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La fonte di Mazzacane Quanno ri tedeschi
di Enzo Antonio Cicchino, Romanzi, pubblicato il 01 Gennaio 2012

 

Recensione di Giovanna Bruco


Gavena, un paese immaginario sperduto nel Molise, che oggi ci appare più fantastico che reale. Qui Enzo Antonio Cicchino (noto saggista della Rai, autore, fra l'altro, delle trasmissioni La Grande Storia e Correva l'anno) ha ricreato gli ambienti della terra di suo padre e sua, raccontando di una cultura contadina che sembra essere sopravvissuta per divenire protagonista del romanzo storico La fonte di Mazzacane. Quanno ri tideschi ammazzarono all'intrasatta (Laruffa, pp. 248, € 14,00), dove i ricordi si fanno memoria. Ricordi duri, certo d'ispirazione autobiografica legati alla vita del padre, espressi con parole che talvolta "travolgono il limite del lecito espressivo", dice Zanca nella Postfazione, dove la narrazione di Cicchino viene messa in relazione a Fontamara di Ignazio Silone, suo conterraneo dell'Italia centrale, di una stessa terra ingrata abbondante di dure pietre quanto scarsa d'acqua, della quale entrambi gli scrittori hanno saputo dare la rappresentazione dolorosa.
Storie di eccidi non ci sono nuove. Dal film La lunga notte del '43 di Florestano Vancini, tratto dalla raccolta di Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (vincitore del premio "Strega" nel 1956) a La grande guerra di Mario Monicelli (1959), e prima ancora il capolavoro di Roberto Rossellini Paisà, grandi registi del neorealismo hanno saputo fornircene, assieme ai nostri migliori scrittori, particolari agghiaccianti. Ma diversamente dagli storici e dai giornalisti che possono limitarsi a raccontare i fatti, per scrittori e artisti i fatti sono sempre stati un pretesto per dire altro.
E dunque, per venire a noi, qual è il protagonista di questo romanzo di Cicchino? In una intervista sul libro egli si è così espresso:
"Vi è un mantello sulla storia degli uomini e delle donne e degli animali e delle pietre raccolte nelle pagine di questo romanzo. Un mantello abbandonato dalla guerra con le sue pozze di sangue. Un mantello buttato come un peso tragico sugli omeri e nei solchi. Un mantello bucherellato di raffiche e di cappi. Quello tedesco, di un eccidio che ancora pesa con morte e piombo nel cuore. Che grida vendetta. Che aleggia il presente nel passato. Che ha piantato carne e tombe, seppellito amori, e spiccato ritorni. È l'eccidio di un immaginario che li racchiude tutti, Colle Impergola! È nome che tradisce massacri oscuri di vinti e vittime. Vendetta. Cruda. Nazista. E non solo".
Noi pensiamo che il miracolo della scrittura porti il lettore a rivestirla del significato che vuole, e questa abbiamo cercato di approfondire.

