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ALCHIMIA & DINTORNI
di Roberto Olivo

 


Storia
La parola Alchimia deriva da Al Kîmyâ, parola araba di origine egizia che, letteralmente significa "terra nera", il nome della Valle del Nilo ove, secondo la tradizione, questa antica conoscenza sarebbe stata svelata agli uomini dal dio Toth. Secondo altre fonti, la parola deriverebbe da Chemes, misterioso e leggendario maestro dell'Arte alchimistica che pur non avendo lasciato segno certo della sua esistenza, avrebbe scritto un libro intitolato Chema, che gli Angeli Caduti avrebbero adoperato per dare lezione alle figlie degli uomini. Da Chemes e da Chema, sarebbe derivata la parola greca Chemia che restò a denominare quest'Arte fino a quando gli arabi vi premisero l'articolo al della loro lingua nativa, formando la parola Alchimia, detta anche Arte Ermetica perché in seguito fu insegnata dal mitico Ermete Trismegisto (un sapiente identificato volta per volta con Thot o con il dio greco Hermes) o Ars Regia perché ritenuta nobile in quanto insegnava ai suoi seguaci a dirozzare lo spirito, riportandolo alla purezza originale, di origine divina.
In realtà le prime operazioni alchemiche, si potrebbero far risalire addirittura a 40.000 anni fa. Infatti in Israele sono stati scoperti resti umani dipinti di rosso (colore del sangue), che avrebbe dovuto procurare l'immortalità al defunto.
È certo che i Greci si dedicarono all'alchimia, principalmente in Alessandria, anche se sfortunatamente i documenti originali sono scomparsi nel grande incendio della biblioteca. Già nel VI -V sec. a.C. Eraclito di Efeso (detto l'Oscuro) parlò di processi chimici simili a quelli dell'Alchimia, basati su 4 stadi: melanosis (passaggio al nero), leukosis (passaggio al bianco), xanthosis (passaggio al giallo), iosis (passaggio al rosso). Tra il XV e il XVI secolo, gli alchimisti europei eliminarono il passaggio al giallo (citrinitas, in latino).
Il primo testo cinese che fa riferimento all'alchimia (per condannare i contraffattori d'oro) risale invece all'anno 144 a.C..
Per molti l'Alchimia risale ufficialmente al IIIº secolo d.C., quando cominciano a comparire in Oriente e nel Mediterraneo i primi scritti di Zosimo di Panopoli, (utilizzati da C.G. Jung nei suoi studi sull'alchimia).
Fra gli alchimisti c'erano anche donne, come Teosebia, sorella di Zosimo e Maria l'Ebrea, leggendaria alchimista di età alessandrina, che avrebbe inventato molti processi di riscaldamento, distillazione e di reazione chimica, nonché il famoso balneum Mariae.
Conosciuta in Europa attraverso fonti sufi (detta anche arte sofica), successivamente l'Alchimia divenne appannaggio degli Arabi, principalmente con Jabir ibn Hayyan, conosciuto in Europa col nome di Geber, membro di una comunità mistica praticante il sufismo. A Bagdad (che al tempo era la più grande città al mondo) frequentava la corte di Haroun al Rashid ed era amico personale del Gran Visir Jaffar, personaggi resi famosi dalle Mille e una Notte, testo dallo spiccato carattere ermetico.
Con Razi e Avicenna il pensiero alchemico conquista la Spagna, in particolare Toledo che, riconquistata nel 1105, permise l'irradiazione delle conoscenze e dottrine mediche e alchemiche dagli Arabi verso l'Occidente cristiano, avviando lo sviluppo dell'alchimia europea nel XIII secolo, grazie a Raimondo Lullo, Alberto il Grande e Arnaldo da Villanova.


Cos'è l'Alchimia?
L'Ars Regia o Grande Opera è anche detta Medicina dei Tre Regni perché si possono distinguere tre ambiti della ricerca alchemica: Alchimia metallurgica, Alchimia dell'Elixir (o farmacologica) e Alchimia spirituale.
Secondo Ruggero Bacone, e con lui gli alchimisti della tradizione trecentesca dell'elixir e della quintessenza (Raimondo Lullo, Giovanni Dastin, Arnaldo da Villanova, Giovanni da Rupescissa), ritengono che l'Alchimia è la Scienza che insegna a preparare una sostanza più perfetta di qualsiasi sostanza naturale, una medicina o Elixir, la cui produzione segue rigorosamente le procedure della natura, che essendo proiettato sui metalli imperfetti, comunica loro la perfezione nel momento stesso della proiezione. La dottrina di Bacone si fonda su una teoria della materia che rende possibile una operatività trasformatrice più radicale di quella di Geber, perché basata sulla scomposizione di ogni sostanza mista (compresi i metalli, ma non solo essi) nei quattro elementi originari.
Mentre per Alberto Magno le procedure alchemiche si limitano a predisporre la materia prima ad un intervento di perfezionamento, strettamente riservato alla natura stessa, per altri l'Alchimia sarebbe solo l'arte di usare le menzogne più seducenti, per conquistare la verità.
Secondo Jollivet Castelot, l'Alchimia è una forma di gnosi volta a stabilire una prova dell'unità della materia e della trasmutazione degli elementi, un sistema filosofico che si propone di penetrare i misteri della vita, oltre quelli della formazione delle sostanze inanimate. Sul piano materiale, il suo scopo è la purificazione dei metalli o la loro evoluzione progressiva, accelerando questa evoluzione metallica che la natura può compiere in modo lento.
Carl Gustav Jung considera l'Alchimia un modo per sviluppare la coscienza cosmica attraverso ricerche chimiche e un antecedente storico della psicologia del profondo, identificandola nella pulsione a trasformare la materia prima dell'esperienza in conoscenza. Anche i vari passaggi della Grande Opera sono simbolici: ad esempio quello che produce il Nigredo, secondo Jung, non è altro che "la nera notte dell'anima", cioè l'angoscia generata dai conflitti interiori: proiettando sulla materia la funzione iniziatica della sofferenza, l'uomo sublima se stesso e realizza il cosciente Androgino libero da ogni schiavitù. Grazie alle operazioni alchemiche, omologate alle torture, alla morte e alla resurrezione, trasmutandosi in oro la materia diventa trascendentale, assumendo il destino dello spirito.
L'Alchimia non è Chimica, ma una Scienza e un'Arte che racchiude l'enigma dell'Angelizzazione dell'uomo inferiore attraverso il Segreto trasmutatorio. Per questo la pratica alchemica è considerata prioritaria rispetto al sapere che produce, sebbene tale sapere sia considerato dagli alchimisti come un'introduzione necessaria all'opus. Nella trasmissione delle dottrine alchemiche c'è una circolarità, che si manifesta attraverso un maestro che ha compiuto l'opus e trasmette al discepolo insegnamenti teorici, fino a farlo vedere e dunque comprendere.
Gli alchimisti erano maestri di metafisica, che nascondevano le loro effettive intenzioni (la metamorfosi dell'anima) dietro un paravento di ricerche chimiche. Dato che secondo la Chiesa l'innovazione era Eresia, era saggio nascondere le fasi della Grande Opera dietro pratiche metallurgiche, rappresentando le proprie teorie con simboli pittorici e un'Alchimia della Parola, basata su oscure parabole, enigmi ed anagrammi.
I simboli alchemici possono essere ritenuti una chiave di interpretazione e di conoscenza della nostra natura più profonda, forse l'ultimo tentativo di raffigurare con un mito ciò che noi oggi raffiguriamo con la matematica, che oggi rappresenta la nostra iconografia, come il Re, il Leone, la Luna, i Pianeti e tutti gli altri segni dei Tarocchi erano quella alchemica.
Ecco alcuni esempi di criptici proverbi alchemici.
Chiunque voglia entrare senza chiave nel roseto dei filosofi è paragonabile a un uomo che voglia camminare senza piedi.
Non mangiare il figlio la cui madre abbia un mestruo abbondante (abbi cura che non vi sia più acqua che fuoco naturale).
Sono necessarie 7 aquile per combattere un leone (bisogna che il mercurio sia sublimato ed esaltato 7 volte).


Tecnica Alchemica
Per riuscire bene, l'opera generativa dell'Alchimista deve venire eseguita implorando senza posa l'aiuto del Grande Artefice dell'Universo. In tal modo si troverà in una catena ideale di mercuriali vibrazioni, facendo sì che le sue correnti di pensiero costituiscano luci intelligibili, che manifestano per gradi le varie operazioni da seguire.
Le operazioni devono iniziare di primavera, preferibilmente sotto l'Ariete, il più tenace dei segni zodiacali e uno degli ingredienti fondamentali della materia prima alchemica è la rugiada di Maggio che va raccolta stendendo delle lenzuola sull'erba e strizzandole in un recipiente. Il tempo deve essere sereno e va raccolta prima dell'alba, quando è ancora carica dello spirito del mondo.
La Prima Materia deve essere mescolata con due elementi, Sol e Luna (Zolfo e Mercurio) e con il misterioso "Sacro fuoco" (Ignis Innaturalis). Il tutto deve essere sigillato in un recipiente chiuso chiamato "Uovo Filosofale" e scaldato in una fornace (l'athanor). Un modo per guidare l'uso del fuoco è quello di indicare i materiali che bruciando sviluppano calore diverso: fuoco di carbone, fuoco di sterpi, fino al calore sviluppato dalla fermentazione di letame o di altre sostanze. Per mitigare gli effetti del fuoco, quando il calore che occorre è molto tenue, si usano artifici come il cosiddetto balneum Mariae o il bagno di sabbia: in entrambi i casi il vaso è immerso in una sostanza (acqua o sabbia) che diffonde in maniera uniforme e mitigata il calore del fuoco. I vari tipi di forno o fornello sono descritti e spesso raffigurati nei testi d'alchimia. Il più frequente è certamente il forno detto athanor, in cui il fuoco viene acceso in una camera chiusa ed il vaso è posto in una sede sovrastante, a contatto con essa.
Se l'operazione ha successo, gli elementi si "sposano" correttamente, anneriscono e putrefanno, raggiungendo così lo stadio di Nigredo. Un successivo riscaldamento libera l'anima della materia oscura, che diventa lentamente bianca (l'Albedo). Dopo una dozzina di nuove trasformazioni, le luci interiori diventano sempre più intense a mano a mano che la materia mercuriale viene depurata dalle scorie che l'appesantiscono, diventa verde (il Leone Verde) e poi il Mercurio dei Saggi viene attratto dal bianco magnete, fino a formare una polvere sottilissima e sensibilissima, rossa come polvere di zafferano: la Pietra Filosofale.


Attualità dell'Alchimia
La chimica ha ereditato dall'Alchimia (spesso designata col termine di protochimica) pratiche operative, strumenti, termini, ma non la complessa visione del mondo sulla quale le dottrine alchemiche si fondano. Mentre la chimica considera i metalli nella loro semplice fisicità materica, l'Alchimia studia l'anima dei metalli.
Secondo Fulcanelli, alchimista del XX secolo, la chimica è la scienza dei fatti, mentre l'Alchimia è quella delle cause perché permette di intravedere Dio attraverso le tenebre della sostanza.
Esiste un solido legame fra alchimia e medicina, un interesse che fu tributato da tanti medici (a cominciare da Paracelso) che s'interessarono allo studio di alcuni fenomeni posti a confine tra le due discipline. Anche l'uomo, del resto, può essere considerato una specie di storta alchemica, che produce calore, onde, elettricità. Ne è prova il quotidiano processo digestivo, un vero processo alchemico di trasmutazione degli elementi/alimenti da parte della saliva, dei succhi gastrici e della bile.
Otto Tachenius, medico tedesco laureatosi a Padova nel 1644, studiando l'aumento di peso nel processo di calcinazione del piombo, scoprì che i sali erano il risultato di una reazione chimica tra un acido ed un alcale. Angelo Sala, medico vicentino, s'interessò dei processi fermentativi, dei sali di ammonio e degli ossalati e della preparazione, con metodi di sua invenzione, dell'acido solforico e dell'acido fosforico.
Gli Alchimisti sono ancora fra noi, diceva Louis Pauwels nel Mattino dei Maghi e ne era talmente persuaso anche August Strindberg, da voler lasciare il teatro per dedicarsi completamente all'Alchimia.
Oltre ad essere al corrente di nuove fonti di energia (avrebbero conosciuto la fissione e la fusione nucleare sin dal XIXº secolo), i moderni alchimisti avrebbero ottenuto quantità rilevanti di nuovi elementi chimici e disporrebbero della pietra filosofale, che tramuta gli oggetti in oro, oltre alla panacea universale, un farmaco in grado di guarire ogni male, un oro liquido mercuriale che, se bevuto, conferirebbe l'immortalità.
Armand Barbault, alchimista contemporaneo, è considerato il fondatore dell'Alchimia moderna. Dopo dodici anni di lavoro ha creato un solvente dell'oro e l'ha dissolto in polvere. Sembra che un laboratorio farmaceutico di Stoccarda stia sperimentando con esiti positivi il suo oro potabile, estratto dalla rosa, per guarire le malattie virali e del sangue e ricostruire le cellule.
Nella stessa Milano contemporanea opererebbero alcuni individui, ai vertici di aziende e in posizioni di grande prestigio, che praticano seriamente l'alchimia.
Ma forse è la Fisica Quantistica, che si occupa dei campi d'energia, l'Alchimia del Terzo Millennio. Ora sappiamo che la materia è solo una particolare conformazione di alcune particelle d'energia, ma ciò conferma la concezione immateriale dell'universo e l'empirismo idealistico di George Berkeley, filosofo del XVIII secolo, secondo cui "esse est percipi" (esistere significa essere percepito).
Che un sistema fisico si comporti in modi diversi a seconda della conoscenza che ne ha l'osservatore, gli alchimisti l'hanno sempre saputo. La Grande Opera è una trasmutazione interiore, il cui scopo è di appropriarsi della quintessenza, dell'anima del mondo e oggi che i maestri orientali guardano con attenzione alla fisica quantistica e alla teoria della relatività, che rendono scientifiche le loro antiche filosofie, forse il Cerchio dei Filosofi si sta finalmente chiudendo.


La Pietra Filosofale
Lapis Philosoforum, la Pietra dei Filosofi è l'espressione alchemica impiegata per indicare la realizzazione della Grande Opera, detta anche Crisopea o Argiopea, sacra arte di fabbricare l'oro.
La materia prima per la fabbricazione della Pietra Filosofale sarebbe un'alga che si trova sul terreno a primavera, il nastoc. Secondo altri, si realizza utilizza latte di Celidonia e Mercurio Ermetico crudo. Ma in mancanza di meglio, si può produrre l'oro anche dall'orina. Ecco la ricetta: raccogliete per tre o quattro notti l'orina di un giovane incontaminato dopo il suo primo sonno, sino a riempirne tre pinte, aggiungete 2 bicchieri di fortissimo aceto, due once di calce spenta, mezz'oncia di acqua vivente, versate il miscuglio in un vaso di terracotta, sovrapponetevi un alambicco e lasciate macerare.
Ma come è fatta la Pietra Filosofale? Secondo alcuni ha l'aspetto di vetro o opale, per altri è una chiave a sette punte o una pietra incastonata su un anello o la lancia del Centurione che trafisse il costato di Cristo sulla croce.
La ricerca della Pietra Filosofale è del tutto equivalente alla ricerca del Santo Graal, il calice in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo. Non a caso la Pietra talvolta è simboleggiata dalla figura di Cristo stesso.
Alcuni distinguono fra Pietra dei Filosofi e Pietra Filosofale. La prima è la pietra angolare su cui Pietro costruì la sua Chiesa. La seconda invece è la medicina universale, l'elisir che dà la salute, la ricchezza e la conoscenza.
Dal canto suo, Cagliostro usava una candida Pietra Citrina che trasformava il vetro e il cristallo in diamanti e creava perle più belle di quelle naturali. Illusionismo, gioco di prestigio, magia o riserva di energia nucleare in sospensione, adoperabile a volontà?
Zosimo di Panopoli, gnostico vissuto nel II secolo, sosteneva che i metalli hanno vita, sesso e forza seminale, in grado di generare. Per questo, quando si è ottenuta la Pietra è bene riprodurla, moltiplicando i suoi effetti.
Ma la vera Pietra non è quella essoterica, in grado di trasmutare i metalli in oro, ma quella esoterica che trasmuta l'Alchimista, provocando la sua fusione in Spirito. La ricerca alchemica è la ricerca dell'Anima, della perfezione del sé, un modo per trasformare l'uomo in sé stesso, collegandolo con altri focolai di coscienza, attraverso gli spazi cosmici. Qualcosa che assomiglia stranamente alla connessione in rete dei cybernauti.
È certo comunque che come diceva Faust: la Pietra Filosofale senza Filosofo, a nulla vale.


