie, girandosi di tanto in tanto per vedere se sono riusciti a distanziarli. Niente da fare. Ce li hanno sempre dietro. Ad un certo punto alcuni soldati si aprono a ventaglio e, attraverso scoscendimenti, li superano, tagliando loro la strada. È durata poco la caccia. Senza rendersene conto si trovano circondati e su di essi sono puntate le frecce dei loro archi. Capiscono che la corsa è finita.


È il tardo pomeriggio di quello stesso giorno. Leandro è disteso sul letto con le mani sotto la testa. Nei suoi pensieri c'è il pericolo corso, l'inspiegabile comportamento degli amici e la preoccupazione di Ero, da mandarlo a cercare dall'eunuco.
Si alza dal letto ed esce sul pianerottolo protetto da una ringhiera, che dà sulla strada. Osserva verso lo stretto, il sole vicino al tramonto. Tra qualche ora sarà là. Il suo sguardo vaga in giro sempre con gli stessi pensieri nella mente. In lontananza si sta avvicinando a velocità sostenuta un carro tirato da cavalli. Il carro è chiuso intorno da alte sbarre. Dentro ci sono alcune persone. Man mano che si avvicina, le fissa attentamente e riconosce in esse i suoi amici. Vengono portati in prigione per essere processati. Quando il carro passa davanti al pianerottolo, i loro sguardi s'incrociano per un attimo, in silenzio. Ma quel silenzio è più loquace di mille parole. Il carro continua la sua corsa e si perde lontano, tra la polvere sollevata, messa in evidenza dai raggi del sole vicino al tramonto. Leandro pensa tra sé: " Siete stati proprio dei pazzi! Che cosa credevate di ottenere?"

Diana Artemide, volendo a tutti i costi vendicarsi della dea Afrodite, sta escogitando un nuovo tentativo. È chiusa in una sua stanza lassù nell'Olimpo, le cui pareti rappresentano paesaggi a lei cari: vallate, boschi, animali, scene di caccia. È infuriata più del solito ed esplode la sua rabbia per conto suo:
"Questa genia di maschi, dèi o mortali che siano, è la stessa razza di bastardi. Se vuoi ottenere qualcosa da loro, devi offrire in cambio quella cosa lì. Anche se provo ripugnanza al solo pensiero di un contatto fisico, mi vedrò costretta a sottopormi a questa tortura, pur di fargliela pagare a quella grande troia di Afrodite! E l'ultima carta che mi resta da giocare è il dio Poseidone. Brutto porco, anche lui! Come il padre Giove. Del resto sono fratelli e non possono essere che della stessa specie. Avrà collezionato anche lui, tra dee e donne mortali, una trentina di amanti e fatto mettere al mondo una schiera interminabile di figli. È così porco, che non si farà scrupolo di me, anche se sono sua nipote. Maschi schifosi! Pensano solo a quello".

Leandro e la giovane sacerdotessa sono abbracciati, stretti stretti, in piedi accanto al letto. Ero piange di gioia:
- Amore mio, temevo di non vederti mai più!
- Anch'io, luce dei miei occhi, ho avuto tanta paura. Rinchiuso in quella casa, da solo, non ho fatto altro che pensare a te.
- Ermogene mi ha raccontato tutto. Chissà quanto hai sofferto, amore caro!
- Sì, luce mia, ho sofferto! Ma ora è tutto finito. Tutto è finito e noi siamo ancora insieme.
- Sì, amore mio! È tutto, tutto finito e nessuno ci dividerà mai più. Mai più! Sapessi quanto ti amo!
- Anch'io ti amo tanto e ti amerò sempre!
Si abbracciano, si stringono, si baciano, poi le loro effusioni appassionate continuano distesi nel letto.