Parole che liberano nel silenzio della scrittura il suono di un conflitto interiore
Opportune distinzioni sul piano linguistico portano a chiedersi come mai, pur nello stesso intento di critica sociale, in Cicchino le costruzioni abbiano un incedere discontinuo, per come l'autore passa bruscamente da una pacatezza di tono a un opposto graffiante che a volte sembra voler assordare il lettore. È per costringerci ad entrare in sintonia col frastuono interno di un'umanità spogliata di tutto, a cominciare dalla speranza, che è rimasta sepolta nella silenziosa vita rurale? Noi il frastuono lo abbiamo sentito fin dalle prime pagine, nel viaggio di lavoro di Anacleto, il quale, diversamente dal veterinario goffo e trasandato col solito vestito che pareva "un'asola scucita" dove "dal taschino scendeva un grosso fazzoletto grigio che somigliava all'orecchio di una vacca" che incontreremo più avanti, è subito voce narrante che scuote il lettore con parole che paiono senza sbocco. Parole agitate, simili agli improvvisi scrosci d'acqua provenienti dal tetto del vagone che cadono sui passeggeri investendoli di viscidi capitoni. Colpiti per essersi avvinghiati alle gambe dei viaggiatori, i grossi vermi-serpenti continuano a guizzare nella loro schiuma bavosa e rossastra finché non arriva il vetturino ad aprire i finestrini e la via d'uscita dal combattimento con gli uomini rivela che si trattava dell'immagine di un sogno. Un incubo, forse, dovuto ai "molti viaggi persi e le troppe destinazioni mai raggiunte".
In Barbaruscio, altro personaggio chiave del libro, "Empio… con quella maschera potente che… pareva si fosse impiccata al silenzio", lo scompiglio ci arriva soffocato da una torbida "morale", intrappolata nell'odio incallitoglisi prima ancora dell'eccidio di Colle Impergola, del quale fu il responsabile per essersi vendicato delle capre rubate uccidendo due tedeschi. Pesante segreto che solo alla fine non riesce più a nascondere ad Anacleto, dopo aver vissuto a lungo appartato in una grotta da lui stesso scavata sotto le mura del cimitero: "Sto dintro al campisanto pi stari chiù vicino a ri vicchi amici".
E ancora sentiamo subbuglio nella morte fulminea del povero Mingantonio, cui Anacleto vuol far credere che le voci sul suo carcinoma erano state solo uno scherzo del figlio, quando dopo eccitanti stravaganze il falegname si accascia al suolo proprio come il motore rumoroso della sua pialla quando si fermava, e che aveva un che di bestia, come la terra. "Cominciò a volare, a sfrenarsi, saltare da un lenzuolo all'altro con la vitalità di un istrice ed un falco. Lo zigomo gli tremava. Il ciuffo basculante. Solo che… annaspava il pensiero… fra il credulo e l'incredulo. Ma il timore risvaniva. Allegro come un tormento. Felice più della grandine. Lupo senza sentieri. E falegname del vento. Era la muscolatura di un'ancora. Sì. Gaio. Eppoi spossato, attento. Vuoto, pieno. Impavido. […] Ammazzamorte! Contro le unzioni, le bare, le tombe, il fumo […] e le ceneri".
In questo stile originale, brioso, gaio anche al cospetto della morte, Cicchino tende a uscire dagli argini linguistici per andare oltre la realtà oggettiva e prendere le distanze sia dal rude verismo del linguaggio popolare di Silone che dal narratore interno di Gavino Ledda, il cui lessico non ricercato spesso traduce subito tra parentesi le espressioni dialettali sarde. Quasi che Cicchino preferisca far parlare i suoi cafuni per costringerci a capirli dal suono della loro voce, per dirci di un'identità etnica rimasta ancora viva in una musicalità antica, non ancora corrotta dalla miseria che ha invaso i sentimenti ossessionati dalle azioni dei tristi avvenimenti bellici. E forse per suggerirci che l'alleanza tra la razza dei cafuni molisani e il "padre", ossia quel mondo religioso e arcaico che li ha resi tanto duri e tenaci quanto privi di ogni possibilità di cambiamento, va in qualche modo spezzata. Con la forza della parola che ne sappia svelare la condanna ingiusta che nasconde.

La ribellione di Peruffa, donna dalla sana sensualità in cerca di vera vita
Ecco allora che l'accostamento di termini spesso spregiudicati e dissonanti vuole condurci, respiro dopo respiro, al finale drammatico del romanzo. Che, però, può dar adito a diverse letture di un messaggio finale come segreto da raggiungere. Latente sotto i segni della scrittura. Segni contorti che non a caso si addolciscono quando si spostano nell'universo femminile come quello di Peruffa, dove la ribellione interna è meno tragica e più vitale che negli altri personaggi. Negli intrighi sessuali che il suo corpo voglioso, sempre in tempesta, la costringe a vivere con suoi tre uomini c'è solo un non voler lasciarsi morire in quell'"amore contrario al desiderio" del marito Anacleto. Che odorava di stalla e che per la gelosia avrebbe potuto scannarla senza un gemito, così come sapeva fare con gli agnelli, "perché il suo essere bestia e il suo consorte" era "sincero, sì! Proprio sincero". Non come lei che qualunque cosa avrebbe preferito a "quella circospetta indifferenza con cui […] le si rivolgeva freddo e la colpiva" costringendola a mentire. ""Grazie" fece lei. Poi hhhhh! Hhhh! Disperata, sconvolta da un dolore lontano che ora tornava all'improvviso… […] Ed in cuor suo lei si sentiva come un partigiano che di notte dopo aver corso tanto s'aggira e rigira nei sentieri finché non sbaglia strada e torna stremato al punto di partenza. Per arrendersi. […] Si scrutavano ancora, con sfida. Ma entrambi sconfitti. Alto e grosso, pareva di un egoismo infantile sterminato, lui. […] Gli occhi di lei avevano la stessa infinita dolcezza di una piaga inguaribile. […] "Sì. Ti amo Peruffa, ti amo!". Corse ad abbracciarla… Ipocrita, schizofrenico. […] Stringendola si commosse. Identico ad un mulo che addenta una balla di fieno caduta per sbaglio della mangiatoia".