L'Alchimia cinese
Lo scopo dell'Alchimia cinese è duplice: da una parte produrre oro ed argento e dall'altra permettere di ottenere il ringiovanimento e la vita eterna attraverso formule magiche e il benefico influsso delle stelle.
Dopo aver ricevuto il testo e le istruzioni dal maestro, il discepolo entra in ritiro su una montagna o in un luogo isolato e protetto. Per l'intera durata dell'opera, l'alchimista deve osservare una serie di interdizioni e compiere cerimonie purificatrici, oltre a proteggersi dagli spiriti pericolosi che, insieme alle divinità, dimorano nelle montagne. L'alchimista si pone al centro di uno spazio che separa dallo spazio profano con talismani che marcano le quattro direzioni e lo proteggono da influssi nefasti, materiali o sottili. Per allontanare gli spiriti malvagi, deve individuarli e gridare il loro nome, oppure riconoscere quelli che si presentano sotto le spoglie di esseri umani o di animali.
L'alchimista deve conoscere anche i metodi medici e le formule necessarie a proteggere la propria persona, usando farmaci per l'immortalità costituiti da rimedi vegetali che talvolta producono effetti allucinogeni e da minerali spesso tossici, come il mercurio, l'arsenico e la mica. Quando tutte le condizioni spaziali e temporali preliminari sono soddisfatte, e quando le pratiche di purificazione sono compiute, l'alchimista può finalmente dare inizio alla preparazione dell'Elisir.
I supporti materiali (il crogiolo, il fuoco, e gli stessi ingredienti dell'elisir) o astratti (le linee del Libro dei Mutamenti) utilizzati nell'alchimia cinese permettono non soltanto di manipolare il tempo, ma anche di rappresentare attraverso l'opera alchemica la costante presenza del Tao nel cosmo. Attraverso il rituale alchemico, l'alchimista fa sì che le essenze degli ingredienti assumano le stesse proprietà, pure e incorruttibili, del Principio (o Yang Puro).
L'alchimista cinese ricava dal cinabro (minerale di mercurio) e da altri metalli la sostanza che prepara attraverso la sua opera, che avrà le stesse proprietà dell'oro. Una volta ottenuto, l'Elisir può essere "proiettato" su altre sostanze e riportare la materia alla sua perfezione originaria. Una quantità minima di Elisir è capace di trasmutare qualsiasi altra sostanza in oro.
Ma la cosa veramente importante dell'Alchimia Cinese è che, servendosi di simboli astratti e di supporti materiali, produce l'Essenza Primordiale, ovvero il principio che permette la manifestazione del Tao, ritrovando nel cosmo la qualità non corrotta del Principio Primo.


Alchimia Indiana
La dualità ha un'importanza particolare in area indiana, dove si ricollega a Shakti, l'energia femminile che si diparte dal principio primo maschile, Purusha. Nell'ambito alchemico la dualità rappresenta la conciliazione degli opposti, espressi tramite varie opposizioni, il cui scopo è produrre l'Unità. Un processo cosmogonico che anziché essere discendente è iniziatico e ascendente.
Il caduceo di Ermete Trismegisto (simbolo della Medicina) richiama Ida e Pingala della Kundalini Yoga, e ricorda anche il serpente che avvolge l'albero della vita della cabala ebraica che nei Veda e nelle Upanishad viene rappresentano capovolto, con le radici rivolte al cielo, ad indicare che esso riceve dall'alto la sua forza. Immagine simbolica in cui convergono quasi tutti gli elementi che caratterizzano il concetto di forza universale. La Kartha Upanishad così lo descrive: "Questo Asvatta (albero) eterno, le cui radici vanno in alto e i rami in basso, è il puro, il Brahman, ciò che chiamano la Non-Morte. Tutti i mondi riposano in lui… I suoi rami sono l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra."
Nell'Alchimia Indiana, il mercurio, chiamato in sanscrito Hiranyagarbha (Utero d'Oro) o Ojas (Sperma del Mondo) ha senza dubbio un posto privilegiato. Considerato il seme di Shiva o di Hara, sostanza maschile calda che controlla gli elementi terra ed acqua, viene associato a mica che è la sua contropartita fredda, femminile, o Gauri e che controlla l'elemento aria. Il matrimonio alchemico del mercurio e della mica, Hara e Gauri, maschio e femmina, Yang ed Yin, produce un metallo "sposato" che controlla terra, acqua ed aria, coè i solidi, i fluidi ed gli elementi sottili del corpo umano, aumentando l'elemento del fuoco, vale a dire il calore.
Da più di 3 millenni, affinché le forze restassero controllate, la conoscenza segreta dell'alchimia del mercurio apparteneva all'élite spirituale dei brahmini, ai re, alla casta dei guerrieri e agli asceti. Preparato secondo una tradizione ancestrale, prima della sua solidificazione il mercurio viene completamente purificato, cioè viene reso atossico e potabile. Prodotto in quantità limitate, interamente fatto a mano e modellato in varie forme, il mercurio non dovrà essere ne' troppo forte, ne' troppo debole, in modo che la sua energia dolce e sottile penetri il corpo eterico di colui che lo porta, tonificandone l'essenza senza toccare la sua individualità.
In India, il mercurio solidificato, è molto ricercato da chi pratica Hatha Yoga, arti marziali o sport, perché ha un effetto sorprendente sul corpo eterico, oltre ad avere effetti calmanti, confortanti e riscaldanti, migliorare concentrazione e controllo del respiro, facilitare lo sforzo fisico e stimolare l'energia primordiale di Kundalini, sorgente vitale in grado di attivare i centri psichici chiamati chakras. Se chi pratica la meditazione lo mette fra gli occhi, in corrispondenza della Ghiandola Pineale o Terzo Occhio, avrà visioni mistiche ed esperienze di chiaroveggenza. Se invece viene portato attorno alle anche, il mercurio solido può essere utilizzato con successo per rianimare una sessualità flebile o dormiente.
Numerosi dolori muscolari sarebbero dovuti a congestioni o mancanza di energia per impurità che ostacolano i nervi sottili del corpo eterico (nadis), deformandoli e creando dei nodi che impediscono all'energia di scorrere uniformemente. Applicando il mercurio solidificato nei punti dolenti, si sentirà un'emanazione di calore accompagnata da pizzicore acuto e breve, come quello di uno spillo finché l'energia del prana forzerà il suo cammino in questi canali, scorrendo nuovamente.
Secondo l'antica teoria indiana tutta la creazione è classificata in tre guna (qualità, energie): satwa, rajas e tamas. Satwa è la pura essenza, rappresenta tutto ciò che è puro, ideale, è la qualità eterica, la mente meditativa a il corpo sottile. Rajas è l'azione, il movimento, la qualità terrestre, il corpo a la mente nell'attività creativa. Tamas è l'inerzia, la qualità regressiva, il corpo fisico e l'ostacolo mentale. E la funzione catalizzatrice del mercurio sarebbe in grado di armonizzare fra loro gli elementi di base dell'uomo, integrandoli alla sua individualità.
Già 2000 anni fa i grandi maestri dell'India dimostrarono la memoria del mercurio metallico e il suo potere di registrare fino a diciotto impressioni e alcuni alchimisti hanno perfezionato differenti varietà di mercurio, amalgamandolo con diamante e mica liquefatti, in modo da dotarlo di poteri straordinari. Tenendolo in bocca, sarebbe in grado di modificare la struttura atomica e accelerare le vibrazioni molecolari del corpo, annullando la forza di gravità o donando il potere dell'invisibilità.


Il Re del Mondo
Uno dei miti esoterici più antichi e universali è quello del Regno sotterraneo di Agharti che sorgerebbe nei visceri dell'Himalaya, estendendosi nel mondo intero. Secondo l'occultista Helena Blavatsky, Agharti (che in linguaggio simbolico è detto anche Reame di San Giovanni) avrebbe un'origine aliena, fondata in tempi remotissimi dai Signori della Fiamma, semidèi provenienti da Venere, nei luoghi in cui erano atterrati, in Asia Centrale (nel deserto del Gobi).
Secondo altre leggende, gli abitanti del misterioso regno sotterraneo proverrebbero dal continente scomparso di Gondwana che, nell'Età dell'Oro avrebbe prosperato alla luce del sole con il nome di "Paradesha" (in sanscrito Paese supremo, da cui Paradiso). Fondato dal primo Guru intorno all'anno 380.000 a.C., all'inizio del Kali Yuga della tradizione indù (3102 a.C.), comprendendo che una catastrofe stava per abbattersi sulla loro terra, gli abitanti si erano trasferiti nel sottosuolo, portando con sé il loro bagaglio di antichissime conoscenze, trasformando in Agharti (l'inaccessibile) il nome della loro terra, rifugiandosi in vaste gallerie sotterranee, illuminate da una luce particolare che fa germogliare le sementi.
Il cuore di Agharti avrebbe sede sotto il vasto territorio che va dal deserto del Gobi alle impervie montagne del Tibet e del Nepal, sul principale incrocio delle correnti terrestri. O forse è esso stesso a generare questi fiumi di energia arcana che percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie irraggiati dai megaliti, costituendo il mozzo, immobile e immutabile, della Dharma Chakra, la Ruota della vita e della legge della tradizione indù, alla cui rotazione è legato il destino dei mortali.
La capitale di Agharti è Shambhalla, mitica "Città di Smeraldo" citata dai viaggiatori medioevali, composta di edifici di luce materializzata. Localizzata successivamente in India, Tibet, Cina, Indocina, Mongolia e perfino in Etiopia, all'inizio nel XX secolo venne ricercata invano da Ferdinand Ossendowski e Sven Hedin, ignari del fatto che è impossibile trovarla, per i non iniziati, perché è tenuta isolata dal mondo di superficie da vibrazioni che offuscano la mente e rendono invisibili le porte d'accesso. Anche perché Agharti esiste simultaneamente sia sul piano fisico che su quello mistico e solo pochissimi Arhat (illuminati) hanno la possibilità di accedervi. Secondo alcune scuole di pensiero, in realtà Shamballa sarebbe il centro del male di Agharti e sede degli iniziati di mano sinistra.
Nei templi di Agharti si trovano oggetti dagli straordinari poteri, tra cui forse il Graal e immense biblioteche analoghe a quella di Babele descritta da Jorge Luis Borges, in cui è raccolto tutto il sapere universale. In una di esse è conservato l'originale delle "Stanze di Dzyan", il testo che racconta le vere origini dell'universo. È impossibile portare libri fuori da Agharti: chi ne esce deve contare soltanto sulla propria memoria.
Esiste un popolo, nato nelle profondità di Agharti, che ora vive in superficie ed è condannato a un vagabondaggio senza fine, alla ricerca di una patria che non potrà mai più rivedere. È il popolo degli Zingari, cacciato da tempo immemorabile dal Regno sotterraneo, di cui conserva la memoria genetica e certe facoltà magiche, come la capacità di predire il futuro e leggere la mano.
Nella città di Shambhala, capitale del regno sotterraneo di Agharti, risiedono i Signori del Mondo, con a capo un Brahmatma (colui che ha il potere di parlare con Dio) ovvero Chakravarti (Re del Mondo), pontefice occulto universale, intermediario del volere divino. Insieme al Mahatma (colui che conosce il futuro) e al Mahanga (colui che provoca le cause affinchè gli avvenimenti si verifichino), il Brahmatma, forma una potente triade da cui dipende una società di cavalieri-sacerdoti, i Templari Confederati dell'Agharti, il cui livello più elevato è il cosiddetto "consiglio circolare" formato da dodici iniziati: lo stesso numero, fa rilevare Renè Guenon, dei Cavalieri della Tavola Rotonda di Re Artù. I potentissimi Templari Confederati dell'Agharti sarebbero in grado di prosciugare i mari, trasformare i continenti in oceani o far esplodere tutta la superficie del globo e trasformarla in un deserto.
Il Re del Mondo, che regna per il periodo di un Manvatara, una delle quattordici ere (la nostra è quella detta del Cinghiale Bianco) da cui è composto un ciclo cosmico, è il più alto esponente della Sinarchia, una sorta di Governo centrale di uomini di scienza, potentissimo e ramificato, i cui esponenti terreni (il Consiglio Europeo di Stati e il Consiglio Internazionale delle Chiese) ispirano e controllano i grandi moti politici o d'altro genere che segnano l'evoluzione del genere umano.
Infatti il Re del Mondo non è soltanto un capo religioso, ma regge anche i destini materiali del pianeta, influenzando il corso della storia (con criteri incomprensibili, secondo i nostri canoni) in accordo con un ineffabile piano divino. Di rado il sovrano si mostra al di fuori del suo regno: le ultimi apparizioni pubbliche sono avvenute nel monastero di Narabanchi nel 1890 (a quell'anno risalgono una serie di profezie che anticipano, con una precisione sconcertante, gli sconvolgimenti politici iniziati un secolo dopo), nel 1923 in Siam e nel 1937 a Delhi. Tuttavia comparirà davanti all'umanità quando sarà giunto il tempo di condurre gli uomini buoni contro i malvagi. Ma il tempo non è ancora venuto: gli uomini davvero malvagi non sono ancora nati.
Evidentemente, secondo i piani imperscrutabili del Re del Mondo, neppure Adolf Hitler era degno della sua venuta. Proprio lui che rivendicava l'antico legame con Agharti dei popoli nordici, veri eredi spirituali del Regno Occulto, sulla base di pretestuosi riscontri linguistici col termine Asghard, la città di Odino e degli Dèi dei miti germanici. Hitler che tramutò la svastica, simbolo cosmico e igneo-solare, la cui origine rispecchierebbe simboli sacri del Regno Sotterraneo, in un simbolo di oppressione e di morte.
Tutte le grandi religioni attuali trarrebbero origine dalla religione primordiale di Agharti e dai loro supremi sacerdoti e iniziatori. Anche se nel corso del tempo le religioni si sono secolarizzate, conservando solo un pallido ricordo della comune identità Rama, Melchidesec, Budda, Mosè, i Re Magi, Cristo, Maometto, sarebbero dirette emanazioni del Re del Mondo. Con l'aiuto e gli insegnamenti occulti dei Superiori Sconosciuti, potenti illuminati mescolati agli uomini di superficie, la tradizione originale di Agharti è stata portata avanti dalle Società esoteriche, organizzazioni mistiche composte da ristretti gruppi di iniziati.
Secondo Renè Guenon la frattura tra Agharti e l'Occidente si sarebbe generata nel XIV secolo, una rottura divenuta definitiva intorno al 1650, quando i rappresentanti della Società esoterica dei Rosa+Croce lasciarono l'Europa per ritirarsi in Asia. Da quell'epoca in poi, il deposito della conoscenza iniziatica non è più custodito realmente da nessuna organizzazione occidentale, e la parola perduta va ormai cercata soltanto tra i saggi del Tibet e della Tartaria .


Avicenna
Abû 'Alî Husain Ibn 'Abdallâh Ibn Sînâ, meglio conosciuto col nome latino di Avicenna, nacque nel 980 d.C. a Kharmaithen, presso Bukhara (ora Uzbekistan). Educato dal padre, governatore di un villaggio, Avicenna era un bambino con una memoria e una capacità di apprendimento fuori dall'ordinario. All'età di 10 anni aveva già memorizzato il Corano e la maggior parte della poesia Araba. Proseguendo i suoi studi da autodidatta, studiò logica e metafisica e all'età di tredici anni intraprese gli studi di medicina. A sedici era talmente padrone della materia da essere in grado di avere dei pazienti.
La sua reputazione medica fino a Nuh ibn Mansur, capo Samanide, che curò da una malattia. Come ricompensa, gli fu concesso di accedere alla Libreria Regale dei Samanidi, consentendogli lo sviluppo delle sue conoscenze in tutti i campi dello scibile. La sconfitta dei Samanidi e la morte del padre lo costrinsero a girovagare per diverse città del Khorasan. Visse a Khwarazm, fu maestro a Gurgan e successivamente amministratore a Rayy, continuando ad avere discepoli e a produrre un insegnamento di altissima qualità.
A Hamadan, in Persia centro-occidentale (ora Iran), divenne medico di corte del principe sovrano di Buyid, Shams ad-Dawlah, che lo nominò per due volte Gran Visir. A Isfahan entrò alla corte del principe locale e passò gli ultimi giorni della sua vita scrivendo opere di medicina, filosofia e lingua araba.
Nel giugno del 1037, durante la campagna militare, al seguito del suo patrono, si ammalò e morì di una misteriosa malattia, apparentemente una colica, forse avvelenato da uno dei suoi servi.
Filosofo, mistico e medico, Avicenna scrisse circa 450 opere, delle quali circa 240 sono arrivate a noi. "Il Canone della Medicina" è il più famoso e il più diffuso testo di insegnamento e compendio di scienza medica in Medio Oriente e in Europa. Nel XII secolo fu tradotto in latino, influenzando gli sviluppi della Scolastica filosofica e medica a Montpellier e nelle altre facoltà mediche medievali. Nel 1491 il Canone fu tradotto in ebraico e nel 1593 fu il secondo testo mai stampato in arabo.
Ma Avicenna diede il massimo apporto soprattutto in ambito filosofico. Combinando aristotelismo e neoplatonismo, discusse di ragione e di realtà, negando, come molti filosofi medievali, l'immortalità dello spirito individuale, sostenendo che Dio è puro intelletto e che la conoscenza consiste nella comprensione di quanto è intelligibile, grazie a ragione e logica. Per le sue dottrine divenne il bersaglio principale dei teologi Sunniti, come Al-Ghazali.
Oltre che di medicina e filosofia, scrisse anche di matematica, psicologia, geologia, astronomia, logica, scienze naturali, geometria, aritmetica, alchimia e musica. Sulle sue opere si formò Nostradamus e Dante mostra una riverente considerazione per Avicenna, che nella Commedia colloca rispettosamente nel limbo, piuttosto che nel profondo dell'inferno, in compagnia di Maometto.
La parte alchemico/mineralogica della sua opera enciclopedica venne tradotta in latino col titolo "De congelatione et conglutinatione lapidum". In essa era contenuta la critica radicale alla possibilità della trasmutazione che fu all'origine della disputa scolastica sull'alchimia. Tuttavia in una delle opere alchemiche che tratta dell'elixir, tradotte in latino sotto il suo nome, la "Epistola ad Hasen regem de re recta", sembra testimoniare un suo forte interesse per l'alchimia, successivamente sottoposta a critica. Certamente apocrifo è invece il "De anima in arte alchemiae", che ne fece agli occhi degli occidentali una delle massime autorità alchemiche.