Artemide sta scendendo sul mare dall'Olimpo. È in posizione verticale, come se fosse trasportata da un'invisibile scala mobile. Allo stesso modo avviene la discesa verso gli abissi, perché l'acqua non oppone alcuna resistenza al suo corpo immateriale. Pesci di tutte le forme e di tutte le dimensioni le volteggiano intorno, quasi meravigliati di quello strano essere che sta attraversando il loro territorio. Poco dopo accorrono per salutarla Oceanine, Nereidi, Sirene e molti altri personaggi divini che popolano il mare. Finalmente raggiunge il palazzo sottomarino di Poseidone dove entra senza che venga schiusa nessuna porta. Il palazzo del dio del mare ha le pareti completamente trasparenti, attraverso le quali si vedono muoversi sinuosi gli animali acquatici e le divinità marine. La stessa mobilia del dio richiama motivi del mare: poltrone a forma di conchiglie, tavoli con le zampe che sembrano cavallucci marini, il letto che assomiglia al guscio di una conchiglia ovale.
Quando Artemide giunge da Poseidone, il dio si sta esercitando con la ginnastica nella sua palestra per tenersi in allenamento e gli stessi attrezzi richiamano motivi del mare. Poseidone ha una muscolatura massiccia, per cui di fronte a lui Artemide sembra una bambina. La dea, come lo vede, lo saluta senza essere troppo espansiva:
- Caro zio, come stai? Beato te che ha sempre voglia di tenerti in forma!
Il dio invece la stringe a sé, ma è così mingherlina che quasi sparisce tra le sue braccia.
- Piccola Artemide, come sono contento di vederti! Però sei sempre così seria e pensierosa. Perché non sorridi mai, nipotina mia?
- Forse perché non trovo nessuno capace di rendermi felice e quindi di farmi sorridere.
- Dolce e seria nipotina, il dio Poseidone che, dentro a questo corpo atletico e massiccio, nasconde un cuore tenero. E' sempre disposto a fare felice una donna, purché lei lo voglia, naturalmente.
- Io lo voglio, lo vorrei, zio Poseidone. Ma sono tanto triste, troppo triste e in questo momento molto più del solito.
- Devi essere felice invece, nipotina mia! Racconta allo zio Poseidone ciò che ti rattrista e risolveremo tutto.
Siedono su un divano fatto di conchiglie, ricoperto da un tappeto di alghe verdi. La dea Artemide, pur molto in ansia per il passo che è costretta a fare, sente che vale la pena di offrirsi in sacrificio pur di raggiungere il suo scopo.
- Allora che cosa c'è, nipotina mia!
- Sono tanto triste, zio Poseidone, per colpa di quella dea lì, di Afrodite.
- Afrodite?! Che cosa ti ha combinato quella cattivona?
Dà alla sua voce un tono sempre più mesto:
- Sapessi, zio Poseidone! Pensa quant'è malvagia! Io sono stata da lei per avvertirla che alcune sue sacerdotesse avevano sedotto un giovane mortale e lei, invece di punirle, se l'è presa con me, mi ha offesa, mi ha umiliata, mi ha insultata. Capisci, zio Poseidone? E io vorrei vendicarmi. Se è vero che vuoi farmi felice, mi devi aiutare.
- Io sarei disposto a fare tutto per te, piccola dea, ma non ho poteri contro Afrodite.
- Contro Afrodite no, ma contro le sacerdotesse, sì!
- Contro quelle lì che mi ci vuole? Ti scateno una tempesta e te le trascino in fondo agli abissi.
- Questo non è possibile, zio Poseidone!
- A me tutto è possibile.
- Questo no, zio Poseidone. Il tempio è costruito su un alto promontorio e non riuscirai mai ad arrivarci con le tue onde.
- Allora, mia piccola dea triste, non so proprio che cosa potrei fare per te. Non mi resta che liberarti della tua tristezza e di conseguenza dell'odio contro Afrodite. Vieni dunque, stendiamoci su questo mio letto grande e morbido. Ci togliamo di dosso questi vestiti ingombranti, ti lasci accarezzare tutta, ti lasci baciare tutta e il dio Poseidone ti farà godere tanto, da farti dimenticare ogni dispiacere e sarai felice per sempre.
Si è alzato in piedi e stende con un largo sorriso accattivante la sua manona verso di lei. Ma lei si ritrae. Un tale sacrificio, può essere solo il compenso per la sua vendetta.
- Non ora, dio Poseidone, non ora! Il mio cuore è troppo amareggiato. Non ci riuscirei, sarebbe peggio! Suggeriscimi tu qualcosa, per vendicarmi.
- Che cosa ti posso suggerire, piccola dea triste? Non saprei....Vediamo... Ecco, l'uomo, per esempio. L'uomo che hanno sedotto, è sparito dalla loro mente, o fa ancora parte dei loro pensieri?
- No, no, zio Poseidone, non è sparito affatto dalla loro mente. Anzi, una di loro ne è innamoratissima e tutte le notti se lo porta a letto.
- Lui almeno abita vicino al mare in un posto raggiungibile dalle mie onde?
- Quel giovane sì, zio Poseidone. Ma lui che cosa c'entra? Sono le sacerdotesse che voglio punire, è di Afrodite che mi voglio vendicare. A me lui non interessa.
- Dea Artemide, si vede bene che non te ne intendi! Quale punizione maggiore per una donna, che togliere a lei lo strumento del suo piacere. Dimmi dove abita costui, che in un baleno te lo scaravento in fondo al mare.
- Con lui ti sarà molto facile, zio Poseidone! Tutte le notti attraversa lo stretto con la sua barca per andare da quella puttanella.
- Allora è tutto risolto, piccola dea, è tutto risolto! Questa notte stessa potrai gustare il piacere della tua vendetta. Vedi bene che con me non esistono problemi. E ora dammi un piccolo anticipo, così compirò il lavoro con più entusiasmo.
Tenta nuovamente di attrarla a sé, ma lei nuovamente si ritrae.
- Dopo, dio Poseidone, dopo. Ora non potrei. Sono troppo agitata.
Al dio del mare sorge un dubbio:
- Artemide, non è che dopo......
- No, dio Poseidone! Non temere! Quando quell'uomo giacerà in fondo al mare privo di vita, sarò tua e solo tua. Parola di dea!



