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RITRATTO D'ARTISTA IN UN INTERNO
CONVERSAZIONE
CON
LORENZO TORNABUONI

di Riccardo Lacchè

 

 

Riccardo Lacche’ e’ nato a Macerata nel 1966.
Si e’ laureato in storia dell’arte alla Facolta’ di Lettere e Filosofia dell’Universita’di Urbino, dove ha frequentato i seminari di lettura dell’opera d’arte tenuti dal Prof. Claudio Pizzorusso.
Dal 1991 al 1994 ha collaborato alle attivita’ culturali e artistiche promosse dalla Banca delle Marche di Macerata, in particolare per le Mostre Antologiche dedicate a Edita Broglio, Roberto Melli e Mino Maccari.
Nel 1994 ha collaborato con la rivista di cultura mensile “Tempo Presente” di Roma.
Dal 1998 vive a Roma dove lavora ai programmi culturali di Raitre come ricercatore d’immagini. Si segnalano in particolare i programmi: Generazioni (Marcinelle- Memorie dal sottosuolo, Il Boom dell’Autostrada, Il Secolo Sintetico -Scienza Incoscienza) , Sfide ( e gli speciali Sfide-Un secolo italiano e Sfide olimpiche) La Grande Storia, Correva l’anno ed Enigma. Attualmente lavora come programmista-regista al programma Per un pugno di libri.

Lorenzo Tornabuoni,(Roma 1934-2004),ha cominciato a dipingere nel 1950.
La sua prima mostra personale e’ del 1962 a Roma alla Galleria L’Obelisco di Irene Brin e Gaspero Del Corso.In quel periodo,con Piero Gruccione,ha preso parte alle spedizioni paleontologiche del prof.Fabrizio Mori nel Sahara libico per il rilevamento delle pitture rupestri.Dalla fine degli anni Sessanta ha esposto nelle principali gallerie italiane tra cui il Gabbiano di Roma e la galleria Forni di Bologna. Ha partecipato a numerose collettive all’estero.La sua ultima mostra personale risale al 2001 alla Compagnia del Disegno a Milano.
Del suo lavoro si sono occupati : Luigi Carluccio, Giovanni Caradente, Gaia de Beaumont, Maurizio di Puolo, Ivos Margoni, Dario Micacchi,Duilio Morosini, Alberto Moravia, PierPaolo Pasolini, Mario Quesada, Alessio Salvini, Enzo Siciliano, Roberto Tassi, Lietta Tornabuoni, Lorenza Trucchi, Valerio Zurlini.

Un interno borghese. Vivissimo anche nella morbida penombra che lo avvolge e a cui una mano sapiente ha saputo imporre il raro equilibrio concesso solo alla sobrietà. Già, quella sobrietà che, al contempo, pare voglia mettersi al riparo da occhi indiscreti. Questa, da subito, è la sensazione che si percepisce entrando nello studio-abitazione di Lorenzo Tornabuoni.
Ho incontrato l'artista romano a pochi giorni dall'inaugurazione della sua personale alla Galleria Ca' d'Oro di Piazza di Spagna. La mostra ha segnato il ritorno, dopo un lungo silenzio, alla magnifica e inguaribile ossessione di sempre: la pittura. Non è un caso se Roberto Tassi rubricava anni fa Tornabuoni in quella esigua schiera di artisti per i quali il dipingere, lo scolpire o l'incidere lastre rappresenta il più delle volte una questione di vita o di morte: "….ed entro le loro opere si sente una necessità, una gravezza, un suono triste di antichi dolori, di perdute cose, di nuovi rituali".

Tornabuoni, nel suo più recente lavoro si è verificato uno scarto vistoso rispetto al passato, direi una conversione, nel senso che la griglia figurativa pare essersi sfaldata per lasciare il passo a una partitura quasi astratta. La preminenza viene data al lavoro sul colore, sulla materia.