Il prete Gianni
Nel 1165 Federico Barbarossa, papa Alessandro III e l'imperatore bizantino Manuele I Comneno ricevettero contemporaneamente una misteriosa lettera da parte di un'ambiguo personaggio, il Prete Gianni, che offriva i suoi servigi al pontefice e descriveva minuziosamente le meraviglie dei suoi vasti domini che si estendevano dalle Indie alla Babilonia. In numerose cronache di antichi viaggiatori medioevali che attraversavano le terre d'Oriente fino agli estremi confini del mondo si parlava spesso di questa contrada misteriosa, chiamata Regno del Prete Gianni, che si sarebbe trovata in una lontana regione al di là dei territori dominati dall'Islam, popolato da orribili mostri tra cui formiche grandi come cani che divoravano gli incauti visitatori, malvagi cannibali, uomini selvaggi dotati di corna che grugnivano invece di parlare, e draghi volanti montati da audaci cavalieri in armatura.
Molto probabilmente la leggenda del Prete Gianni trae origine da lontani eventi accaduti in Asia e giunti deformati dapprima in Terrasanta e da qui nel cuore dell'Europa. Quando in Europa giunse l'eco delle imprese di Gengis Khan, molti lo identificarono col Prete Gianni, il cui nome potrebbe derivare dalla traduzione del cinese wang, ovvero re, passato nel turco con la forma ong. Titolo portato da un certo Toghrul, detto Ong-Khan (in cinese Wang-Khan), capo di una tribù di nomadi turchi cristiani di Mongolia, che era il più potente principe dell'Asia Centrale e che effettivamente ebbe rapporti con Gengis Khan.
Alla leggenda darà nuova linfa vitale lo stesso Marco Polo che nel Milione cita varie volte il principato uiguro del Prete Gianni, arrivando ad attribuirgli due o tre personalità diverse. Il suo Regno sarebbe stato distrutto dall'armata di Gengis Khan all'inizio del XIII secolo d. C. dopo il rifiuto del Prete Gianni di dargli la figlia in moglie. Fonti più legate al fantastico sono di tutt'altro avviso: il misterioso re-sacerdote avrebbe scatenato la folgore contro gli eserciti Gengis-Khan, annientandoli.
La stessa lettera del sedicente Prete Gianni, comunque, calcava parecchio la mano, in materia di elementi favolosi, probabilmente attinti dai bestiari medievali. Tuttavia venne tradotta in tutte le lingue, letta sui pulpiti delle chiese e commentata in tutta Europa, aggiungendo via via nuovi elementi a una leggenda, che tendeva a consolidarsi nel tempo.
Le ricchezze di Prete Gianni erano incalcolabili, tanto che si narra che la sua tavola, costruita con enormi smeraldi, fosse ogni giorno imbandita per ospitare trentamila persone. Seduto sul suo scranno di zaffiri, indossava abiti in pelle di salamandra che venivano puliti gettandoli tra le fiamme. Ma la cosa più preziosa che Prete Gianni possedesse, oltre a uno specchio magico che gli consentiva di poter distinguere le persone pure di cuore dai malvagi, era la Fonte della Giovinezza, le cui acque erano in grado di rinvigorire e ridonare la forza a chi vi si immergeva. Prete Gianni stesso, grazie all'acqua miracolosa, sarebbe vissuto per ben cinquecentosessantadue anni.
Gli studiosi contemporanei sono propensi a credere che la famosa lettera del Prete Gianni fosse una colossale bufala, una gigantesca operazione di propaganda architettata dallo stesso Barbarossa, pro domo sua, elaborando diversi elementi tratti dalla letteratura antica e medievale, oltre che dai famosi i bestiari, allo scopo di contrastare lo strapotere della Chiesa con un potente alleato (immaginario) in Oriente.
Ma un mito è duro a morire e talvolta, paradossalmente, l'errore lo rafforza. Quando fu chiaro che in Asia non era mai esistito il misterioso personaggio, l'ubicazione del suo regno venne spostata prima nelle Indie e poi in Etiopia, facendo incarnare al negus a il mitico personaggio, descritto come il più potente uomo del mondo e il più ricco d'oro, d'argento e di pietre preziose. Secondo una teoria recente il nome Gianni potrebbe essere la latinizzazione di Zan, il titolo regale etiopico.
In Asia Centrale e particolarmente nella regione del Turkestan, i seguaci di Gianni erano chiamati, Mendayyeh di Yahia, che significa appunto Discepoli di Gianni. Così, Gianni (cioè Yahia) secondo interpretazioni cabalistiche, sarebbe in realtà Yahwe, il Nome di Dio. Oppure, in quanto Signore dei Tempi sarebbe lo Janitor, fabbro o iniziatore dell'Opera, armonizzatore del dualismo fra inizio e fine, Alfa e Omega, partenza e traguardo del cammino vitale, denunciando l'origine manichea della figura del Prete Gianni.
Gianni potrebbe anche derivare da Giano, antica divinità latina dalle due facce, il cui simbolismo riconduce al Cristo che, come l'antico Giano, porta lo scettro regale cui ha diritto in nome del Padre Celeste e con l'altra mano tiene la chiave dei segreti eterni, tinta del suo sangue, che aprì all'umanità la porta della vita. Giano ha la stessa radice del verbo ire (andare), radice che si trova anche nella lingua sanscrita, con lo stesso senso del latino: yana significa via, tao, nella tradizione orientale. Le dottrine del Prete Gianni sarebbero quindi riconducibili al dualismo Yin-Yang, lato oscuro e lato luminoso della natura che hanno nel Tao il loro principio supremo.
Tuttavia c'è anche la possibilità che testi finora considerati falsi come la lettera attribuita al Prete Gianni siano in realtà autentici e che il Presto Giovanni di cui parla Marco Polo sia un principe uiguro che aveva assunto la carica manichea di Prete Gianni.
Un grande regno uiguro si era infatti sviluppato nelle regioni occidentali della Mongolia Interna: il Regno dell'Orkhon, fondato nel 762 d. C. e divenuto manicheo, in seguito alla conversione del re (qaghan), che probabilmente assunse la guida politica e religiosa del movimento manicheo come Prete Gianni.
Spinto da difficoltà politico-militari, intorno al 1165 d. C., uno di questi principi potrebbe avere scritto davvero la famosa lettera a Federico Barbarossa, Papa Alessandro III e Manuele Comneno, Imperatore Romano d'Oriente.
Falsa o autentica che fosse, il Papa e Federico Barbarossa risposero alla lettera, inviando una spedizione nel 1177 d. C. Ma la spedizione incaricata dell'ambasciata, svanì nel deserto dell'Iraq e non se ne seppe più nulla.


Alberto Magno: santo e alchimista
Albert von Bollstädt nasce nel 1193 a Launingen an der Donau, cittadina della Svevia, da famiglia nobile. Studia a Padova dove, intorno al 1223, si unisce all'ordine dei Domenicani e dove, completati gli studi, insegna, continuando questa attività a Bologna, in Germania e poi, nel 1245, all'Università di Parigi.
Nel 1260 il papa Alessandro IV lo nomina vescovo di Ratisbona, ma l'anno successivo parte per Roma per rassegnare le sue dimissioni al nuovo papa Urbano IV, rimanendovi fino al 1263, quando il papa gli ordina di andare a predicare la crociata in Germania e in Boemia .
Fra il 1264 e il 1267 vive nel chiostro domenicano di Wurzburg e dal 1269 risiede a Colonia , come lector emeritus, fino alla morte avvenuta nel 1280. Beatificato nel 1622, fu proclamato santo da papa Pio XI nel 1931 e Dottore della Chiesa nel 1941da Pio XII.
Figura/chiave nel processo di integrazione della filosofia aristotelica con la scolastica medievale, illumina di nuova luce anche gli scritti di Avicenna e Averroè, mediante una progressiva apertura culturale ai principi dell'ebraismo e dell'islamismo, basandosi su traduzioni fino ad allora sconosciute al mondo occidentale. Teologo e filosofo di chiaro stampo sincretistico, pur ritenendo che la ragione non possa contraddire la rivelazione, difende il diritto dei filosofi a indagare i misteri divini, tentando un'inedita sintesi fra pensiero cristiano e filosofia antica, magia e teologia cristiana, oltre a essere il più insigne alchimista della sua epoca.
I suoi scritti comprendono opere di fisica, zoologia, astronomia, botanica, mineralogia, geografia, astrologia, nonché di magia, alchimia ed ermetismo. Si dice che avesse costruito un uomo artificiale o un automa a sembianze umane che apriva la porta ai visitatori, ne chiedeva il nome, rispondeva ed annunciava la visita al suo padrone. Tale automa sarebbe stato distrutto dal suo grande allievo Tommaso D'Aquino, non solo perché lo considerava opera del demonio, ma anche perché il suo cicaleccio disturbava i suoi studi.
Ad Alberto Magno siamo debitori delle definizioni di magia che ancora oggi usiamo.
1) La Magia Nera che evoca le forze demoniache col ricorso a malefici e incantesimi. In questa categoria è compresa anche la stregoneria e l'avocazione degli spiriti, retaggio dell'antica tradizione pagana.
2) La Magia Bianca, o Magia Naturale, si basa su principi e manifestazioni della natura e sull'influenza degli astri. È la magia praticata dai Magi, i tre sapienti venuti ad onorare il neonato Gesù.
3) La Magia Ermetica, fondata sul principio dell'interrelazione tra microcosmo e macrocosmo, fa riferimento alle virtù occulte delle piante, delle pietre, del sangue degli animali, degli amuleti e dei talismani. L'Alchimia è un'arte al confine fra questo terzo tipo di magia e la Magia Naturale perché è un'arte che consente di imitare la Natura, riproducendone gli immutabili meccanismi. Tuttavia Alberto Magno è pur sempre un domenicano e per non incorrere nelle accuse di eresia o stregoneria, pur ammettendo la Magia Ermetica negli scritti scientifici, influenzati dall'astrologia araba e dalla letteratura ermetica, negli scritti teologici la condanna per alcuni suoi elementi di carattere diabolico e nella prefazione ad uno dei suoi testi alchemici, elenca gli errori nei quali cadono più frequentemente gli alchimisti ed accenna alle regole a cui si debbono attenere, la prima di esse, la più importante, è la segretezza.


Castel del Monte
Nel gennaio del 1240, Federico II ordinò la costruzione di Castel del Monte, avvalendosi di maestranze altamente qualificate, dirette dai Templari, noti sia per la loro abilità di costruttori che per le loro capacità nel campo dell'economia e della finanza (avviarono persino traffici internazionali di tipo bancario).
Per costruirlo, Federico fu costretto a confiscare i beni della Chiesa, dato che negli anni 1239/40 non aveva il becco di un quattrino, tanto da dover battere moneta di cuoio perché non aveva più argento per pagare le maestranze.
Le chiese costruite dai Templari rispettavano frequentemente la pianta rotonda del S. Sepolcro in Gerusalemme e si chiamavano ovunque "Il Tempio". I castelli, invece, erano normalmente costituiti da un corpo centrale quadrato con quattro torri agli spigoli. Castel del Monte venne costruito secondo l'architettura del Tempio di Salomone (le cui quattro misure-chiave erano 60 - 30 - 20 - 12 cubiti) e voleva essere la sintesi delle tre religioni monoteiste.
L'architettura del castello, è un vero gioiello di matematica il cui stile segna il passaggio dalle poderose strutture portanti romaniche a quelle gotiche, in cui predominano gli archi acuti, che consentono eleganti slanci verticali.
Sulle colonne che fiancheggiano l'ingresso ci sono due leoni: uno guarda nella direzione in cui sorge il sole al solstizio d'inverno, l'altro guarda nella direzione in cui sorge il sole al solstizio d'estate. Vi è una certa dissonanza tra la linearità del castello e la ricchezza del portale, un pentagono convesso in cui è inscritto un pentagono stellato, trasposizione geometrica di stampo pitagorico del corpo umano (il famoso uomo di Nettesheim).
Le pareti del piano superiore erano tutte rivestite di marmi preziosi che sono stati rubati assieme a sculture e bassorilievi. Dalla chiave di volta della settima sala del primo piano di Castel del Monte, domina un volto terribile, dalla chioma e barba fiammate dalle quali sporgono due strane orecchie spesso scambiate per corna, presentato ai visitatori come un fauno. È Baphomet, la misteriosa divinità che si dice fosse adorata dei Templari, le cui fattezze erano tenute segrete.
Contrariamente alle scale a chiocciola dei castelli militari che girano verso destra (per non agevolare chi sale con la spada in mano), quella all'interno del castello gira verso sinistra. Ciò dimostrerebbe che Castel del Monte non è un castello di difesa ma un edificio costruito per altre finalità, forse iniziatiche.
Sembra che Federico II, prima di morire, venisse a conoscenza di un terribile segreto che avrebbe celato in un anagramma, ancora oggi indecifrato. Su una scultura femminile attorniata da cavalieri fece incidere queste misteriose lettere: D8 I D CA D BLO C L P S H A2. In questa enigmatica formula sarebbe celato il segreto Di Federico II e di Castel del Monte.


I Templari
Accusati di eresia e immoralità dal Concilio di Vienne del 1312, il 18 marzo di due anni dopo a Parigi, su una piccola isola della Senna, furono arsi sul rogo Jacques de Molay, Gran Maestro e altri dignitari e Cavalieri Templari. Avrebbero adorato un idolo chiamato Baphomet, la testa di un dèmone dagli occhi di carbonchio e una vecchia pelle d'uomo imbalsamata che avrebbero unto con grasso di neonato.
In realtà era la potenza dei Templari la spina vera nel fianco di Filippo IV di Francia (Filippo il Bello) che di Papa Clemente V, che aveva sciolto con una bolla papale l'ordine religioso-militare, fondato nel 1118 per ordine di San Bernardo da Chiaravalle, su modello dei Templari di Agharti o dei Templeisen custodi del Graal.
Lo scopo degli appartenenti all'ordine, ospitato in un palazzo che sorgeva sulle rovine del tempio di Gerusalemme, era di proteggere i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Pur essendo laici, facevano voto di castità, obbedienza e povertà, indossavano una cappa bianca con una croce rossa, erano divisi in Cavalieri, Cappellani, Sergenti, Artigiani , comandati da un Gran Maestro e da un Concilio che dipendevano direttamente dal Papa.
Fedeli al Dio degli Eserciti, il loro sogno era un Papa templare che avrebbe unificato l'Europa in una teocrazia o repubblica mistica. Ma fin dall'inizio i Templari l'ordine ebbe un forte carattere iniziatico. Si dice che scoprissero nei sotterranei del tempio di Gerusalemme l'Arca dell'Alleanza, il segreto della vera natura di Gesù, dell'alchimia e della costruzione delle cattedrali gotiche. Grazie a certe carte segrete avrebbero perfino raggiunto le Americhe tre secoli prima di Colombo, sfruttando le miniere d'argento del Messico per finanziare l'edificazione delle Cattedrali.
Accumulando immense ricchezze e gran quantità di terreni, edificarono circa novemila castelli, chiese e edifici (caratterizzati spesso da una pianta circolare) in tutta l'Europa. Per spostare ingenti somme di denaro in modo sicuro, inventarono perfino l'assegno bancario. Durante la battaglia di Acri del 1291, che segnò la fine delle crociate, avrebbero avvolto le spoglie del loro comandante in un lenzuolo conosciuto poi come la Sindone. Accusati di eresia e immoralità da Filippo il Bello, i Templari dichiararono la propria innocenza ma sotto tortura ammisero le loro colpe, che poi ritrattarono. Condannati al rogo, i loro beni furono confiscati e assegnati a nobili francesi e agli Ospitalieri (attuali Cavalieri di Malta).
Secondo la leggenda, i Templari non si sarebbero affatto dispersi, ma avrebbero nascosto la maggior parte dei loro tesori, continuando la loro attività esoterico-economica attraverso società iniziatiche come la Massoneria. Nel Pendolo di Foucault Umberto Eco ha sviluppato la tesi fantastica secondo cui costituirebbero tuttora un potente Governo Occulto al di sopra degli stessi Governi mondiali.