Capitolo tredicesimo

È sera, un'altra sera di ansiosa attesa.
Ero sta accendendo il lumicino alla finestra, anche se la luna tutta intera splende nel cielo. Uno sguardo tenero verso il ponte d'argento tracciato dai raggi lunari che unisce la sua con la riva di Abido. Su quel ponte d'argento corrono veloci i suoi pensieri di desiderio.
In quello stesso momento Leandro, salito sulla barca, inizia la traversata. Anche i suoi pensieri, più veloci dei remi, corrono lungo il ponte d'argento. È allegro e felice e fila veloce verso l'altra riva.

Artemide e Poseidone sono appostati tra le rocce:
- Eccolo, zio! È giunto quasi a metà dello stretto.
- Lo vedo. Adesso comincia lo spettacolo.

Leandro continua a remare tranquillamente con la luna che gli fa luce da lassù. All'improvviso però il cielo si copre di nuvoloni neri che la nascondono. Inizia a soffiare il vento ed il mare prende ad agitarsi.

Il vento spegne anche il lume sulla finestra di Ero. Lei se ne accorge e si chiede impensierita:
- Che cosa sta succedendo?
Lo riaccende di nuovo.

Il mare è sempre più agitato. Il vento soffia sempre più forte. Le onde fanno oscillare la barca paurosamente. Intorno è tutto buio. La luna non c'è più. Leandro cerca di governare la barca più che può. Ha come punto di riferimento il lumicino sulla finestra di Ero. Poco dopo il lumicino si spegne ancora e lui non sa più come orientarsi. Ora l'unico problema è riuscire a tenere la barca sotto controllo.

Artemide e Poseidone osservano soddisfatti. La dea lo incita:
- Più forte, Poseidone. Più forte!
- Sto facendo il possibile, dea Artemide. Lo vedi che è sfinito?


Ero riaccende la lampada. È preoccupatissima e non riesce a spiegarsi quell'improvviso cambiamento del tempo.
- Che cosa sta succedendo questa notte? Il mio amore è in pericolo.


In mezzo al mare in tempesta, Leandro tenta disperatamente di tenere sotto controllo la barca, con il lumicino alla finestra nuovamente spento dal vento.


I due dèi appostati osservano in attesa della conclusione, ma Artemide non è abbastanza soddisfatta.
- Più forte, dio Poseidone! Più forte!
- Dea Artemide, più forte di così non è possibile. Mica posso scatenare un maremoto! Eccolo, guarda! Ormai ci siamo.

Non c'è nulla da fare. La violenza del mare supera le sue forze. Leandro ormai esausto, soccombe. Un'immensa ondata travolge la barca con lui dentro.