C'era un grande scrittore, Giovanni Testori, che vedendo le mie cose - negli anni Settanta - non ne fu per niente conquistato.Perché diceva: "tu sei un disegnatore ma nei tuoi lavori il colore è un po'… così, inconsistente." Credeva, in un certo senso di potermi paragonare a Johann Fussli: "è stato un grande disegnatore -continuava - ma non era un colorista; (…)". A quel tempo, nella scena artistica romana della mia generazione si era creato in verità una specie di binomio, che induceva a porre a confronto me e Piero Guccione come per la generazione precedente era successo a Mario Mafai e Renato Guttuso. Mafai era considerato uno straordinario colorista,un lirico, al contrario di Guttuso il quale veniva sentito come un grande disegnatore, un creatore di figure e immagini. Mafai poi, slittò poco a poco verso vedute di Roma dall'alto, che erano dei tasselli di colore. In questo senso, anche Guccione fu letto da tutti gli studiosi e gli scrittori d'arte come un maestro del colore, mentre io venivo considerato più come disegnatore.

Nel corso degli anni, tuttavia, c'è stata un'evoluzione della sua tavola cromatica.

C'è stato, recentemente, quello a cui accennava prima e che io definisco piuttosto una riconversione. Tanto che le immagini non hanno più una struttura che non sia basata sul colore. Non so se ha notato un quadro alla mostra, un quadro non piccolo, che rappresenta un ramo di tiglio. Ci sono tutte quelle piume gialline, rosate, centrifugate con dei piccoli tocchi, perché le foglie del tiglio contengono il seme della pianta, ne costituiscono una specie di custodia. La foglia è un aculeo con una custodia dove ci sono due o tre semi marroni. Ecco, mi sono trovato questo ramo di tiglio e, naturalmente, se avessi voluto "disegnarlo", avrei dovuto fare quei disegni alla Leonardo da Vinci, molto… come dire…

…lenticolari?

Sì, investigativi direi, e ho cominciato così a voler disegnare foglia per foglia. Poi, nel farsi del quadro, mi è venuto il "famoso" raptus, per cui ho iniziato a semplificare la visione fino a farne un lavoro che forse è il più astratto della mostra. Succede così con la natura: o la vivi in maniera lenticolare oppure la vivi come emozione…

In una sorta di smarrimento panico?

Me lo auguro. Il senso panico della natura era pienamente cercato, come il… desiderio… il progetto di arrivare a una forma di resurrezione attraverso la germinazione delle piante nuove in primavera.

Come è nato questo suo desiderio di passare dalla figura umana, dal disegno, alla natura e al colore?

Da quando, per motivi che alcuni conoscono, sono diventato un "recluso". Non trovavo più alcuno spunto, cioè non vedevo più l'umanità, ma solo delle pareti, o i fiori che mi venivano regalati Osservavo solo ciò che avveniva fuori dalla finestra della mia stanza, e attraverso la finestra i rami degli alberi. Fu una delle prime cose che feci dal vero. I primi acquarelli, quando ho ricomiciato a dipingere, erano ripresi da un grosso volume su Luca Signorelli che un'amica mi aveva regalato. Naturalmente, quella del Signorelli era un'esperienza fatta, digerita. Ma non fino a quel punto lì, perché le fotografie del libro svelavano tutto nei minimi dettagli. Allora, rivedevo questi grovigli di corpi, di dannati, il loro abbrancarsi; trovavo che tutta questa rappresentazione era involontariamente o inconsciamente molto… significativa… erotica… Così ho deciso di fare delle cose dalle pagine del libro. Anche il mio amico Alessio Salvini parla di Signorelli nella prefazione che ha scritto per questa mostra. In effetti Signorelli era l'intenzione che avevo avuto di fare una mostra sulla resurrezione: lì ci sono i dannati e i redenti. Allora la resurrezione era quella del Signorelli, e ho fatto dei disegni, degli acquarelli. Di tutto questo, però, è rimasta traccia solo nella prefazione di Salvini: nella mostra non c'è niente che riguardi Signorelli.

E cosa e' rimasto di quell'idea, di quell'intenzione?

L'idea del venir fuori, dell'ascendere me l'ha data quel libro. Cosi' ho iniziato a disegnare. Un tempo consideravo ozioso guardare dalle finestre e rappresentare ciò che vedevo, mi sembrava un po' riduttivo perché il mondo è dall'altra parte. Però quando sei incapsulato in una stanza la finestra è quella che si dice "la finestra sul mondo". Allora ho iniziato a disegnare i rami di un abete, di un cedro del Libano e a fare dei lavori sui vegetali, sulla natura. Quando non hai più un rapporto con il mondo la natura diventa un correlativo.

In questa mostra ha voluto inserire anche un autoritratto del 1956.