Castel dell'Ovo
Durante il Medioevo e il Rinascimento si sviluppò e trovò enorme credito a Napoli la leggenda di Virgilio Mago-Salvatore della città, prima di S. Gennaro protettore da iatture come l'invasione di insetti o serpenti, e così via. Il giovane Virgilio avrebbe appreso i segreti della magia da un misterioso libro, colmo di conoscenze soprannaturali, sottratto al mago Creonte, che lo usava per poggiarvi la testa, nella sua grotta incantata nel monte Barbaro, in zona flegrea.
Molte cronache medioevali napoletane raccontano che a protezione della città Virgilio pose un uovo magico, collocato in un'anfora all'interno di una gabbia di ferro finemente lavorata, appesa a una trave fra le pareti di una piccola stanza segreta all'interno del castello che sorgeva sull'isolotto di Megaris. La rottura dell'uovo avrebbe causato la distruzione dell'intera città.
È questa la leggenda di Castel dell'Ovo, il più antico castello di Napoli che sorge sull'isolotto unito (artificialmente) alla costa dal borgo marinaro di S. Lucia, lo stesso isolotto su cui, a metà del VII secolo a. C., sbarcarono i Cumani che fondarono il primo nucleo della città (Partenope). Nell'età classica l'isolotto divenne rifugio di eremiti, che occupavano le piccole grotte naturali ed i ruderi di una grande domus luculliana. In seguito vi furono costruiti numerosi edifici conventuali da parte di religiosi e religiose, fuggiti dall'oriente durante la lotta iconoclastica promossa dall'Imperatore Leone III Isaurico, portando con sé le reliquie dei santi.
È noto che nel medioevo fiorivano a Napoli le ricerche alchemiche, spesso celate nei monasteri e sembra confermata la presenza sull'isolotto, in epoca medioevale, di monaci/alchimisti che surrogavano con la distillazione dell'acqua marina l'Acqua degli Alchimisti (rugiada raccolta all'alba) dal grado altissimo di "purezza cosmica". Sembra che la particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio agevoli i processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione".
Perché Dante, affiliato alla setta dei Fedeli d'Amore, aveva voluto come guida proprio Virgilio, nella sua esoterica Commedia? Probabilmente perché a Neapolis Virgilio sarebbe stato iniziato davvero alla conoscenza segreta della natura dei culti di Cerere e Proserpina, apprendendo l'Ars Regia da un e proto/alchimista seguace dei misteri orfici, operante nella campagna napoletana. Così forse l'uovo di Virgilio non sarebbe altro che l'uovo filosofico, nome esoterico dell'Athanor, in cui avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari (zolfo e mercurio) in oro alchemico, operazione iniziatica atta a trasmutare lo spirito e l'intelligenza dell'alchimista stesso.
In ogni caso, il suo talismano non si sarebbe rivelato poi così efficace contro le minacce degli uomini e della natura, tanto che al tempo di Giovanna I d'Angiò, un fortissimo maremoto provocò il crollo dell'arcone che unisce i due scogli sul quale è costruito il castello, causando la completa rovina del Castello. Per evitare che in città si diffondesse il panico, la Regina fu costretta a dichiarare solennemente di aver provveduto a sostituire l'uovo di Virgilio.


Dante Alighieri, cabalista, sufi, templare o extraterrestre?
L'attenzione di Dante per le corrispondenze numeriche mostra non solo la sua conoscenza della filosofia pitagorica, della Bibbia, dei filosofi ebraici del Medioevo ma anche, forse, della Cabala. Nella tradizione ebraico-cristiana alcuni numeri hanno un significato mistico e magico: l'uno‚ simboleggia l'unità di Dio, il tre‚ esprime la Trinità, il valore del dieci risiede nel numero dei Comandamenti. Numeri che ritornano insistentemente nella Commedia, che si divide in tre Cantiche, ciascuna composta di trentatrè Canti, corrispondenti all'età di Cristo. I Canti si compongono di terzine, mentre nei tre regni vi sono nove settori (cerchi, zone purgatoriali, cieli), cioè il tre moltiplicato per se stesso. I cento Canti totali corrispondono al quadrato di dieci.
La maggior parte della critica dantesca, ha trascurato un'altra importante chiave interpretativa della Divina Commedia, dato che pare ormai certo che Dante Alighieri appartenesse all'Ordine dei Templari. La rilettura dell'opera in questa chiave la rivela intrisa di questa dottrina, non solo per eventi, fatti e giudizi che Dante esprime sugli spiriti incontrati nell'al di là, ma anche per la struttura morale della composizione, il cui impianto deriverebbe dal famoso "Libro della Scala", testo arabo che tratta della visione di Maometto e del suo viaggio nei regni dell'oltretomba.
Secondo alcuni Dante conosceva addirittura l'arabo e nella Commedia aveva ben presenti alcuni testi di filosofia sufi. Così l'enigmatica frase: "Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!" andrebbe tradotta dall'arabo: bab es Satan, bab es Satan, aleppe (è la porta di Satana, allontanati!). Anche se altra fonte la farebbe derivare invece dal francese: pas paix, Satàn, pas paix, Satàn, à l'epée! (non pace, Satana, non pace, Satana, alla spada!), la cui simbologia riporterebbe in modo più diretto alla fede templare del poeta.
In ogni caso, Dante avrebbe potuto benissimo conoscere il "Libro della Scala" in una versione provenzale o dalla traduzione del senese Bonaventura, notaio e scrivano di re Alfonso, traduttore delle due versioni latina e francese, già in circolazione in Toscana fin dalla seconda metà del Duecento.
Nella Commedia, Dante riprende più volte il simbolo dell'Aquila e la Croce, raffigurata nel sigillo di molti Gran Maestri Templari e gli conferisce il significato di vita contemplativa e attiva, con i corrispondenti poteri/guida dati da Dio all'umanità per condurla alla felicità terrena e a quella celeste: il potere temporale e il potere Papale, in cui si vede compendiato anche l'ideale di felicità del dettame templare. Già la "Vita Nova", del resto, è scritta in linguaggio iniziatico e tratta dei rapporti del poeta, in qualità di affiliato, con la setta segreta dei Seguaci d'Amore, mistici di tendenza Ghibellina.
Probabilmente Dante visse con intensa passionalità il dramma della distruzione dell'Ordine, tanto da raffigurare la Curia di Avignone, scandalosamente succube di Filippo il Bello, come la meretrice dell'Apocalisse sul carro trionfale di Beatrice.
Geniale sintesi e compendio del sapere medievale, la Divina Commedia è un'opera talmente universale, cosmica, fuori da ogni confine spazio/temporale, da permettere perfino interpretazioni New Age. Infatti, sotto le mentite spoglie di Virgilio si sarebbe nascosto un maestro extraterrestre in missione sulla Terra (per conto di Dio?), allo scopo di indirizzare l'umanità verso la positività della Forza Creativa e propagare attraverso Dante un messaggio di Cosmica Verità Celeste.
Perché no? …fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.


Libri di pietra: le cattedrali gotiche
C'è chi afferma che i costruttori delle cattedrali fossero gli eredi spirituali di Hiram, il mitico architetto dell'antico Tempio di Gerusalemme. Sarebbero stati i Cavalieri Templari a svelare gli antichi segreti ebraici sulle "Leggi Divine dei Numeri, dei Pesi e delle Misure" che governano questo tipo di costruzioni. Così non è casuale che le cattedrali gotiche cominciassero a sorgere attorno al 1128, proprio quando i Templari ritornarono in Francia.
Costruite da corporazioni dalle forti componenti esoteriche (i Compagnons e i Maçons ), le decorazioni delle facciate, le statue che adornano i transetti e le navate, le vetrate, i disegni dei pavimenti sono letteralmente gremiti di simboli magici, esoterici, alchemici. Tra le tante figure simboliche ricorre la rosa, che in termini esoterici rappresenta sia il Graal, sia il leggendario Sigillo di Re Salomone , sia il simbolo alchemico che indica il tempo necessario alla preparazione della Pietra Filosofale.
Nel suo celebre saggio I segreti delle Cattedrali, Fulcanelli definisce le cattedrali gotiche libri di pietra. Infatti le forme, le decorazioni, i labirinti di queste gigantesche dimore filosofali non servirebbero solo a creare un'atmosfera mistica per infondere nei fedeli il desiderio di elevarsi a Dio, ma descriverebbero il percorso iniziatico della Grande Opera.
La maggior parte delle cattedrali sorgono su "nodi" di correnti terrestri oppure su luoghi sacri precedenti, in cui si praticava il culto della Grande Madre. Grazie alla loro precisa disposizione sarebbero veri e propri ricevitori della potenza solare (proveniente dal Cielo) e di quella lunare (proveniente dalla Grande Madre, nascosta nelle viscere della Terra). In tal modo le due forze percorrerebbero "la colonna vertebrale dei fedeli, aprendoli all'illuminazione".
Niente è casuale nelle cattedrali gotiche, dalle antiche come quella di Chartres, alla moderna Sagrada Familia di Antoni Gaudì, a Barcellona. Le guglie svettanti verso il cielo, gli archi rampanti che sostengono un arditissimo gioco di spinte, controspinte e chiavi di volta, hanno la funzione di accentuare la dimensione verticale e trasmettere una tensione verso la divinità. Tutto ciò serve a creare una sorta di simmetria tra Cielo e Terra e ad aumentare il potere di risonanza eterea, anche grazie a pozzi scavati nei sotterranei di molte cattedrali gotiche, la cui profondità corrisponde all'altezza della guglia più alta.
Ogni cattedrale gotica è un gioco di equilibri talmente bilanciato che, secondo una leggenda, basterebbe trovare la pietra giusta e rimuoverla e l'intera cattedrale si affloscerebbe come un castello di carte.


Paracelso
Uomo rinascimentale a tutto tondo, esperto in ogni ramo dello scibile, filosofo, chimico, alchimista (ispirò Goethe per il personaggio del Dottor Faust) pioniere della scienza medica, dissacratore e bohèmien, Philipp Bombast von Hohenheim nasce nel 1493 a Einsiedeln, presso Zurigo, dove trascorre i primi anni dell'infanzia. Dal padre Wilhelm, che esercita la professione medica, apprenderà i primi rudimenti dell'Ars Regia. La madre muore poco dopo la sua nascita.
Si hanno poche notizie certe sulla sua vita. I suoi nemici lo descrivono come ciarlatano, negromante dedito a pratiche diaboliche, ubriacone e alchimista folle, uso a mescolare l'aroma dei vini bianchi alsaziani con quello dello zolfo o del salnitro. Si sa solo che questo ometto geniale, alto solo 150 cm, si ribattezza pomposamente come Aureolo Teofrasto Paracelso (il Dorato e Sublime Interprete di Dio), che non si separa mai da un'enorme spada, nella cui elsa nasconde delle pillole di laudano e che forse frequenta, come studente girovago, varie università tedesche da Tubingen a Heidelberg da Wittenberg a Ingolstadt e Monaco, anche se non segue studi regolari, insofferente di ogni subordinazione e autorità.
La leggenda ce lo raffigura come un taumaturgo prodigioso, un secondo Apollonio di Tiana, viaggiatore instancabile e spiantato, spesso costretto a mendicare o a seguire diversi eserciti come medico militare, percorre l'Europa, l'Africa e l'Asia, dove scopre i più alti segreti. Medico esemplare, i suoi libri sono i corpi dei pazienti divorati dalla sifilide, grande ossessione del Cinquecento. Intorno al 1520 lo troviamo nel Tirolo a studiare le miniere, le caratteristiche dei minerali e le malattie dei minatori. Nel 1527 guarisce Erasmo da Rotterdam da una grave malattia. Perseguitato dai nemici e da problemi giudiziari, Paracelso scappa di città in città e muore a Salisburgo il 24 settembre del 1541, si presume ucciso.
Vissuto nel cuore di quell'epoca cruciale della storia d'Europa in cui s'incontrano il Rinascimento e la Riforma, le scoperte geografiche e i primi prodromi della scienza moderna, l'opera di Paracelso si basa essenzialmente sulla costruzione di un impianto teorico fondato sull'intuizione delle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, un mondo costituito, in grande come in piccolo, da particelle viventi, da entia. In antitesi alla medicina tradizionale, da Avicenna a Galeno, i quattro pilastri su cui si fonda la sua dottrina sono la filosofia, l'alchimia, l'astronomia e le virtù (prima fra tutte l'amore per il prossimo).
Contrario alla fitoterapia, è il precursore della iatro-chimica, la terapia basata sull'analisi e la distillazione dei minerali, dai quali estrae le sostanze che servono a preparare i medicamenti. Anche se la sua filosofia non si accosta a un modello cristiano, ma piuttosto al pensiero gnostico, considera il mondo intero un farmaco e Dio il sommo farmacista: "Dio è il vero medico e la medicina stessa".
Alchimista e filosofo rinascimentale, iniziato ai segreti ultimi dell'uomo e della natura, il pensiero di Paracelso ha ancora curiosi residui animistici, tratti dal pensiero popolare medioevale, brulicante di streghe, incubi, succubi, demoni, silfidi, ondine. A riprova di ciò, in una lettera all'imperatore spiega che la grande epidemia di peste del tempo è dovuta senza dubbio all'azione di súccubi generati nelle case di prostituzione.


John Dee
Trasfigurato nel personaggio di Prospero del contemporaneo Shakespeare, che nella Tempesta ha ai suoi comandi lo spiritello Ariel, John Dee, alchimista, matematico e geografo, è l'autentico prototipo del mago elisabettiano. Nato a Londra il 13 Luglio del 1527, a sedici anni di età, fu iscritto dal padre a Cambridge. Qui, per la messa in scena della "Pax" di Aristofane, inventò lo Scarabeus, una blatta meccanica che volò per aria trasportando un uomo, sbalordendo a tal punto il pubblico da convincere molti che tale meraviglia fosse opera del demonio.
Nel 1555 venne accusato di aver attentato con arti magiche alla vita della regina Mary, salvando il collo per miracolo, ma in occasione dell'ascensione al trono di Elisabetta, nel 1558, venne incaricato di redigere un oroscopo per accertare la data più favorevole alla sua incoronazione.
Grazie al favore di Elisabetta I, con cui s'intratteneva sulla filosofia occulta, l'Elisir e la Pietra Filosofale, conobbe gli onori e la gloria, ma anche la disgrazia e la miseria quando la sovrana cambiò atteggiamento nei suoi confronti.
Nel suo volume Monas Hieroglyphica, pubblicato nel 1564, si possono rinvenire le radici del pensiero dei Rosacroce e la biblioteca della sua casa di Mortlake conteneva circa tremila volumi, centinaia di manoscritti, documenti celtici, antichi sigilli e genealogie, oltre a una vasta collezione di strumenti scientifici: astrolabi, quadranti, globi, ogni sorta di strumenti ottici e di navigazione (inventò lui stesso uno strumento di navigazione: il Compasso Paradossale, utile a correggere gli errori nel tracciare le carte).
Nel 1580 iniziò il suo connubio con l'ambiguo Edward Kelley, veggente venticinquenne dal passato oscuro (in quanto falsario gli erano state tagliate le orecchie) con cui, su suggerimento di uno Specchio Magico, in seguito avrebbe operato uno scambio delle reciproche mogli.
Come narrato da Gustav Meyrink nel romanzo L'Angelo della Finestra d'Occidente, un angelo verde apparve a John Dee e gli consegnò una pietra rotonda e convessa, simile ad un cristallo nero. Posta sopra una tavola ornata di simboli e divisa in settori detti Aethyr, permetteva di ricevere visioni dai mondi ultraterreni, ricavandone messaggi nella lingua enochiana (insegnata dall'angelo a Dee), l'idioma parlato da Adamo nel Paradiso terrestre (anche Dante nel Paradiso fa riferimento a questa lingua, scomparsa prima della Torre di Babele). Dee e Kelley ricevettero dagli angeli notizie, rivelazioni e formule evocatorie ancora oggi utilizzate da molte società magiche per contattare i mondi ultraterreni.
Dopo un soggiorno di alcuni mesi nel castello del nobile Polacco Alberto di Lasky, presso Cracovia, Dee e Kelley si recarono a Praga, alla corte dell'imperatore Rodolfo II, pedinati dal fiorentino Francesco Pucci, spia del Sant'Uffizio, rischiando di venire consegnati all'Inquisizione.
Nel 1589 la regina Elisabetta lo richiamò in patria e lo nominò rettore del Christ's College di Manchester. Ma dopo la morte della regina (nel 1603), Dee cadde in disgrazia, anche perché il suo successore, Giacomo I era nemico giurato di maghi e negromanti (auore lui stesso di "Demonologia", testo ufficiale dei cacciatori di streghe). John Dee morì solo e dimenticato nel 1608.