Ero non lo sa, anche se ha tristi presentimenti, perciò continua a riaccendere la lampada tutte le volte che il vento la spegne. È disperata e prega:
- Io non posso fare niente per lui. Dea Afrodite, proteggilo tu! Fa' che non anneghi! Salvalo, ti prego, per i servizi che ti ho reso in questi anni.
Chissà se la dea è disposta ad ascoltarla?
Il sibilo del vento sveglia anche l'altra sacerdotessa, che si tira su a sedere sul letto.
Si sveglia pure l'eunuco, il quale esce dalla camera, raggiunge la scalinata e scruta inutilmente nel buio. Sta tornando indietro, quando Eufrasia, che è uscita dalla camera, lo nota e gli si avvicina.
- Va' tu da lei. Con me è un po' arrabbiata.
Ermogene sospira:
- Questa notte tutti gli dèi si sono scatenati contro il mare. E contro di lui!
Eufrasia gli ripete:
- Va' e cerca di consolarla! Capisco quanto possa soffrire.
Ermogene vuole farle sapere anche il suo di dolore.
- Anch'io sto soffrendo. Perché tu no?
- Anch'io, Ermogene, anch'io! L'ho amato, sai? Per una notte, ma l'ho amato.
- Io invece l'ho salvato dai suoi falsi amici. Ora però, purtroppo, non posso fare nulla. Se potessi, per tutto quello che ha fatto per me... Se potessi!..
- Va', Ermogene, e cerca di consolare almeno lei.


Ero è seduta sul letto sconsolata con la testa tra le mani. I due colpi alla porta la fanno trasalire. L'eunuco entra.
- Purtroppo sono io. Sono andato fino in cima alla scalinata, ma non l'ho visto.
Ero scoppia in lacrime:
- Questa volta è finita! È finita davvero!
- Non disperarti, Ero. Probabilmente ha visto la burrasca e non è partito, o ha fatto in tempo a tornare indietro.
- No, no! È finita davvero! Lo ha sorpreso in mezzo al mare e non è riuscito a salvarsi. Povero Leandro mio! Che cosa farò senza di te?
Le sue lacrime commuovono anche l'eunuco.
- Non piangere, Ero, ti prego! Sii fiduciosa! Sono sicuro che si è salvato. Guarda, appena spunta l'alba vado a vedere. Prendo la barca e arrivo fino ad Abido. Ma è probabile che venga lui stesso per tranquillizzarti.
Ero si asciuga le lacrime.
- Fossero vere le tue parole, Ermogene! Che gli dèi siano pronti ad ascoltarle!
- Vedrai, Ero! Vedrai! Domani mattina.


Capitolo quattordicesimo

Si è fatto giorno.
È una mattina serena. Verso oriente il sole è già alto e getta la sua luce sulla striscia di mare ormai calmo.
L'eunuco si avvia a passi veloci verso il parapetto della scogliera e si sporge sul precipizio. Rimane un attimo come paralizzato con lo sguardo fisso verso il basso. Leandro è riverso sulle rocce, un po' di sbieco, con la testa appena fuori dall'acqua, un braccio ancora immerso e le gambe lambite dalle onde leggere.

Poseidone e Artemide sono tornati nel palazzo sottomarino. Si trovano in camera da letto. Lei è seduta su una poltrona trepidante e pensosa. Lui è in piedi in attesa, come aspettando che si decida. La dea è presa da un dubbio:
- Sei proprio sicuro che sia annegato?
- Guarda da te, no? Eccolo la! Non lo vedi? È morto stecchito. Allora, mia vergine dea, devi mantenere la tua promessa.
- Certo, Poseidone, certo! Quello che ho promesso, mantengo. Però, senza fretta. Lascia che mi abitui all'idea a poco a poco.
- Ma certo, vergine dea, senza fretta. Con tutta la calma che vuoi.
- Non puoi offrirmi qualcosa intanto?
- Con molto piacere, vergine dea. Una coppa di buon vino di Rodi è quello che ci vuole per renderti meno titubante.