L'ho inserito perché mi sembra si leghi molto bene alle cose che sto facendo adesso. Cioè, la materia del dipingere era un po' così, aveva questo tocco ricco. E il 1956 in questo senso dà un'indicazione di una certa coerenza, se vuole. Sì, segnala una certa coerenza.

Quelli sono gli anni dei suoi esordi: come li ricorda?

Come gli anni della più nera tristezza, della malinconia, dell'incapacità di vedere un'uscita dalla solitudine… Si, forse per un giovane che fa dello sport gli anni della giovinezza sono dei grandi momenti, ma per un artista sono gli anni in cui si cerca se stessi e sono anni molto dolorosi, lo sono per tutti, io credo, e lo sono stati anche per me.

Le va di parlare dei suoi primi quadri? C'era già un tema che ritornava?

Erano dei tentativi, vanno letti come tali. Purtroppo quando si è giovani non c'è la confessione, una dichiarazione di poetica ma uno scimmiottamento degli altri.

Chi erano gli “altri”?

Vedevo una mostra di Levi e rifacevo Levi. La settimana dopo vedevo Cagli e rifacevo Cagli e così con Vespignani, il primo Vespignani.

La sua prima mostra è del 1962 qui a Roma, da Gaspero Del Corso, alla Galleria l'Obelisco. Come andò quella volta?

Io abitavo vicino alla galleria, ci andavo spesso, del resto era una delle gallerie più importanti. A l'Obelisco vidi la primissima mostra di Balthus, la prima di Bacon e tante altre. Così un giorno, incuriosito, Gaspero Del Corso si avvicinò chiedendomi se dipingevo. Allora gli ho portato le fotografie dei miei quadri. E' importante trovare un incentivo ed è meraviglioso quando qualcuno si interessa a te: da quel momento cominci a esistere. Gaspero è stato uno stimolo importante. Dopo un anno abbiamo fatto la mostra ed è stato un successo.

E la Roma di quegli anni? Il contesto storico-figurativo era molto ricco, variegato, quali sono state le sue posizioni?

Nessuna. Io non ero legato a niente se non a delle persone, a degli amici. Ruggero Savinio per esempio, o Piero Guccione grazie al quale fui preso in considerazione da critici come Morosini e Micacchi che però mi hanno sempre considerato un outsider perché allora si andava alla ricerca del pittore naive, da plasmare. La cultura di sinistra aveva questo immenso bisogno di inventarsi le cose, di poterle modellare. Così ci fu Rocco Scotellaro e la rivalutazione della cultura popolare. In questo senso Guttuso era il "carretto siciliano" che diventava cubismo. La linea lungo la quale Guttuso si era mosso partiva sempre dall'eterna Bagheria, dal fico d'India. Dentro di me il fico d'India non c'era. Turchiaro c'aveva la Calabria, l'altro la Sicilia, un altro ancora c'aveva questo o quest'altro, o se no c'aveva la Resistenza.

La cultura era troppo confinata entro gli argini del “nazionalpopolare”?

Mentre si predicava l'Internazionalismo socialista in politica la cultura era "regionale", perché forse la più grande figura insieme a Guttuso che abbia dato il realismo socialista o qualcosa di analogo è Carlo Levi. La grande cosa che ha fatto Levi, che era un uomo del Nord e raffinato, è stata scoprire la Calabria, la Lucania. Carlo Levi, in questo senso, ha portato acqua al mulino della cultura di sinistra in maniera vigorosissima. Non ha preso il Nobel perché allora c'erano delle barricate invalicabili contro la sinistra. Ma era l'uomo che si voleva: era perfetto, perché essendo un compagno di strada non veniva accusato di essere comunista, ma la sua opera dava prestigio al Pci. Questo io non ero, a parte le debite proporzioni.

C'era anche altro, però: Festa, Angeli, Schifano, la pop art…

M'interessava Schifano perché era una persona vera, notevole. Lo vedevo anche perché a Roma era impossibile ignorarlo, ma tutto il resto non mi toccava, non mi riguardava e io non riguardavo loro.

Sono stati più gli scrittori che non i critici ad occuparsi del suo lavoro, scrittori che hanno segnato nel profondo la cultura del nostro Novecento.