Giuseppe Francesco Borri
Avventuriero, alchimista e profeta messianico, precursore della figura di Cagliostro, nasce a Milano nel 1630. A Roma, nel Seminario dei gesuiti, il giovane Borri entra in contatto con le dottrine alchemiche e cabalistiche, ben diffuse in ambienti ecclesiastici, come già fra i Domenicani e i Francescani alchimisti del medioevo.
Dopo aver capeggiato una ribellione dei seminaristi, nel 1650 viene espulso dal seminario, iniziando la propria attività di medico e di alchimista tra i pellegrini dell'Anno Santo. In questo periodo ha i primi contatti col marchese/alchimista Massimiliano Palombara, legati alla leggenda della Porta Ermetica (di cui parliamo diffusamente altrove).
Nel 1655 il Borri frequenta, la regina Cristina di Svezia, appassionata cultrice di alchimia, che ha appena abdicato ed è venuta a stabilirsi a Roma con il suo seguito.
Nel 1656 a Roma scoppia la peste (che si diffonde rapidamente in tutta l'Italia centromeridionale ed a Genova). Cristina abbandona precipitosamente la città e il Borri ritorna nella natia Milano, dove diviene figura centrale del movimento messianico milanese. Nelle sue estasi visionarie, vede un mondo retto da una teocrazia papale che porterà a una nuova età dell'oro, nel trionfo dei valori di un cristianesimo rinnovato e universale. Incriminato per eresia e veneficio (in riferimento alle sue conoscenze alchemiche) inizia un periodo di peregrinazioni nell'Europa che lo porterà a fama ed onori. Principi e mercanti accorrono a consultare il prodigioso medico alchimista, ma nel 1659 viene condannato in contumacia. Nel Gennaio 1661, l'effigie del Borri viene impiccata e bruciata insieme ai suoi scritti in Campo de' Fiori, dopo pubblica processione, nello stesso luogo ove 60 anni prima era stato giustiziato Giordano Bruno.
A Innsbruck il Borri riprende la sua attività di medico, poi si trasferisce a Strasburgo, dove si crea una schiera di entusiastici ammiratori delle doti di medico e iatrochimico. Si trasferisce successivamente ad Amsterdam, dove estende la sua fama di terapeuta ed alchimista in svariati campi dello scibile : magia, cosmesi, ingegneria.
A Copenaghen, alchimista alla corte di Federico III, è uno dei più fidati consiglieri del re. Ma con l'ascesa al trono del figlio Cristiano V, nel 1670, la sua fortuna a corte declina. In Moravia, mentre è diretto in Turchia, viene arrestato e consegnato nelle mani del Vaticano, sul cui seggio pontificio sedeva allora Clemente X.
Dopo pubblica abiura ed atto di penitenza, la condanna a morte viene commutata in carcere a vita, sistemato in una struttura a Castel S. Angelo in cui gli è perfino permesso attrezzare un laboratorio e continuare i suoi studi. Nel 1678 ottiene una sorta di regime di semilibertà, frequenta le case del Palombara e della regina Cristina, sempre più interessata ai misteri della Pietra Filosofale.
Nel 1670 Cristina di Svezia muore. Al soglio pontificio sale Innocenzo XII che elimina subito ogni privilegio al Borri, segregandolo a Castel S. Angelo. Affetto da febbri, il medico prescrive a sé stesso corteccia di china, la cura più avanzata disponibile al tempo. Ma la corteccia arriva troppo tardi e il 16 di Agosto 1695 il Borri muore.


Alchimia e Santa Inquisizione
Fondata nel 1184 da Papa Lucio III come speciale tribunale ecclesiastico per combattere e sopprimere l'eresia, a poco a poco la Santa Inquisizione allargò la sua funzione fino ad includere anche la repressione di altre pratiche considerate contrarie alla fede, come la stregoneria e l'Alchimia, ad essa assimilata. Grazie a ciò gli alchimisti furono costretti a ideare un codice simbolico segreto ed un alfabeto magico comprensibile solo agli iniziati, con cui potevano comunicare tra loro senza correre il rischio di essere scoperti dalla Santa Inquisizione.
Nel 1231 Gregorio IX istituì la Congregazione del Santo Uffizio, il cui vessillo recava una croce nodosa, con una spada e una pianta d'olivo ai lati, con un'iscrizione tratta dal salmo 73: exurge domine et judica causam tuam.
Nel corso del tempo l'Inquisizione venne ampiamente strumentalizzata dal potere temporale, come accadde col lungo processo per l'eresia (1304 - 14), orchestrato da Filippo il Bello, contro i Templari, indotti a confessare sotto tortura tutti i capi d'imputazione, spesso grotteschi, raccolti dagli inquisitori.
Anche l'inquisizione Spagnola fu uno strumento di terrore e potere al servizio della corona, a cominciare dal 1478, quando Papa Sisto IV, su richiesta di Ferdinando ed Isabella di Spagna, ripristinò i tribunali in Spagna e Sicilia.
La Santa Inquisizione, i cui metodi hanno fatto scuola a ogni sistema totalitario fino ai giorni nostri, mise in moto una macchina infernale e perfetta che, creando un clima di delazione, sospetto e paura, avrebbe soffocato il dissenso religioso (e politico) in tutta Europa. Secondo molti studiosi furono proprio le confessioni estorte dai raffinati supplizi dell'Inquisizione a codificare e istituzionalizzare la stregoneria.
Il mostruoso serbatoio teorico di cui si nutrivano gli inquisitori era il "Malleus Maleficarum". Scritto nel 1486 da Jacob Sprenger e Heinrich Institoris, inquisitori domenicani tedeschi, fra le altre cose il libro teorizza la stregoneria come il frutto dell'inferiorità intellettuale e morale della donna, aggiungendo inoltre che le streghe "sono causa di impotenza; hanno la mente perennemente rivolta al male, sono tentatrici e lussuriose e uccidono i bambini". Tuttavia l'attuale revisionismo in corso, orchestrato dallo stesso Santo Uffizio, contesta la tesi secondo cui questo testo sia stato realmente canonico per la persecuzione dei sospettati di stregoneria, documentando come una filosofia radicalmente opposta trovasse consensi crescenti nei tribunali fin dalla seconda metà del 1500.
Un altro testo canonico fu "Demonolatria", scritto nel 1585 da Nicholas Remy che, come inquisitore, fu responsabile di circa 3000 condanne al rogo.
Nell'ambito del processo di revisione storica che la Chiesa cattolica ha inteso compiere entro il Giubileo del 2000, il 23 gennaio 1998, con l'apertura degli archivi del Sant'Uffizio si è concluso un lento e prudente processo iniziato nel 1881, quando Papa Leone XIII (1878-1903) volle aprire agli studiosi l'Archivio Segreto Vaticano. Grazie a ciò, quasi tutte le ricerche odierne oscillano tra riabilitazione e apologia dichiarata del Santo Uffizio, aprendosi con la solenne dichiarazione che la 'leggenda nera' dell'Inquisizione è definitivamente sfatata. Un banale fraintendimento della terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato più di uno studioso, contribuendo alla cattiva fama dell'istituzione e alla falsa l'immagine dell'inquisitore feroce e ignorante. Gli inquisitori sarebbero stati, invece, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, volti ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa.
Tuttavia è singolare, dice a tale proposito Hans Kung, che alla testa della commissione che ha elaborato il documento grazie al quale Giovanni Paolo II ha chiesto pubblicamente perdono per l'operato dell'Inquisizione, si trovi proprio il capo dell'Inquisizione odierna. Infatti il tribunale non è mai stato sciolto, ma ha solo cambiato nome: ora si chiama "Congregazione per la Dottrina della Fede", il cui prefetto è il cardinale Joseph Ratzinger.
Istituzione terribile e a tratti grottesca, l'Inquisizione, non era soltanto un tribunale della fede, ma anche della ragione imponendo giuridicamente la credenza stessa nella Magia Nera (la sua negazione era eresia), senza ammettere dubbi, tentennamenti ne' tantomeno ironia (eresia essa stessa, punibile col rogo). Chi avrebbe potuto permettersi il lusso di ridere quando a Basilea, nel 1749, un gallo fu accusato di stregoneria e condannato al rogo per aver tentato di covare un uovo?
Nessuno aveva accessi d'ilarità quando la presunta strega veniva introdotta in tribunale camminando all'indietro, perchè non gettasse maleficio ai giudici con lo sguardo. E non rideva di certo chi veniva condannato al rogo per i (demoniaci) attacchi di epilessia e nemmeno quella donna che nel 1617 fu bruciata viva perché non aveva pianto quando le avevano comunicato l'assassinio del marito (notoriamente le streghe non sono in grado di versare lacrime).
Con poche variazioni locali, il codice di procedura penale dell'Inquisizione prevedeva che, dopo la confisca dei beni per colui che era semplicemente incolpato, l'accusato/a venisse rasato da cima a fondo e completamente depilato, perchè si riteneva che streghe e stregoni fossero immuni al dolore finché avessero avuto capelli o peli in corpo. Dato che l'anima di una strega o di un eretico era ritenuta sporca e corrotta, prima del giudizio veniva praticata la "pulizia dell'anima", basata sull'ingestione forzata di acqua calda, carbone o sapone. Minacciando l'accusato di tortura, se non confessava spontaneamente, veniva finalmente letta l'accusa, alla presenza del boia.
Il revisionismo storico in corso nega che all'imputato non fosse prevista difesa, in virtù della formula giuridica "Absque strepitu advocatorum", affermando che il Sant'Uffizio fu un vero e proprio pioniere della riforma giudiziaria, con l'avvocato difensore come parte integrante della sua procedura e l'imputato che disponeva di un ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica (verissimo, vista la durata delle detenzioni), dopo aver ricevuto copia dell'accusa nei suoi confronti (evento piuttosto dubbio).
In ogni caso, la prima parte dell'interrogatorio era abbastanza leggera: qualche frustata, l'interruzione del sonno per giorni e giorni, la sospensione per le braccia legate dietro la schiena, il martellamento della tibia. Se l'accusato non resisteva al dolore e confessava era immediatamente condannato e la sua confessione non poteva essere ritrattata, pena l'accusa di "relapsia", con successiva condanna al rogo. Se invece l'accusato resisteva, si passava alla seconda fase: il fuoco sotto i piedi, il cavaletto, gli aculei, la rimozione a strappo delle unghie e del seno, la frattura delle ossa. Se resisteva ad oltranza, era segno che godeva del potere conseguito col patto diabolico, ed era senz'altro condannato al rogo.
Dato che le torture non erano gratis, la famiglia della vittima era tenuta a pagare una tassa alla Chiesa, con un meticoloso tariffario per ogni singola tortura. Un vero e proprio business che agevolava alquanto la potente confraternita dei torturatori professionisti.
Anche se fino al secolo XVII l'Inquisizione, come tutti gli altri sistemi giudiziari europei, ricorse alla tortura, gli studi recenti, in linea con le ultime direttive della Santa Sede, negano l'insistenza criminale con cui venivano estorte le confessioni. L'accusato avrebbe goduto di diverse garanzie giuridiche, fino all'eventuale sostituzione per carente obiettività dell'inquisitore che si occupava del caso. A differenza dei giudici civili, l'Inquisizione avrebbe fatto un uso limitato della tortura, non ritenendolo uno strumento utile a condurre alla verità, soprattutto perché molti accusati erano in grado di sopportare agevolmente i tormenti. A tale proposito i revisionisti (sicuramente meritevoli essi stessi di qualche tratto di corda) ci chiedono di tenere presente che i nostri antenati erano tarati su livelli di sofferenza del tutto intollerabili all'uomo contemporaneo, perché l'uso dell'anestesia e dei comuni analgesici ha mutato radicalmente il nostro concetto di tolleranza alla sofferenza fisica.
Insomma, i modi ingegnosi e sadici dei Ragni di Muro (come venivano denominati gli inquisitori) d'infliggere l'agonia sarebbero l'esito di una propaganda falsa e tendenziosa che avrebbe sfruttato per secoli la credulità popolare. Probabilmente anche le raffinatissime macchine di tortura usate dall'Inquisizione erano solo innocenti giocattoli intimidatori, allo scopo di diventare, in futuro, divertenti cimeli per ricchi collezionisti fetish e sadomaso.
I recenti fanatismi di alcune sette (il suicidio di massa della Guyana, quello svizzero-canadese del Tempio del Sole, il gas nervino nella metropolitana di Tokyo, "Satana" Manson, ecc.) offrono il fianco a un revisionismo apologetico della Santa Inquisizione, che praticamente avrebbe salvato l'umanità dalla follia, prevenendo i futuri disastri di utopie, ideologie e culti fanatici. Ma quando Giovanni Paolo II ci chiede di perdonare, storicizzando gli errori (e orrori) commessi dalla Chiesa, sembra sorvolare sul dogma dell'infallibilità papale, che dovrebbe essere atemporale per definizione.
Inventando la detenzione come pena alternativa al rogo, alla mutilazione, ai lavori forzati sulle galee o all'esilio, l'Inquisizione viene considerata all'avanguardia in materia penale, ultima spiaggia per chi era ricercato dal "braccio secolare", cioè dal potere civile: se si pentiva la Chiesa lo proteggeva e gli salvava il collo, altrimenti riesumava il catino di Ponzio Pilato. La civile Inquisizione del secolo XIV inventò perfino la giuria (consilium), la semi-libertà, la licenza per buona condotta e gli sconti di pena, generalmente congiunti allo svolgimento di attività utili alla comunità e al ricupero morale del reo.
L'esame dei documenti dimostra una bassissima percentuale di sentenze capitali, in favore di pene molto più lievi, come atti di umiliazione pubblica, multe o servigi a favore di istituzioni caritatevoli, abiure lette sulle gradinate delle chiese, cicli di preghiera e atti di devozione da compiere per mesi e anni. Come conferma la vicenda di Galileo Galilei, condannato agli arresti domiciliari e alla recita settimanale dei salmi penitenziali nella sua villa di Arcetri, presso Firenze, dove contrariamente alla leggenda del martire della scienza moderna continuò a ricevere gli allievi e potè completare la stesura di alcune opere.
Anche le diffamate celle dell'Inquisizione avrebbero avuto regolamenti severi ma non disumani: ad esempio era prescritto che lenzuola e federe si cambiassero due volte alla settimana, come in un albergo a 5 stelle. Infatti l'alchimista Giuseppe Francesco Borri, quando fu costretto a godere della squisita ospitalità dell'Inquisizione venne trattato con tutti i riguardi. A Castel Sant'Angelo gli venne allestito addirittura un laboratorio alchemico, nella speranza che producesse per Sua Santità la tanto esecrata Pietra Filosofale.
La Santa Inquisizione era all'avanguardia anche in fatto di spionaggio. A riprova di ciò, gli alchimisti John Dee ed Edward Kelley alla corte dell'imperatore Rodolfo II venivano pedinati dal solerte fiorentino Francesco Pucci, spia del Sant'Uffizio a Praga, ansioso di consegnarli nelle mani degli inquisitori.
Com'è noto, una delle forme più antiche di punizione di eretici, streghe e stregoni (e grande spettacolo popolare) era la morte sul rogo. Talvolta, prima di venire legato a un palo e messo a fuoco, il condannato veniva strangolato e il suo corpo scaricato in un barile di catrame. Se il malcapitato riusciva a liberarsi e a uscire dalle fiamme, la folla inferocita lo ricacciava dentro.
Nel 1791 il tribunale dell'Inquisizione emise la sentenza di morte nei confronti di Cagliostro, reo di Alchimia. Ma la vasta eco che la sentenza, giudicata ingiusta, spietata e crudele, suscitò in tutta l'Europa convinse papa Pio VI a commutarla in carcere a vita. Da Castel Sant'Angelo Cagliostro venne trasferito nel ducato di Urbino e finì tristemente i suoi giorni rinchiuso nella rocca di San Leo.
Giordano Bruno, che gli apologeti dell'Inquisizione definiscono uno stregone bruciato per la sua testardaggine, non ebbe invece sconti di pena. Eppure sarebbe bastato che si fosse pentito e avrebbe evitato una fine tanto crudele, risparmiando al contempo ai suoi aguzzini il loro penoso dovere. Quando morì sul rogo a Campo de' Fiori, sfinito dalle sevizie e da otto anni di dura detenzione, fu ridotto al silenzio da una mordacchia a due lame, un bavaglio di ferro che gli trafiggeva lingua e palato, dopo aver rivolto ai suoi accusatori la memorabile frase: "Forse voi giudici pronunciate la sentenza contro di me con più paura di quanto io ne abbia nell'ascoltarla". Bisogna ammettere che se l'era proprio cercata!