La verità urlata senza sotterfugi dal "matto" del paese, non più poeta imbavagliato
Uno stile più levigato troviamo anche nelle vicende meno tumultuose che caratterizzano il personaggio di Cipresso, in cui scorgiamo la possibilità di un valido rapporto con la donna che riscatti il finale del romanzo. Nell'ingenua follia di Cipresso, che per urlare ad Anacleto tutto il suo amore per Giovanna sale a chiamarlo da un palo del telegrafo costringendo l'amico, che è per lui come un padre adottivo, a fare lo stesso con slancio irrazionale inatteso, anche se razionalmente giustificato dal timore di essere reclamato da qualcuno precipitato in un burrone, sentiamo una timida separazione dalla natura, che le follie d'amore non ha mai conosciuto. Figura non ancora corrotta dai bisogni, al mite Cipresso la guerra ha tolto sì un po' di senno, ma non una sensibilità fuori dal comune. Tanto che riesce a diventare persino arguto quando scrive un necrologio procuratogli da Anacleto come suo "primo vero incarico", su commissione di Cacchione, un marito di cui tutto il paese fingeva di non sapere che aveva gettato la giovane moglie nel pozzo assieme alla bicicletta perché lo aveva tradito col bel pompiere Tullio Cantaro. Incarico accettato da Cipresso per ripiego, solo dopo che la vecchia Irene non era riuscita a fargli pubblicare le sue poesie come promesso: ""Non ho più alcuna stima delle poesie che ho scritto. Il mio lavoro è banale! Mi vergogno!" […] "Le pubblicheremo Cipresso, le pubblicheremo credi a me! […] Continua a cercare la bellezza amico! Insisti…!" […] Cipresso rise con fiducia amara del suo sguardo di vecchia innamorata. Per lei lui era un angolo remoto, estraneo alle stucchevoli mediazioni che appartenevano alla sua vita. […] Era il pregiudizio che la sprofondava nella melma", non era come il "fiume di cianuro […] che sorge dalla ragione". Anche se: "Unghie massicce, sguardo calloso, c'era poco in Cipresso dell'artista che avrebbe voluto essere. Gli zigomi da maschio facevano pensare piuttosto ai colli petrosi del suo villaggio: alla terra zappata col cuore secco… invece che al poeta! Lui pareva un uomo divenuto terra. Una terra che neanche il sudore del cielo avrebbe potuto intenerire!". Ma: "Iré che fa? Chiagni?".
È "Intrigante" e "artificiosa", nonostante le lacrime di commozione, la vecchia contessa, tanto che Scurcetta e Pierluigi, i carbonari che presso di lei prestano malvolentieri servizio, tentano di uccidere con gli effetti tossici dell'ossido di carbonio tutti gli ospiti del suo salotto borghese. Bramosa delle attenzioni di Cipresso, il personaggio di Irene incarna il tornaconto sterile del suo ambiente quando vorrebbe comprarsene l'amore, regalandogli maliziosa un armadio nuovo con due specchi dove potersi "finalmente specchiare in due". Che però lascia Cipresso, ormai innamorato di Giovanna, "sobrio, composto" con già dentro l'inizio di un addio da "una normalità che pareva strangolasse". E Irene: ""Beh, a parte… Giovanna. Cos'altro mi racconti?". […] Una travolgente ruota di ovuli secchi. Il cerchio del fuoco mostrava il suo cardine molle". Ma subito dopo parole più dolci vanno ad accarezzare Cipresso: "Io non racconto che il nulla. Nulla! Tranne che il mondo è diventato onesto!". […] Il cuore gli batteva sopraffatto dalla memoria felice dell'incontro avuto poc'anzi con Giovanna quella mattina. Si rendeva conto che il suo corpo di uomo non avrebbe avuto alcun senso se privo di passione, privo di donna, privo di futuro, sarebbe stato inutile, trucido, scadente! Banale, infetto!".
Nel salotto di Irene troviamo anche la giornalista Clotilde, figura che, alla fine, viene sfregiata dai sobbollimenti che fermentano in Anacleto e esplodono su di lei quando, ipocrita e indifferente ai disperati approcci di lui, fuggito di casa senza farsi vedere per aver scoperto Peruffa a letto con John, sarà solo a caccia delle notizie segrete avute da Barbaruscio sull'eccidio, per una notizia che faccia scandalo e che le porti i dovuti introiti. "Gli guardò perplessa la pancia. "Ti dà carattere!" disse. Un dialogo di circostanza. Anonimo. Evasivo. "Ti dà un carattere forte!" incoraggiò. Ma Anacleto, guardando lo specchio… si odiava. […] "Provo angoscia… Strano. L'angoscia di essere sincero!"".
Solo i due vecchietti ai quali Anacleto aveva dato del denaro quando ne avevano perso al gioco e pensano di doverglielo restituire riscattano nell'economia del romanzo le clandestinità di appropriazioni indebite. Ma Anacleto l'elemosina la fa volentieri e quei soldi non li rivuole. Non possono bastare a sopportare le miserie di affetti che lo stanno trascinando alla dolorosa fine.