L'eunuco passeggia nervoso davanti alla cameretta di Ero. Non ha il coraggio di entrare. È lei però ad uscire poco dopo. Gli domanda subito con ansia:
- Allora sei andato? L'hai visto?
L'eunuco alza lo sguardo verso di lei e rimane muto. Quello sguardo, quel silenzio le fanno aumentare l'apprensione.
- Allora, Ermogene, che cosa c'è? È successo qualcosa?
L'eunuco continua a fissarla in silenzio senza avere il coraggio di parlare. Ero capisce ed esplode in tutto il suo dolore:
- È successo qualcosa al mio amore! Dov'è? Laggiù?
Con un gemito, si getta di corsa verso il parapetto, ma l'eunuco fa in tempo a trattenerla.
- Ero, non andare! Ti prego, non andare!
La giovane sacerdotessa si divincola, si libera e corre quanto può in preda alla disperazione verso la ringhiera che dà sullo strapiombo. L'eunuco le grida inutilmente:
- Ero, non andare! Torna indietro!
In quel momento esce anche Eufrasia, che chiede all'eunuco:
- È successo qualcosa? Dimmi, Ermogene: è successo qualcosa?
Non fa in tempo a rispondere. I loro occhi seguono atterriti la giovane sacerdotessa che sale sul parapetto e, dopo aver gridato: "Amore mio, sei annegato per me. Ma io ti seguirò!", lo scavalca e si getta nel vuoto. Sono inutili i loro disperati richiami. È troppo tardi.
Mentre Eufrasia si preme le mani sulla faccia, Ermogene riesce a mormorare:
- Leandro questa notte è annegato e il suo corpo è stato sbattuto dalle ondate sulle rocce. Ero l'ha visto ed ha voluto morire con lui. È colpa mia che non sono riuscito a trattenerla. Ma perché? Un grande amore finito così tragicamente! È colpa mia, è colpa mia!
Eufrasia lo consola, con le lacrime agli occhi:
- No, Ermogene, tu non hai nessuna colpa! Hai fatto del tutto! Poveri amanti sfortunati!
- Davvero, poveri amanti sfortunati! Io, Eufrasia, io non ce l'ho il coraggio di andare a vedere. Non me la sento. Vai tu, per favore!
- Neanch'io, Ermogene, neanch'io ce l'ho il coraggio! Il solo pensiero di vederla sfracellata accanto a lui, mi fa....mi fa una terribile impressione.
- Che disgrazia, Eufrasia! Che disgrazia! Torniamo dentro. E adesso, chi è che va a dirlo alle altre?

Poseidone e Artemide sono in camera, accanto al letto pronto ad accoglierli. Il dio del mare ne gode al solo pensiero.
- Vergine dea, prima di possederlo, lascia che il mio sguardo goda alla vista di questo tuo splendido corpicino che mai nessuno ha sfiorato!
- Te lo puoi concedere, Poseidone. È la mia promessa. Ora è a tua completa disposizione.
Il dio comincia a spogliarla lentamente con lo sguardo pieno di voluttà.

Il corpo di Leandro è sempre lì, inerte, disteso sulle rocce accanto alla battigia. È simile a un tronco d'albero sbattuto sulla riva dalla furia del mare, tanto che alcuni gamberetti si spostano avanti e indietro sulle sue gambe e sulla sua schiena. Ma ad un certo punto succede qualcosa. La bocca, schiacciata da un lato contro la roccia, sembra avere un leggero movimento. Anche la palpebra superiore ha un impercettibile tremito. Poi la testa pare che tenti di sollevarsi e compie una breve rotazione da scoprire l'altro occhio nascosto. Le braccia e le gambe intanto si piegano e si tendono lentamente con un lieve spostamento appena visibile, però sufficiente perché i gamberetti lo avvertano e corrano a rifugiarsi tra le rocce.

Poseidone e Artemide sono distesi nudi nel grande letto. Il dio è tutto preso dalla sua foga con baci e carezze e s'appresta all'atto finale. La dea si mostra infastidita e subisce poco volentieri le effusioni del dio. Gli abitanti degli abissi e le divinità marine volteggiano intorno alla camera trasparente, quasi a godersi lo spettacolo. All'improvviso Artemide fissa lo sguardo da un lato e manda un grido:
- Guarda, dio Poseidone! Guarda!
- Che cosa? Ma dai! Sono gli abitanti del mare e le divinità delle acque. Lascia che ci osservino. Che t'importa?
- No! Lui! Guarda, si è mosso.
- Ma chi è che si è mosso?
Il dio, per osservare, si gira di fianco e Artemide ne approfitta per sgusciare da sotto. Si copre con un lenzuolo e ora, in piedi accanto al letto, lo fissa seria:
- Dio Poseidone, non sei stato capace di annegare un giovane mortale. Osservalo bene: è ancora vivo.
Il dio del mare, senza alzarsi dal letto, getta un'occhiata da quella parte e risponde:
- E va bene, non sarà annegato del tutto, ma mezzo morto lo è, non lo vedi? Dopo gli spedisco un'ondata e te lo trascino in fondo al mare. Ma che cosa fai, ti rivesti? Vieni qui che completiamo il lavoro.
Allunga un braccio e tenta di afferrarla, ma lei si tira indietro.
- No, dio Poseidone. Non hai mantenuto la tua promessa ed io non mantengo la mia.
- Ma vieni qua! Vuoi interrompere adesso che eravamo sul più bello?
Artemide è impassibile:
- No, dio Poseidone! Come maschio non so quanto vali, ma come dio del mare vali ben poco.
La dea, senza altri commenti, abbandona il palazzo sottomarino e risale verso l'alto più incupita che mai. A Poseidone, rimasto solo, non resta che esclamare per conto suo: "Ma sì, vattene! Però non saprai mai quello che hai perso!"