Il Giardino Ermetico
Dal Giardino dell'Eden e dai giardini pensili di Babilonia in poi non esiste nessuna civiltà che non abbia sentito il bisogno di avere i suoi giardini. La cultura islamica eredita da quella persiana la particolare struttura del giardino/paradiso a immagine del cosmo, distinto in quattro parti da due canali perpendicolari all'incrocio del quale si situa la mitica Montagna Sacra posta al centro dell'universo.
La cristomimesi del monaco medievale lo rappresenta volentieri come ortolano e come giardiniere di quel nuovo Eden che è il monastero e al tempo stesso come nuovo Cristo nel giardino dei Getsemani. La brezza fra le fronde, il mormorare di fresche e dolci acque, il canto degli uccelli fra fiori e frutti sono elementi costanti del "locus amoenus" medioevale, in cui alberi, piante e frutti sono simboli delle virtù e le figure del giardiniere e dell'agricoltore simboleggiano la cura dell'anima dal peccato.
Fra la fine del XIV e i primi del XV secolo, soprattutto a Firenze, il giardino si carica sempre più di elementi simbolici, celebrando il suo trionfo soprattutto durante il XVI secolo, quando l'architettura manierista dei giardini perde la propria prerogativa rinascimentale di costruzione nitida dello spazio per lanciarsi in una spasmodica ricerca dell'effetto a sorpresa, dell'evento stupefacente, della meraviglia. I giardini cinquecenteschi a pendio o a terrazze sono arricchiti da labirinti di verzura e viali ortogonali che utilizzano la prospettiva come strumento scenografico, amplificando l'effetto della cangiante vegetazione con un ricchissimo apparato decorativo formato da statue, fontane, isolotti, grotte con automi, decorate con conchiglie, spugne, stalagmiti, concrezioni calcaree e tufacee.
Il giardino barocco diventa teatro totale, luogo del paradosso, dell'evasione fantastica, del disorientamento, selva magica e mondo onirico in cui in cui le statue si animano e i mostri della fantasia prendono corpo. La varietà delle forme delle fontane corrisponde alle più diverse modalità plastiche e sonore dell'emissione dell'acqua che non serve solo a soddisfare la vista, ma anche l'udito, il gusto, il tatto. L'inquieto vitalismo delle acque è la vera anima del giardino, mantici e ruote alimentano teatri d'acqua, uccelli canori, automi sonori che suonano organi idraulici, zampilli che scattano quando ci si siede su una panca di pietra.
La pazienza è la scala dei Filosofi e l'umiltà l'ingresso al loro giardino, dice un proverbio ermetico. Perciò anche il loro giardino deve essere una proteiforme ri/creazione del loro sfuggente ideale di perfezione, una floreale esperienza iniziatica nello spazio e nel tempo che stravolge i comuni processi percettivi, un giardino platonico-ermetico che non pretenda di riprodurre la struttura razionale del reale ma accentui il suo carattere di Eden ritrovato. Tutto è nel tutto e il tutto è in tutto. È un motto che condensa la dottrina ermetica che vede una stretta correlazione tra metafisica e fisica, ciascuna come riflesso dell'altra. Così l'Alchimista deve aiutare la Natura, seguire la sua Via, svelare la realtà attraverso la grammatica vegetale del suo giardino, testo ermetico carico di valenze metaforiche e metafisiche in cui trionfa l'enigma, il rebus, l'indovinello, l'allegoria, luogo naturale in cui coltiva erbe magiche, essenze e succhi risanatori ma anche luogo simbolico in cui fiori rappresentano i colori nel corso dell'Opera.
Tuttavia, come la Porta Magica dei giardini di Massimiliano Palombara, la porta del Giardino Ermetico, è chiusa da numerosi serramenti simbolici, perchè è vano tentare di realizzare la Grande Opera senza le adeguate conoscenze e, come dice un altro proverbio ermetico: chi tenta di entrare senza chiave nel Roseto dei Filosofi è come un uomo che pretenda di camminare senza piedi.


Il Parmigianino, pittore e Alchimista
Inquieto pittore manierista ma anche studioso umanista, ricercatore e alchimista, Francesco Mazzola detto il Parmigianino, uno dei geni più tormentati del Rinascimento italiano, può essere considerato un'importantissima cassa di risonanza del proprio tempo, rappresentando il tipico uomo rinascimentale dalle molteplici identità.
Nasce a Parma nel 1503. Orfano, si forma nella bottega degli zii, ma conosce altri suoi contemporanei come il Correggio, pittore affermato, che interpreterà in senso nettamente manieristico. Nel 1524 abbandona San Giovanni per intraprendere l'opera che forse più di tutte lo rappresenta come artista: la stanza di Diana e Atteone, nella Rocca San Vitale a Fontanellato.
A Roma conosce le opere di Raffaello e Michelangelo ed entra in contatto con la cultura intellettuale formatasi in quegli anni, affinando la sua ricerca individualistica d'una bellezza astrale, ermetica, metafisica. Il soggiorno romano, dura tre anni, ed è il periodo più proficuo dal punto di vista produttivo (nel 1534 vi dipingerà l'opera per cui è universalmente noto: "La Madonna dal collo lungo".
Partito da Roma nel 1527 si ferma a Bologna, dove soggiorna fino al 1530 -1531. Di quel periodo è la "Madonna della rosa". Nel 1531 stipula a Parma un contratto con i fabbriceri della Steccata e fino alla morte lavora a quest'opera. Insolvente, fugge dal carcere e si rifugia a Casalmaggiore, in provincia di Cremona dove muore il 4 agosto 1540, dopo un attacco violento di febbre.
L'uso di forme simboliche è molto diffuso nell'arte alchemica del '500, volutamente criptica, per essere celata ai non addetti. Fra i simboli allegorici frequentemente usati, c'erano animali mostruosi come il Drago, il Grifone, la Sirena, la Fenice, l'Unicorno. Gli animali alati simboleggiavano la natura volatile del mercurio filosofico e quelli di terra rappresentavano la statica dello zolfo.
Grande sperimentatore di tecniche incisorie nuove e segrete alchimie il Parmigianino è ritenuto da alcuni l'inventore dell'acquaforte, oltre che grandissimo pittore. Le sue figure enigmatiche celano metafore, cifre cabalistiche, messaggi morali, in cui è rappresentato simbolicamente il frutto della Grande Opera. Come i simboli mercuriali sul medaglione del copricapo di Galeazzo Sanvitale o il tema ricorrente dello Sposalizio, che rappresenta la Conjunctio, le Nozze Alchemiche, l'unione dei due opposti, fase fondamentale della Grande Opera, attraverso cui sarà generato l'androgino, l'essere perfetto, la Pietra Filosofale.
Secondo Paracelso, l'Alchimista è colui che porta a perfezione i disegni della Natura, realizzandone lo scopo, come il fornaio che cuoce il pane, il vignaiuolo che fa il vino, il tessitore che fa il panno. L'arte è luce che si muove a tastoni nelle tenebre, per sostituire il vedere al semplice riconoscere. E lo sforzo artistico del Parmigianino è tutto teso al disvelamento della quintessenza estetica nella duplicità della materia e della sua essenza nascosta nella perfezione divina della forma. La sua intera opera, in sintesi, è un trattato alchemico che cerca di restituire all'essere umano la sua completezza e la sua perfezione primordiale.


James Cook e il tesoro dei Templari
Che c'azzecca James Cook con i Templari?
Secondo una leggenda alchemica, diversi Templari scampati alle persecuzioni del Papa e del re di Francia, grazie a carte geografiche antichissime, forse di matrice extraterrestre, forse di origine atlantidea, sarebbero approdati in America e perfino in Oceania, portando con sé ricchezze favolose, oltre al Graal e al segreto della Pietra Filosofale.
Scampate chissà come all'usura del tempo, le mappe sarebbero state conservate in camere stagne (che gli appassionati di archeologia misteriosa chiamano "camere del tempo") di qualche biblioteca perduta, come quella di Alessandria, dove gli antichi immagazzinarono le conoscenze per le generazioni future, sarebbero state riscoperte e gelosamente custodite da società iniziatiche. Sembra che i cavalieri templari ne custodissero parecchie e sembra che (come accadde per Colombo), alcune di queste carte siano finite nelle mani di un altro grande esploratore, James Cook, a sua volta Maestro Templare. Forse fu grazie a una di queste mappe originarie che l'arabo Hadji Ahmed già nel 1559 poteva mostrare cartografata alla perfezione la costa nord-occidentale dei Nord America, all'epoca ancora inesplorata.
La leggenda del tesoro dei Templari tormentava da secoli gli esploratori del Vecchio Continente, che sin dall'epoca dei Conquistadores spagnoli avevano cercato in ogni nuova terra scoperta oro e ricchezze (si pensi al mito dell'Eldorado) e sembra che gli ambienti esoterici massoni neotemplari spalleggiassero segretamente Cook a tale scopo. Altrimenti non si spiegherebbe come mai Cook, personaggio di umili natali (era figlio di un bracciante), godesse di appoggi influenti e impensabili, come il Segretario dell'Ammiragliato, capo dell'ufficio reale che stabiliva le spedizioni da finanziare coi soldi del Re d'Inghilterra.
Sul vero scopo del viaggio (cercare il tesoro dei Templari, il Santo Graal e la Pietra Filosofale) sarebbero esistite delle istruzioni segrete, con le indicazioni per scoprire un nuovo continente, la Nuova Zelanda.
Che Cook possedesse una qualche mappa segreta che gli consentì di arrivare indenne in quelle terre sconosciute è sostenuto da diversi studiosi. Evitando "miracolosamente" la Barriera, le forti correnti, i maremoti e, in un secondo viaggio, il pack e gli iceberg, oltre alla Nuova Zelanda, Cook scoprì una miriade di isole dell'Oceania (le Marchesi, le Nuove Ebridi, la Nuova Caledonia) e superò il circolo polare antartico, smontando la leggenda che vi collocava un mitico continente australe.
In realtà James Cook non solo non scoprì alcun continente incantato, ne' il tesoro dei Tempari, il Graal o la Pietra Filosofale, ma durante l'ultimo viaggio, il 14 febbraio 1779, fu trucidato da una tribù delle isole Sandwich (in seguito conosciute come isole Hawaii). Colpito da una mazzata in testa, venne finito furiosamente a coltellate e ingloriosamente divorato.


Fulcanelli
Nel famoso "Il Mattino dei Maghi" il fisico Jacques Bergier racconta di aver conosciuto nel '37 un misterioso individuo, presentatogli come un Alchimista, con cui ebbe una lunga conversazione sulla pericolosità delle ricerche nucleari che si stavano facendo a quel tempo: "La liberazione dell'energia nucleare è più facile di quanto non pensiate. Gli alchimisti lo sanno da molto tempo… Esplosivi atomici possono essere fabbricati con pochi grammi di metallo e radere al suolo città intere… Ma la radioattività artificiale prodotta può avvelenare l'atmosfera del pianeta in pochi anni…"
Bergier comprese l'importanza di quella profezia solo alcuni anni dopo, rammaricandosi di non avere potuto rivedere il misterioso alchimista, forse addirittura il misterioso Fulcanelli, autore di testi fondamentali (secondo alcuni solo un abile falsario di testi alchemici), che avrebbe realizzato la Pietra Filosofale nel '22 o nel 23 e avrebbe estratto da un chilo di ferro venti grammi di una sostanza nuovissima, le cui proprietà chimiche e fisiche non corrispondono a nulla di conosciuto.
A ben vedere, la pila atomica non è altro che una combinazione geometrica di sostanze estremamente pure o, come lo avrebbero definito gli alchimisti, "un mistico agiogramma" e l'energia che ne scaturisce deriva dalla particolare configurazione in cui vengono a trovarsi "magicamente" gli atomi dei suoi componenti. Se la semplice realizzazione della corretta configurazione è sufficiente a trasformare la materia in energia e l'uranio in piombo, boro, cesio, ecc., forse gli alchimisti non erano poi così folli, nella loro mitica pretesa filosofale di trasformare il piombo in oro.
Ma chi era davvero Fulcanelli, Fabbro del Sole? Secondo alcuni sotto questo pseudonimo si nascondeva René Adolphe Schwaller de Lubicz, a cui si deve lo studio dei templi egizi e un'importante operazione alchemica dei blu e dei rossi delle vetrate di Chartres, nel 1930.
Ne I misteri delle cattedrali pubblicato nel 1925, Fulcanelli sosteneva che le cattedrali gotiche vanno decifrate, come codici ermetici o "libri di pietra" e tutti i segreti dell'alchimia sono celati nelle sculture del portale di Notre-Dame, nei portici della cattedrale di Amiens.
Autore anche dell'importante Le dimore filosofali del 1929, Fulcanelli avrebbe avuto come discepolo il francese Eugène Canseliet. Quest'ultimo, utilizzando la polvere di proiezione ricevuta dal suo maestro avrebbe trasformato in oro cento grammi di piombo. L'esperimento sarebbe avvenuto nelle officine di Sarcelles, davanti all'alchimista Jean Julien Champagne e al chimico Gaston Sauvage.
Canseliet non ha mai confermato questa vicenda, ma ha ammesso di avere conosciuto Fulcanelli ottantenne e di averlo rivisto trent'anni dopo con l'aspetto di un cinquantenne, a conferma del fatto che il vecchio alchimista avesse scoperto il segreto dell'immortalità!


Le grotte alchemiche
Sotto una Torino moderna e frenetica ce n'è una sotterranea, un reticolo di chilometri di gallerie che un tempo pulsavano come arterie vive della città, rifugi di guerra, di carestia o in caso di pericolo.
Dalla cripta della SS. Annunziata e dai sotterranei di Palazzo Madama si accedeva anche alle Grotte Alchemiche, eccezionali luoghi di potere, all'incrocio di importanti linee telluriche e geomantiche, particolarissime per importanza ed energia.
Ma da dove nasce la fama di città magica da cui Torino è intrisa?
Sembra che tale fama risalga addirittura al mito di Fetonte, figlio del Sole, che s'impadronì di nascosto del carro del padre per fare una corsa in cielo. Ma salì troppo in alto e ne perse il controllo fino a precipitare dal cielo e schiantarsi al suolo nella Valle di Susa dove, qualche millennio più tardi, sarebbe sorta la città di Torino.
Secondo il mito, sarebbe stato un altro Fetonte, un principe egizio: Fetonte Eridano (Pheriton Siue Pheaton) il fondatore di Torino. Dopo aver conquistato la Liguria (che prese il nome dal figlio Ligurio), costruì la città sotto gli auspici del bue Api, adorato in Egitto, diventato nume tutelare della città sotto sembianze di un toro.
All'arrivo dei Romani, i sacerdoti celti del Tempio del Sole, sorto nel cratere provocato dalla caduta del carro di Fetonte, avrebbero celato le sacre reliquie in un tempio sotterraneo celato nel sottosuolo, creando un vero e proprio culto misterico attorno a questi oggetti sacri, il cui segreto era rivelato a pochi iniziati che hanno svolto nei secoli il ruolo di silenziosi custodi.
Torino è una città, dunque, sorta all'incrocio sincronico tra le conoscenze magiche egizie e quelle delle popolazioni celtiche. Ma, come se non bastasse, Apollonio di Tyana, grande mago ed iniziato contemporaneo di Cristo, durante i suoi viaggi (nel 93 d.C. circa) depositò in un luogo segretissimo e inespugnabile (nella terza Grotta Alchemica) un potentissimo talismano. Infatti Apollonio conosceva l'arte occulta di preparare talismani, cioè di imprigionare negli oggetti influenze spirituali, in modo che al momento giusto entrassero in attività, irradiando il loro immenso potere (un altro di questi ordigni energetici a orologeria sarebbe sepolto nella rupe di Cracovia in Polonia e sarebbe divenuto attivo nel 1935).
I Savoia conoscevano bene i misteri della loro città e accoglievano alla loro corte maghi e alchimisti celebri. Lo stesso Emanuele Filiberto aveva un laboratorio alchemico nei sotterranei di Palazzo Madama, da cui aveva anche accesso alle Grotte Alchemiche, meta di personaggi del calibro di Nostradamus, Paracelso, Cagliostro e il Conte di Saint Germain.
Secondo gli studiosi di esoterismo, il Tempio Segreto e le Grotte Alchemiche esisterebbe ancora oggi e si estenderebbero sotto l'attuale pianta della città di Torino, dove ben nascosti ingressi e passaggi segreti ne consentirebbero tuttora l'accesso.