Io ero molto interessato alla letteratura e lo sono anche adesso. Una pagina di Giovanni Testori è letteratura e arte insieme. Lui ha un occhio infallibile e una lingua straordinaria. Allora, teoricamente, Testori sarebbe stata la persona giusta per me. Ma lui era molto morale, per cui vedendo che i miei quadri erano scopertamente sensuali aveva dei sensi di colpa tremendi e così tutto quello che poteva sembrare fatto per lui lo respingeva. Ha scritto una biografia di 600 pagine su Visconti e poi l'ha bruciata proprio per punirsi. Tutta la vita di Testori è stata così, con un senso del martirio che poi ne fa la sua grandezza. Ecco perché si fanno dei parallelismi tra l'opera di Testori e quella di Pasolini: la radice del dialetto, la discesa verso il popolo, e poi questa lingua straordinaria martellata dalla letteratura, da Dante, Ungaretti…

… il Pasolini posseduto dalla rara “follia della croce” ?

Come tutte le persone che lo hanno conosciuto intimamente, Giuseppe Zigaina, che ha scritto libri stupendi su Pasolini, sostiene con pezze d'appoggio tratte dalle pagine del poeta stesso (e non dagli archivi della polizia) che Pier Paolo avesse sceneggiato la sua morte già vent'anni prima.

Quindi anche lei è d'accordo con la tesi del suicidio “su commissione”?

Del "suicidio volontario": Pier Paolo che cerca e trova il martirio sceneggiandolo in maniera mirabile in quei modi, in quella abiezione, in quei termini in cui nulla è estetizzante e tutto lo è. E' stata una bomba che è esplosa proprio per questo. Poi, come è logico che succeda in questi casi, c'erano quelli che gridavano al complotto. Moravia, invece, ebbe subito nozione di quanto era successo, un incidente di percorso durante pratiche erotiche. Ricordo di aver posseduto un libro, un atlante di psicopatologia sessuale, pubblicato a Berlino negli anni Trenta, un libro di fotografie realizzato dalla polizia scientifica. Pier Paolo era medusée da questo libro perché c'era un capitolo intitolato Incidenti occorsi durante pratiche di autoerotismo: si vedeva questa gente che s'infilava dei tubi di gomma in bocca, oppure che si strangolava lentamente con un filo elettrico e si elettrocutava piano piano finché la corrente sballava e ci rimanevano secchi. E poi c'erano interni berlinesi con uomini in mutande e canottiera con delle macchie… era una cosa spaventosa. Pier Paolo era impressionatissimo e me lo chiese in prestito. E' evidente che stesse studiando la propria morte.

La sua, Tornabuoni, è una pittura estremamente “lavorata”, piena di rimandi, di citazioni. Penso a tutto quel recupero critico che lei ha fatto di una certa costola del Rinascimento.

La mia famiglia possedeva uno chalet sul lago, in Toscana, che affittava agli Spadini. Io non ho fatto l'Accademia e Mimmo Spadini fu per me l'unica forma di insegnamento. Mi riceveva a casa sua e mi dava dei libri su Leonardo, su Michelangelo e Raffaello dicendomi: "Copia". L'esercizio valido resta quello. Non si può copiare l'arte moderna, ma i classici. Poi puoi anche allungare, "deformare le forme". L'intelaiatura che lei ha scorto nel mio lavoro è dovuta a questa unica forma di apprendistato ricevuta. Poi intervengono i percorsi soggettivi. Il Manierismo ha introdotto nella "classicità" la morbosità, l'erotismo. Il mio interesse si è indirizzato verso questo momento: tutta la scuola di Michelangelo, Pontormo, fino ad arrivare a Schiele che rappresenta la punta più acuminata verso il morbo. Mi interessava in questi pittori il substrato cupo, l'ambiguità.

Torniamo per un momento sul rapporto, tra gli anni Sessanta e Settanta, con alcuni scrittori interpreti della sua poetica e del suo linguaggio pittorico. Alberto Moravia, per esempio, ha scritto di lei che, arrivato ad un certo punto del suo lavoro, ha isolato un unico tema e ridotto drasticamente il mondo e la realtà alla sola coppia. Come l'ha individuato, visto che ritorna a più riprese nella sua pittura?