Leandro, pur rimanendo ancora disteso, ormai è rinvenuto del tutto. Osserva, da quella posizione, l'acqua calma a livello degli occhi e gli viene da pensare: "Sono nel regno dei Morti. Sicuramente sono stato scaricato qui da Caronte che mi ha traghettato attraverso lo Stige." Anche se si sente sfinito, tenta di ruotare su se stesso per mettersi supino. In quella posizione gli appare in alto una visione così meravigliosa, che le sue labbra accennano ad un lieve sorriso ed esclama tra sé: "Il regno dei Morti è preferibile a quello dei vivi, se un simile spettacolo può allietare lo sguardo di un trapassato!"
Infatti ad una certa altezza dello strapiombo roccioso, due splendide gambe, nude fino alle cosce, mentre il resto è completamente coperto dal vestito, si agitano, oscillano, si piegano, si allungano, si ripiegano, offrendo tutte le varie posizioni capaci di stimolare la fantasia anche di un moribondo.
Mentre ammira beato, il suo sguardo trasale un attimo. La splendida visione gli precipita addosso e finisce a cavalcioni su di lui, per cui gli esce dalla gola un fiotto di sofferenza, lasciandolo più moribondo di prima. Si tratta di Ero ovviamente che, nel gettarsi dalla rupe, è stata trattenuta per il vestito da uno sperone di roccia.
La giovane sacerdotessa, come vede Leandro sotto di sé, mormora sbalordita:
- Amore mio, ti ho raggiunto nel regno dei Morti.
Leandro che, dal colpo ricevuto, gli è venuto a mancare quel poco fiato che gli era rimasto, sibila appena:
- Ancora no, ma c'è mancato poco.
- Siamo vivi allora?
- Sì, ma con questa botta ci potevo rimanere.
Ero a rendersi conto che è viva, che lui è vivo, gli si butta sopra del tutto e lo bacia con furiosa frenesia:
- Amore mio, ti credevo morto e invece sei vivo. Invece siamo vivi e non ci lasceremo più, mai più!
Lo bacia, lo bacia e lo ribacia con tale impeto, quasi da soffocarlo e Leandro cerca di dimenarsi per riuscire a respirare:
- Certo, non ci lasceremo più!....Ma lasciami un momento, che mi manca il fiato.
- Sì, ti lascio respirare, ma ti stringo forte forte, perché voglio restare con te per sempre.
Quando ha sfogato tutta la sua passione, si scosta, l'aiuta a tirarsi su a sedere e gli confessa:
- Amore, ora che so che sei vivo, abbandono il tempio e vengo a vivere con te.
È una proposta che in fondo a Leandro non dispiace.
- E io ti sposo.
- Se mi sposi, sarò tua per tutta la vita.
- Ma a casa mia c'è da lavorare.
- E io lavorerò.
- C'è da cucinare.
- E io cucinerò.
- C'è da caricare e scaricare la nave.
- E io caricherò e scaricherò la nave.
- Tu allora sei proprio la moglie che ci vuole per me.
- Sì, sono la moglie che ci vuole per te.
Gli si ributta addosso, soffocandolo di baci e di abbracci. Leandro, che fa fatica a tirare il fiato, esclama:
- Ma se fai così, non ci arrivo a sposarti. Fammi respirare.
- Invece ti voglio baciare.
- Il naso! Lasciami libero il naso, almeno!
Ero, come ripresa da una bramosia incontenibile, continua a baciarlo a stringerlo, a rotolare con lui sulle rocce, da finire in acqua tutti e due abbracciati, giusto con la testa di fuori per prendere fiato.

Mia moglie mi svegliò con uno scossone.
- Che per caso ci vuoi anche dormire qui? Noi ce ne andiamo.
Sollevai la testa e mi guardai intorno. Si stava facendo sera e la spiaggia era ormai quasi vuota. I pochi ritardatari si stavano rivestendo. Non vidi intorno a me, né la favolosa biondona, né tutti quelli che mi circondavano. Scorsi invece mio figlio e Gessica ancora abbracciati, in piedi, soli, sulla riva del mare, con l'ultimo sole che gettava su di loro qualche raggio ancora rimasto prima del tramonto.

Giugno 2005


webmaster Fabio D'Alfonso


 
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