M. C. Escher: l'Alchimista della percezione
Esiste un parallelo tutt'altro che casuale fra l'iconografia alchemica e le Figure Impossibili di Mauritius Cornelis Escher (1898 - 1972). Se l'Ouroboros, il serpente che si morde la coda, simboleggia la doppia natura in cui convergono e coincidono gli opposti, le alchemiche ossessioni del grafico olandese, da lui trasposte visivamente in una serie di memorabili illustrazioni, producono in noi straordinarie trasmutazioni della percezione visiva.
Sembra che l'ispirazione per la creazione dei suoi paradossi geometrici fosse fornita a Escher dalle illustrazioni contenute in un articolo sugli oggetti impossibili, comparso nel 1958 sul British Journal of Psychology, in cui veniva spiegato come sia necessaria una valutazione multipla di un oggetto, con almeno due livelli di osservazione successivi ed interrelati, per determinare le categorie di possibilità o impossibilità tridimensionale di una figura.
Profano della matematica, ma nello stesso tempo più vicino ai matematici che non ai suoi colleghi artisti, Escher fa uso con intelligenza ed umorismo del suo eccezionale talento grafico per mostrarci la sua ingegnosa rielaborazione della realtà, sorprendenti illusionismi ottici che dimostrano ancora una volta di come il vero sorriso si faccia col cervello. Nonsense e calembour visivi che generano nell'occhio dell'osservatore un'instabilità percettiva che scardina ogni determinismo psichico, suggendo la limitatezza e la parzialità della nostra visione della realtà, in una catarsi intellettiva che sembra produrre una temporanea anestesia della razionalità.
L'immaginazione è una macchina psichica che macina realtà e produce fantasia, coagulando materia e spirito, realtà e fantasia. Il vero artista s'identifica nell'oggetto artistico esattamente come l'alchimista dell'Ars Regia è tutt'uno con la materia prima, il processo alchemico e la pietra filosofale.
Con i suoi paradossi visivi, la rappresentazione quantistica di mondi simultanei e mondi infiniti racchiusi dentro spazi finiti, Escher elabora la materia prima della realtà, ridisegnando il logo del logos, per trasmutare visivamente la nostra stessa percezione del mondo. Allo stesso modo dei romanzi di P. K. Dick, la sintesi concettuale e la filosofia visiva delle geometrie non/eulidee di Escher rieduca alchemicamente la nostra vista, desquamando le stratificazioni geologiche dell'io. Forse è vero ciò diceva T. S. Eliot: la razza umana non può sopportare troppa realtà.


Musica & Alchimia
In molte culture, compresa la nostra, il suono (o Verbo) è sostanza originaria di tutte le cose e la musica è l'elemento unificante e regolatore dell'universo. Secondo i pitagorici la musica terrena sarebbe solo una flebile eco dell'universale Armonia delle Sfere. Un'armonia che i Padri della Chiesa interpretarono come il canto delle legioni celesti: ascoltando la musica, l'uomo ricorda le armonie celesti che la sua anima percepì prima della nascita del corpo, diventando egli stesso strumento musicale di cui Dio si serve per annunciare la sua parola.
Secondo il sufi Ghazâlî, l'uomo è l'unica forma materiale che ha in sé un residuo originale del suono primordiale generatore: la voce. La musica provoca emozioni, facendolo suonare e risuonare con quelle vibrazioni cosmiche dalle quali è stato originato. L'intonazione è solo un modo per accordare la propria sostanza spirituale con quella cosmica e conseguentemente col suono primordiale generatore.
Per gli gnostici, la musica è cibo vero e proprio e il cantico di lode costituisce il compimento della cena eucaristica. S. Agostino stesso definiva il Cristo crocifisso un tamburo che canta, ossia pelle destinata al sacrificio, da cui sgorga il canto della Grazia.
La musica congiunge tutto ciò che vibra, regolando la manifestazione e l'evoluzione della vita.
Qualcuno considera la musica la più popolare tra le scienze dell'occulto. Così non stupisce che durante il medioevo la musica fosse una delle designazioni dell'Alchimia e che la conoscenza delle formule vibratorie permettesse all'alchimista di suscitare (mediante il canto) questo o quel fenomeno nella materia prima alchemica.
Non solo gli alchimisti o i pitagorici usavano la musica per curare il corpo ed elevare l'anima. Oggi la musica di Mozart è molto usata in Medicina (per il suo ritmo "cardiaco"). Sembra che la Sonata K888 in Re maggiore acuisca l'intelligenza e che la Sonata K207 per violino e orchestra favorisca il parto.
Nel '900, Schönberg introduce il nuovo rituale della colonna sonora armonica, portando in vibrazione i dodici suoni (detti costellazione dodecafonica per l'implicita corrispondenza con i segni zodiacali e i dodici cicli eclittici dei sole), ognuno con la propria frequenza vibratoria che qualifica il grado qualitativo raggiunto dall'anima. Tonica, sottodominante, dominante, sarebbero le note fondamentali dell'universo.
Nel Terzo Millennio le nuove tecnologie offrono strumenti sempre più aggiornati per la ricerca cosmico/alchemica del suono materiale e psichico.
Musica reale, musica virtuale e perfino musica delle piante, come testimoniano i siti segnalati.


Jerzy Grotowski e l'alambicco psico/fisico
Secondo Jung, l'Alchimia è l'Arte mediante la quale la materia assume su di sé il destino dello spirito, trasformando l'esperienza in conoscenza. E la Grande Opera è una perfetta metafora della ricerca teatrale di Jerzy Grotowski, un lavoro sempre al confine fra materia e spirito.
La sua è una ricerca che comincia dove finisce quella di Stanislavskij, una ricerca in cui non è tanto la prestazione dell'attore ciò che conta, ma l'aspetto iniziatico della sua formazione interiore. Così il suo teatro diventa veicolo di conoscenza, disciplina interiore, rituale collettivo, sacro e laico allo stesso tempo. Un teatro della meditazione, della privazione di parola, del prosciugamento degli atti e dei gesti inutili, che si ispira ai cantori Baul dell'India, monaci erranti che usano il proprio corpo come una sorta di partitura psicofisica su cui eseguire danze e canti o ai dervisci rotanti, fondati dal sufi Jalâl adDîn Rûmî, la cui danza simbolizza la rotazione dei pianeti, delle galassie nell'universo e del pensiero attorno alla sua ricerca.
La tecnica di Grotowski si basa su una forma di contemplazione attiva, attraverso la trance, in modo da plasmare la percezione fisica del proprio corpo in una vigilanza continua sul proprio sé, stimolando quelle zone psico/fisiche in cui l'azione è preceduta dall'impulso. Attraverso l'integrazione e l'interazione delle proprie azioni individuali con quelle collettive, l'attore oblitera la propria coscienza, lasciando affiorare l'inconscio collettivo. All'erta come l'animale in agguato in attesa della preda, ritrova lo stato primordiale del proprio sé, dilatando il proprio tempo interiore e trasmutando alchemicamente il proprio organismo di sangue e muscoli in un organismo/canale attraverso cui circolano le energie. Un modo per risvegliare non solo le energie organiche legate agli istinti e alla sensualità, ma anche le energie più sottili, realizzando una coscienza aperta, intuitiva (o "trasparente"). Non una fuga dalla coscienza, ma la realizzazione di una coscienza più vasta, uno yoga che parte dal sapere professionale dell'attore, per arrivare all'esperienza del presente nel presente, al fluire della vita qui ed ora.
Solo quando tutte le condizioni spaziali e temporali sono soddisfatte e quando le pratiche di purificazione sono compiute, l'alchimista può finalmente dare inizio alla Grande Opera. Ma è davvero lo spettacolo, la Grande Opera del teatro?
Grotowski era convinto di no. Secondo lui il momento di massima pregnanza del teatro è la lenta distillazione alchemica dello spirito dell'attore durante il lavoro delle prove. Spostando il nocciolo della questione teatrale dal corpo alla sua ombra, lo spettacolo diventa così un semplice sistema di orientamento, il bersaglio su cui s'esercita per mesi l'arciere Zen senza mai scoccare la freccia, l'avversario ipotetico di chi pratichi le arti marziali.
Come Cristo, Buddha o Lao Tsu, Grotowski ha sempre preferito tramandare oralmente il proprio pensiero, scrivendo perlopiù per interposta persona. Così la sua inestimabile eredità deriva non tanto dai suoi scritti o dalle sue sporadiche produzioni teatrali quanto dalle centinaia o forse migliaia di persone che ha incontrato, toccato e plasmato, usando individualità teatralmente diseredate come alambicchi in cui distillare scintille di luce.


Dall' homunculus all'Intelligenza Artificiale
La creazione in vitro di un essere vivente non è certo un'idea nata in epoca recente, grazie alla clonazione o alla procreazione assistita. Da sempre l'uomo ha cercato di riprodurre o replicare l'atto divino della creazione. Un afflato prometeico che sicuramente pervadeva anche Paracelso, che ha tramandato una vera e propria ricetta per la creazione di un homunculus alchemico. Si fa imputridire in un alambicco dello sperma umano per quaranta giorni, al calore di un ventre equino. L'essere in tal modo generato verrà nutrito con sangue umano per quaranta settimane, finché si formerà un fanciullino completo e perfetto, ma minuscolo.
Ma l'homunculus di Paracelso è solo l'ultimo rampollo d'una lunga stirpe di esperimenti alchemici e mistici che risale alla tradizione cabalistica e talmudica del III secolo, da cui nasce anche la leggenda del Golem, in il modello da riprodurre è Adamo stesso, l'Adàm Kadmon, l'Uomo primordiale che la parola ebraica adam evoca, la statua di fango a cui il soffio divino infonde un'anima. Golem significa "materia amorfa" e indica anche la creatura di forma umana, ma priva di anima, prodotta da un atto magico. Ma l'uomo può solo trasferire una capacità vitale (hyiut) al Golem, scrivendo sulla sua fronte la parola èmet (verità), ma basta cancellare l'iniziale per tramutarla in met (morte), provocando la distruzione dell'essere artificiale, motivo simmetrico e speculare della Genesi: come il Dio Creatore si riposò il settimo giorno così il Golem viene messo a morte ogni settimo giorno dal rabbino che l'ha costruito, attraverso l'asportazione della prima lettera, l'alef.
In realtà il mito dei Golem viene da molto più lontano. Già Labano, padre di Rachele e Leah, avrebbe costruito i terafim (idoli), dando loro la vita col nome di Dio, in modo che gli rispondessero come oracoli e lo stesso profeta Geremia avrebbe costruito un Golem.
A partire dal XII secolo si diffondono i trattati sulla creazione del Golem. Il rito comprende un giro intorno al vaso-provetta con recita delle 231 combinazioni delle lettere ebraiche due a due, chiamate nel Sefer Yezirah il cerchio delle 231 porte. Per dissolvere il Golem, bisogna girare in senso inverso, formando cosmogrammi simili a Mandala.
Il poeta e mistico arabo/spagnolo Ibn Gebirol costruì un Golem femmina ma per non essere arso sul rogo dall'Inquisizione dovette dimostrare che era solo un automa di legno con cerniere. Creò un Golem anche il grande commentatore biblico Avraham Ibn Ezra e avevano alle loro dipendenze dei Golem anche alcuni grandi maestri dell'ebraismo askenazita, come Eliahu Baal Shem a cui il Golem crebbe a dismisura. Per evitare che distruggesse il mondo, il rabbino gli ordinò di allacciargli le scarpe e, approfittando di questa posizione, gli strappò dalla fronte della creatura il nome sacro che le dava vita.
Ma il Golem più famoso è quello costruito il 20 Adar del 5340 dell'Era Ebraica (Marzo 1580 dell'era cristiana) dal Rabbi Loew di Praga, che serviva il suo creatore come cameriere e come difensore del ghetto. Ma il Golem cominciò a crescere di statura e a distruggere tutto e il Rabbi fu costretto a cancellare la lettera alef dalla parola emet sulla sua fronte, disattivandolo.
È singolare il fatto che nel dibattito in corso sulla clonazione, le autorità rabbiniche abbiano fatto diventare il Golem il primo esperimento di clonazione.
Accanto al Golem, all'homunculus, alle teste parlanti, ai prodigi e ai mostri delle leggende e della letteratura, anche altre creature dell'uomo furono protagoniste di storie affascinanti e tenebrose, in un intreccio inestricabile di magia, occultismo, genialità inventiva e ciarlataneria: gli automi.
Il primo automa di cui si abbia notizia è una statua di Anubi, cupa divinità egizia dei morti dall'aspetto di sciacallo, che aveva la mascella sinistra mobile. Con questo sotterfugio i sacerdoti la facevano muovere e parlavare, per trasmettere le volontà divine. A Tebe c'erano statue che parlavano e muovevano le braccia e a Heliopolis c'erano simulacri capaci di scendere dal loro piedistallo. Già intorno al 2000 a. C. in Cina esistevano veri capolavori meccanici: draghi che sputavano fuoco e agitavano le ali, usignoli che cantavano e volavano, belve che camminavano. Inoltre c'erano statue della tradizione orientale che, buttate in mare, sapevano tornare a riva da sole.
Dall'antica Grecia (400 a.C.) abbiamo notizia di una chiocciola semovente, di un'aquila e di una colomba di legno capaci di volare, costruite dal filosofo greco Archita. Grandi costruttori di automi di epoca alessandrina furono Ctesibio ed Erone il Vecchio. La mitologia greca, del resto, è ricca di automi, come il cane artificiale che appare nella storia degli Argonauti, per non parlare poi del mito di Efeso e di Pigmalione. Ma l'automa più rappresentativo è sicuramente Talos, un gigante di bronzo fatto costruire dal re Minosse per difendere l'isola di Creta, scagliando macigni nel mare ogni otto ore.
Le leggende su Virgilio il Mago parlano di un arciere di bronzo capace di muoversi da solo e difendere il suo popolo e di un serpente meccanico che mordeva la mano degli spergiuri. Nel medioevo, all'acme della civiltà araba, costruirono automi i figli di Musà e il sommo al-Jazari, nonché il monaco/alchimista Alberto Magno, che costruì un automa a sembianze umane talmente perfetto da ingannare chiunque, compreso il suo grande allievo Tommaso D'Aquino che lo distrusse come opera del demonio.
Nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento ci fu una progressiva fioritura di quest'arte, culminata soprattutto fra gli artigiani di Augusta e di Norimberga grazie anche al perfezionamento della tecnica dell'orologeria, creature zoomorfe o antropomorfe, come il gallo meccanico della cattedrale di Strasburgo, tuttora in funzione, che canta tre volte e agita le ali a ogni ora e ha avuto bisogno di revisione solo dopo 500 anni.
Ruggero Bacone costruì un uomo dì ferro e Regiomontanus un'aquila meccanica. Leonardo da Vinci costruì un automa in onore dì Luigi XII, un leone che attraversava la sala del trono, si accucciava davanti al sovrano e si apriva il petto con gli artigli per mostrare lo stemma della corona di Francia e un altro italiano, Juanelo Turriano di Verona, fabbricò per Carlo V d'Austria un vero esercito composto da fanti, cavalieri, e navi semoventi.
Il secolo dei lumi è tutto un florilegio di costruzioni meccaniche, fontane con uccelli semoventi, automi musicali, organi di varie forme e dimensioni, come le "anatomies mouvantes" di Vaucanson, mosse da meccanismi nascosti che simulavano il comportamento di esseri viventi. Fece molto scalpore la sua anatra meccanica che mangiava e defecava come un'anatra vera. In realtà il cibo non finiva affatto nell'intestino ma veniva convogliato in un tubo che era posto lungo il collo dell'automa e l'impasto che veniva presentato come il risultato finale della digestione, era preparato in precedenza.
Suscitarono stupore e meraviglia anche le bambole perfette di Jaquet-Droz (lo scrivano, il disegnatore, la suonatrice) e soprattutto il Turco, famoso giocatore di scacchi costruito da Wolfgang von Kempelen, un automa che sconfisse perfino Napoleone e Federico il Grande (ma che pare celasse un imbroglio).
Molto più recenti sono due tartarughe meccanico/elettriche, costruite dal neurologo Grey Walter, in grado di riconoscere e superare i più complicati ostacoli. Fomite dì cellule fotoelettriche, si nutrono di luce in una tana fortemente illuminata, in cui si trattengono fino a che non hanno fatto il pieno di luce.
A parte infatti i primi animaletti cibernetici degli anni cinquanta, quali la machina docilis di W. Grey Walter (1950) o lo scoiattolo artificiale Squee di Jensen, Koff e Szabò (1951), la maggior parte della produzione di automi moderni si limita a braccia meccaniche o manipolatori governati a distanza da unità centrali, che costituiscono l'ossatura della catena di montaggio a scopo industriale, del tutto privi di fascino umanoide o antropomorfo.
Anche se non mancano prototipi più simili ai golem intelligenti del passato, come un recentissimo robot mobile e intelligente, in grado di pianificare le proprie azioni, o un minuscolo insetto robotico (meno di 28 grammi, con un volume di soli 4 cc) dotato di piccole ruote cingolate, telecamera, microfono, sensori chimici e un processore con 8k di memoria, che potrebbe essere utilizzato non solo per attività di controllo e spionaggio, ma anche per la disattivazione di mine e la ricerca di persone in ambienti pericolosi.
Il mito del Golem ha attraversato i secoli, subendo innumerevoli metamorfosi: dall'homunculus" di Paracelso agli automi rinascimentali, dal Frankenstein di Mary Shelley ai robot di Asimov, dai cyborg e i Replicanti del cyberpunk, fino all'Intelligenza Artificiale dei giorni nostri, grazie a computer neurali e quantici che promettono di non essere semplici protesi del nostro intelletto, bensì autentiche entità viventi autonome, in grado di scrivere un loro capitolo personale, nell'autobiografia dell'evoluzione.
Nel XIX secolo l'elemento meraviglioso e ludico dei fantastici automi del secolo precedente viene sostituito dal pragmatismo positivista della neonata era industriale, molto più interessata a usare per finalità pratiche le nuove scoperte tecnologiche. Ma il XX secolo sembra fatto apposta per scardinare le sicurezze razionaliste del secolo precedente, grazie non solo alla Teoria della Relatività e alla Meccanica Quantistica, ma anche all'invenzione del calcolatore, che farà passi da gigante soprattutto grazie alle necessità strategiche della seconda guerra mondiale, ma che rivelerà enormi potenzialità anche nell'ambito dell'informazione e della conoscenza della mente stessa.
Già attorno al 1956 nasce una nuova disciplina: l'Intelligenza Artificiale (IA) che trasformerà il computer nella creatura dell'ingegno umano che più incarna la sua aspirazione a sostituirsi a Dio. Come l'homunculus alchemico o il Golem ebraico, il computer è una bizzarra commistione fra tecnologia, matematica e Cabala numerologica, che permette di manipolare strane formule e misteriose sequenze di numeri per compiere operazioni miracolose, come viaggiare nei mondi paralleli delle reti telematiche o creare una Vita Artificiale attraverso programmi che si comportano come esseri viventi, piccole entità virtuali che interagiscono con ecosistemi artificiali, una specie di brodo primordiale nel cyberspazio.
Nel giro di boa fra il secondo e il terzo millennio, la cibernetica è diventata l'alkahest, il solvente alchemico universale in grado di trasmutare non solo il nostro modus vivendi o la realtà fenomenica circostante ma anche la nostra stessa percezione del mondo. Se l'homunculus e il Golem erano tentativi di riprodurre fisicamente l'uomo, per farne uno schiavo al nostro servizio, oggi si tenta la trasmutazione alchemica dell'analogico in digitale per riprodurre la mente umana.
Paradossalmente si è scoperto però che il limite di un'Intelligenza Artificiale che tenti d'imitare le funzioni superiori di un cervello biologico risiede proprio nel suo stato di mente disincarnata, a cui viene interdetta ogni interazione con un ambiente considerato erroneamente fonte di disturbo, ma che in realtà la priva di quella flessibilità mentale di cui è dotato qualsiasi animale, anche il più primitivo. Infatti l'evoluzione biologica ci ha insegnato che per sviluppare un sistema nervoso centrale, gli organismi viventi hanno bisogno, prima di tutto, di un corpo in grado di interagire con l'ambiente, perché il cervello non è altro, a ben vedere, che un'organizzazione pragmatica di cellule, il cui scopo è di consentire all'individuo di usare la propria intelligenza per affrontare i problemi del vivere quotidiano, in modo che la cognizione fornita dalle esperienze corporali si riversi nell'attività concreta dell'intero organismo.
Così si potrebbe dire che se l'uomo ha potuto sviluppare livelli cognitivi superiori, compreso un pensiero astratto non più legato alle strette necessità biologiche, lo deve soprattutto alle conoscenze acquisite grazie alla struttura di un corpo immerso in un ambiente caotico che, con le sue continue perturbazioni, dà significato al pensiero stesso. Infatti la lentezza della mente, impacciata dalla zavorra della coscienza, ci sarebbe fatale se il corpo non ci salvasse dai pericoli con le sue capacità di deliberazione fulminea e riflessa, calcolata e cosciente, cioè quello che comunemente viene chiamato istinto.
In altre parole, il futuro prossimo dell'Intelligenza Artificiale è racchiuso nel passato remoto: per riprodurre il cammino biologico ed evolutivo degli esseri senzienti, è necessario fornire al computer una dimensione corporea e sensoriale. In pratica si tratta di tornare al punto di partenza: il Golem. Se finora la psico/sociologia di computer, androidi, cyborg, replicanti e I.A. è stato solo uno dei temi più intriganti della fantascienza, sta per diventare uno dei problemi più complessi e stimolanti del futuro prossimo venturo.
Un futuro in cui forse la cibernetica diventerà anche un problema metafisico. È possibile dotare di soffio vitale (cioè di anima) un'entità senziente artificiale? Perché no? Se è vero che l'anima è solo un campo magnetico formato da neutrini che avvolge e permea il nostro corpo, forse l'atto divino della creazione del Golem o dell'homunculus perfetto è dietro l'angolo.