L'ho isolato visivamente abitando alcuni inverni sulla spiaggia di Sabaudia, osservando grovigli colorati di panni, di corpi sulle sabbie pulite, nude, deserte. Non c'erano ombrelloni, ma uno spazio infinito, il nulla. E' così che nasce… un'emozione visiva! Moravia, ne L'attenzione, descrive un personaggio di fronte al mare, d'inverno: questi prima vede una coppia immobile, come dopo l'amore, poi vede un cane, la carogna di un cane. Questo personaggio fa un paragone tra il cane e la coppia. C'è questa equivalenza: morte e post-coito, questa piccola morte e la morte. E' un'idea figurativa venuta dalle circostanze, dall'esperienza, sulla quale ho poi lavorato perché è un tema affascinante.

Pasolini, invece, qualche anno più tardi sposta l'attenzione su un asse diverso rispetto a quello di Moravia , cioè quello dei valori formali.

A Pasolini piaceva seguire lo sviluppo, l'evolversi della forma, delle forme, del ductus. Lo studio che lui compie sulla mia pittura gli somiglia molto. E' uno studio molecolare, una dissezione appunto.

Ma parla anche della sua pittura come di un "elaborato tecnico", all'interno del quale individua quella pratica sempre ricorrente del procedere per frammenti.

Posso risponderle che è una mia "invenzione" formale. E' una specie di citazione dell'affresco con le lacune… capisce… per cui per caso c'è rimasto un pezzo di un viso, per caso un pezzo di paesaggio. Mi ha sempre affascinato quest'idea della parete con le lacune. Ed è una cosa che nasce dalla mia formazione, probabilmente, dall'amore verso l'antico, la pittura antica. Per me la grande parabola dell'arte è quella del Prof. Arcivernice che aveva inventato appunto "l'arcivernice". Lui disegnava una cosa e, passandoci sopra la vernice, la cosa viveva, e così i suoi desideri.

Parlando degli anni Settanta, gli anni in cui mette a punto i famosi cicli dedicati ai canottieri, ai vogatori e successivamente agli ingegneri, lei ha parlato di un periodo minato da un sentimento di insincerità.

Io per insincerità intendo questo: ero deciso a rappresentare il mondo come volontà. Erano anni in cui le ideologie davano un certo impulso alla cultura. Naturalmente per me l'ideologia era quella del socialismo. Mi proiettavo in un'utopia che cercava un uomo giovane, sano, alieno dalla malattia, quindi un agonista coronato d'alloro. E desideravo che altri, anch'essi giovani, fossero persone in grado di costruire il futuro, gli ingegneri appunto.

Quindi il suo era uno slancio ottimistico, di fondo nutriva una fiducia intellettuale?

C'era uno slancio ottimistico, ma era falso. Attraverso il bricolage con la pittura del realismo sovietico di Deineka… ed è qui che conta la mia amicizia con Pasolini. Come Moravia ha spesso ripetuto, Pier Paolo è stato il primo uomo di sinistra a fare una poesia civile di sinistra. Penso a Le ceneri di Gramsci, così come a Elsa Morante che era riuscita a scrivere un romanzo popolare di altissima qualità formale, La Storia. In loro il progetto gramsciano ha trovato la sua più felice applicazione. Nella creazione bisogna sempre calcolare le intenzioni e i risultati perché se non ci sono i risultati le intenzioni naufragano. Il mio progetto, quindi, era insincero perché poco mi interessava della gente che lavorava o faceva dello sport. Trovo che il lavoro pittorico di quegli anni era troppo concertato, troppo volontario. Tu fai un progetto e questo progetto, poi, somiglia a quella cultura umbertina, Coppedè, che voleva fare la Francesca da Rimini, cioè Dante, la cultura di De Carolis quindi il Rinascimento rivisitato. E alla fine viene fuori Zandonai.

In quei quadri, però, c'è una rielaborazione critica delle forme che, forse, nessuno è riuscito a ripetere.

Questo mi fa piacere perché allora vuol dire che formalmente c'era una tenuta accettabile. Presumo, però, che solo oggi, al termine di un lungo viaggio, sono riuscito a trovare me stesso.

E' quindi venuta fuori un'energia precedentemente impiegata in progetti che erano estranei alla sua personalità?

Sì, è questo. Forse proprio Testori aveva capito che in me c'era più una volontà che una vera emozione. Tutto quello che è volontario è destinato a morire, a cadere. Allora nasce questo bisogno di rinnegare se stessi per andare avanti. Chissà, forse sono arrivato a dipingere quelle immagini di esaltazione del corpo attraverso la mia personale inabilità: come proiezione dell'essere, quello che non sei.

 


 
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