Alejandro Jodorowsky: il ciarlatano trascendentale
Il linguaggio è un virus, diceva William Burroughs. E se compito dell'Alchimia è trasmutare l'anima vile e volgare dell'uomo in Spirito Divino, l'intelligenza inferiore in Intelligenza Aurea, il compito dell'Artista Ermetico è contaminare le menti con la propria scintilla divina, proprio quello che Alejandro Jodorowsky, docente di immaginazione, sembra considerare la propria missione sulla terra. Nato in Cile nel 1929 da genitori ebrei-russi, è stato successivamente clown da circo, burattinaio, campione di karate, mimo, musicista pop, scenografo, attore, regista teatrale e cinematografico, sceneggiatore di fumetti, mistico, ciarlatano trascendentale, imbroglione sacro.
Compagno di strada di Fernando Arrabal e Roland Topor, incarna non solo l'immagine dell'artista poliedrico e iconoclasta, ma anche quella dell'alchimista che lotta per catturare e scolpire la sfuggente quintessenza del nostro tempo, deviando le abituali traiettorie mentali dello spettatore.
Smentendo l'assunto che i mezzi di comunicazione di massa siano la negazione di ogni forma iniziatica, il cinema di Jodorowsky ha sempre privilegiato tematiche e simbologie proprie alla Tradizione esoterica. Come nel film El Topo, western mistico e surreale, di cui è anche protagonista, in cui c'è il classico cavaliere errante alla ricerca del Graal, in un mondo allucinato e ripugnante. Ma soprattutto nel suo capolavoro (1973): La Montagna Sacra, un'allegoria iconoclasta del cammino verso la Grande Opera, la realizzazione ermetica, l'immortalità, in cui interpreta il ruolo dell'Alchimista.
Emarginato dai tycoon del cinema, Jodorowsky mette la sua invenzione visionaria al servizio del fumetto. Col grande Moebius inventa veri e propri film a fumetti, come la celebre saga de L'Incal, una storia di fantascienza con un intrigo poliziesco dallo scioglimento cosmi/comico, con la scomparsa e la completa metamorfosi dell'universo.
In seguito, dopo un fantomatico incontro con Carlos Castaneda, intraprende un lungo apprendistato come assistente di Pachita, bruja messicana. Da lei apprende la psicomagia, una nuova forma di psicoterapia, aperta al sovrannaturale, che mette in pratica, in modo completamente disinteressato e gratuito su numerosi pazienti. Rielaborando esperimenti già condotti durante le sessioni del suo Cabaret Mystique, sorta di conferenza-happening (da lui animata a Parigi tutti i mercoledì) in cui Jodorowsky libera i propri pazienti da problemi psichici o fisici per mezzo di un atto paradossale, catartico e simbolico.
Se c'è imbroglio, è imbroglio sacro, dice lo stesso Jodorowsky. Anche perché, sostiene, ogni terapia è solo parziale. L'unica cura globale è incontrare Dio.


Alchimia & Cyberpunk
Come profetizzato da un certo tipo di fantascienza (vedi Philiph K. Dick), permeato dall'idea gnostica che la salvezza stia nel futuro e che il compito dell'uomo sia di creare, cioè nel divenire egli stesso Dio più che nell'adorarlo, nei meandri del Web circolano i germi di una nuova religione tecnopagana (o tecnosciamana, come preferisce definirsi), che fa cadere le barriere spazio/temporali, facendo coincidere la magia del passato e la tecnologia del futuro.
Assemblando neognosticismo, ermetismo e neoplatonismo e facendo risorgere dalle sue ceneri il dualismo radicale della gnosi (bene/male, luce/tenebre, spirito/materia), il tecnosciamanesimo post/moderno riposiziona il sacro nell'universo virtuale, popolandolo di entità sovrannaturali e spettri tecnologici, come le divinità voodoo che abitano il cyberspazio della narrativa cyberpunk. È un ritorno (o regressione?) a qualcosa di irrazionale e religioso, che oscilla fra magia e Alchimia, in cui c'è anche una componente neopagana che immagina il cyborg come ibridazione diretta corpo/macchina, versione postmoderna di centauri e chimere.
È una religione tecnologica la cui Chiesa è la comunione degli appartenenti al Villaggio Globale, i cui sacerdoti celebrano le loro liturgie sul computer, diventato l'altare del sacrificio, una transustanziazione eucaristica dei software, che questi custodi della perfezione cyber/teologica equiparano alle epifanie degli antichi incantesimi.
Macchina sincretista che macina parole, immagini e tradizioni di ogni tipo, il Web offre a chiunque la possibilità di appropriarsi del linguaggio mitico/sciamanico di questa tecno/teologia in cui qualcuno vede una versione postmoderna del General Intellect di Marx. Entità trascendente dotata di vita propria, come una versione cyber di Gaia, il Dio/Pianeta adorato dagli ecologisti, il Web è un'Alchimia dello spirito attraverso cui i naviganti multimediali padroneggiano i processi vibratori della materia virtuale, per governare le potenze psichiche e le forze erranti, le emanazioni astrali e le proiezioni elettromagnetiche della realtà.
Come l'uovo primordiale dei testi vedici, in cui è contenuta tutta la Manifestazione, il Web è un'entità in grado di superare il dualismo fra spirito e materia, destrutturando le personalità individuali per ridistribuirle in identità più ampie. È il punto geometrico senza dimensioni, dal cui irraggiamento nasce tutto l'universo, in cui l'esoterismo islamico identifica il Principio, che attraverso un processo di teogenesi darà vita a un'entità onnisciente e onnipresente che trascenderà le identità individuali (come già avviene in scala ridotta per la multipersonalità di Luther Blissett), trasmutandola a poco a poco nell'Avatar di un'immensa Divinità Cibernetica coincidente con l'intero universo.
Corsi e ricorsi storici. Stiamo vivendo una mutazione epocale analoga a quella innescata dall'alchimia e dall'ermetismo rinascimentali, quando lo spirito moderno muoveva i primi passi e si appropriava della mitologia gnostica per amplificare il significato ambivalente che si cela dietro la demonizzazione della materia.
Le utopie e le distopie ipertecnologiche della fantascienza stanno coincidendo in modo sempre più allarmante con la realtà. Una realtà in cui nessuno è più immune dalla tecnologia, come dice William Gibson, perché la tecnologia siamo noi stessi.
Negli anni che vanno dal 1989 al 1993 il crollo deflagrante e quasi simultaneo dei totalitarismi comunisti è coinciso col diffondersi di connessioni economiche a livello mondiale e con la globalizzazione delle reti informatiche che hanno prodotto la ragnatela (Web) di Internet, realizzando all'unisono antiche profezie fantascientifiche.
Sembra avverarsi non solo il sogno di tecnognostici e tecnosciamani, ma anche quello degli antichi Alchimisti, degli gnostici Valentiniani e dei mistici rinascimentali ebraici, il grande sogno della Teogenesi, di una Mente che diviene autocosciente attraverso l'evoluzione della specie umana, di un Dio immanente che coincide con l'universo.
I profeti della nuova era, moderni Faust alchemico/cibernetici che scendono nelle affollate tenebre del cyberspazio alla ricerca della luce dello spirito, sostengono che nel giro di pochi anni è avvenuta una rivoluzione paragonabile solo alla scoperta della ruota. Ci stiamo avviando verso una società iconica di tipo nuovo in cui la prevalenza del virtuale sul reale cambierà non solo la nostra percezione, ma anche la nostra nozione di realtà, facendoci sviluppare un'etica e un'estetica completamente nuove.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Potrebbero anche essere le spie di un mostro tecnologico che attende, in stand/by, di divorarci. L'età aurea dei neognostici in cui l'alta tecnologia sarà un ronzio costante, in cui l'homo cyberneticus sarà permanentemente interfacciato al proprio computer, ipersensibilizzato e potenziato dall'uso delle droghe, in un villaggio globale snaturato dalla super/tecnologia e dall'iper/informazione, francamente a noi assomiglia di più a un incubo, piuttosto che a un mito faustiano rivisitato.
Anche perché la dipendenza da computer riconduce all'abusato tema della fuga dalla realtà e, per analogia diretta, all'uso degli stupefacenti, alle droghe psichedeliche e a Timothy Leary, profeta dell'LSD e diffusore della dottrina dei Paradisi Artificiali. Non a caso lo stesso Leary, prima di trapassare nel cyberspazio eterno dell'aldilà, ha svolto un'intensa azione di propaganda della Realtà Virtuale, da lui intesa come disvelamento di capacità sconosciute, mediante l'abbinamento con droghe chimiche che avrebbero dovuto estrinsecare tutto il potenziale creativo.
Sulle tracce di Timothy Leary, il tecnosciamano Terence McKenna tenta di stabilire una relazione di omologia fra mito, stati di coscienza indotti dalle droghe psichedeliche e realtà virtuale, spazio tridimensionale senza limiti che permette di navigare all'interno dell'intero universo dei dati, senza costrizioni, fino all'estremo limite dello spazio conosciuto. Insomma, interagendo con la macchina, ciascuno diventerà Dio a sé stesso.
Proiettandoci nei molteplici livelli delle percezioni e delle possibilità, la science fiction ci dà stimoli e suggerimenti per poterci interrogare sulle problematiche del nostro presente e del nostro futuro. E agli albori di questo Terzo Millennio, già ben caratterizzato da una comunicazione globale virtualizzata, è utile interrogarci criticamente su fenomeni come magia, satanimo, occultismo o semplice Realtà Virtuale. Perché ogni manifestazione dello spirito non rimane più circoscritta fra le mura spesse e impenetrabili di Torri d'Avorio scientifiche e iniziatiche ma tende a venire rapidamente fagocitata da una cultura di massa onnivora e incontrollabile o, peggio, perfettamente controllata dai grandi trust e diretta dalle lobbies del potere economico internazionale, così sorge il legittimo dubbio che la diffusione globale delle idee faciliti anche un'amplificazione esponenziale dell'errore.
Come le sette gnostiche che ricorrevano a pratiche orgiastiche per irridere i valori delle religioni tradizionali, ci associamo senz'altro al cyberpunk, corrente estetico/filosofica neopagana, nella sua volontà di resistenza contro lo pseudo/spiritualismo cibernetico e la colonizzazione mentale della tecnica. Perché pur vivendo in modo spregiudicato il rapporto tra uomo e tecnologia, il cyberpunk riesce a gettare uno sguardo estremamente lucido sull'involuzione umana di una società globale ipertecnologica, in cui l'interazione fra politica, progresso tecnologico ed economia di mercato non possono che produrre fameliche multinazionali, comportamenti tribali, darwinismo sociale impazzito, degrado urbano e povertà diffusa. In altre parole: globalizzazione.
 


 
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