La ciclicità della Terra e della Natura non simboleggia l'indole dei personaggi
Dunque temi reali, toccanti, drammatici, questi affrontati da Cicchino. Storie che ci sembra di aver già sentito ma che tornano avvincenti per l'agilità con cui l'autore passa da un quadro all'altro legandoli insieme come si fa nel montaggio di un film: "La faccia di Scurcetta poi era un pugno nello stomaco… peggio di un verme che fa cucù in mezzo alla forchetta di un cliente… […] Di lui era amico solo quel vipero di Pierluigi" che era "un uomo rinselvatichito. Ondulante, il cuore. Tuc! Tuc! Tuctuctuctuc! Ru zazambr di ru core! […] Nell'ispido scorzone del cranio certo gli si proiettava il fuoco, la brace, il fegato, le ossa, il cervello e di nuovo il fuoco… Svum! Neppure le vernecche carnali del carbone acceso fossero soffiate dai proiettori di un cinema! Lanterne di un sogno… il suo cinema! Trtrtrtrk! Trtrtrtrk! Trtrtrtrk!". Certo Cicchino sa, anche quando si serve di questi suoni che ci ricordano quelli che precedono il linguaggio articolato nei bambini, che se la poesia è libera e le parole possono andare dove vogliono, non così è per la narrazione, che non sempre può raccontare poeticamente. Ma il miracolo della scrittura, come prima linea interna che non ha suono, ha sempre qualcosa di importante da dire se la sua forma è autentica e ognuno può rivestirla del significato che vuole.
Così possiamo concederci di dissentire da una connotazione positiva della "perfetta - di cui si parla nella Postfazione - uomo-animale-natura", che non ci pare appropriata allo stato d'animo che caratterizza le azioni dei personaggi. Tanto che, a ben vedere, è la stessa scrittura provocatoria di Cicchino, che da questa simbiosi non si è lasciata confondere, a svelare l'ipocrisia che nasconde. Ipocrisia che, più volte esplicitamente suggerita da Anacleto al trasparente Cipresso, è proprio quell'alone nero, imperscrutabile, che nel libro cola fango e freddo sui sentimenti dei protagonisti prima ancora che sull'habitat.
Fatta eccezione per Cipresso e Giovanna nel momento del loro amore nascente quando riescono a giocarci vincendo la paura di sporcarsi e poi se li scrollano di dosso. ""Ti avverto!" fece duro Cipresso. "Io ho propensione per il dolore. Vorrei che tu non me lo contestassi mai… […]" "Ne hai ancora paura! […] Stupido! […] Credi che io non capisca quel che tu…". Lo baciò. E l'imbarazzo per le verità semplici della vita gli fece sentire l'esistenza un male incurabile. […] C'era la luna. Quando all'intrasatta Cipresso affondò nel terreno molliccio che circondava il lago. "Aaah!" […] e scivolò con il sedere nel fango. Giovanna, per un minuto si era divertita a vederlo annaspare. "Esci dall'acqua!". Alfine… rise […]. "Con questo freddo ti prenderai una bronchite! Vieni andiamo a casa a cambiarti!". Ma la faccia opaca di lui si animava. […] prese a scavare […]. "Ecco, questo è il Nilo!" […] "Ecco il Missouri". "Ecco il Volga!"".
Fantasie di poeta che saranno bazzecole di innamorati per Anacleto, ostinato a incarnare la simbiosi come la "pena contadina" col vincolo di condensare in sé gli altri personaggi minori coi quali lui è l'unico a intrecciare esistenze colme di risentimenti, invidie, sventure, tragici amori col "rischio di essere un amico di quella gente". Ma, a nostro avviso, è proprio l'impossibilità di districare questa simbiosi fra uomini e bestie a portare al finale drammatico. E non per un atto d'amore-sacrificio che amore faccia vivere, come quello nato tra Peruffa e John durante la guerra, quando gli stessi mariti acconsentivano a barattare le mogli per una stecca di cioccolata. Più realistico è per noi pensare che Anacleto soccombe per non aver compreso che la creatività nel rapporto interumano, come esigenza particolare della specie umana cui apparteniamo, viene prima di quello con la terra, che il pensiero umano non può comprendere e che gli animali non hanno. "Quella mattina Anacleto si scoprì innamoratissimo di Peruffa, le si era così immerso; come un rospo nella terra umida dell'orto, da non volersene staccare".
L'identificazione col padre padrone come terra e paese ha soffocato nei bisogni quotidiani l'esigenza umana di realizzarsi "nonostante", e in primis nel rapporto con l'essere umano diverso, che comincia con la donna per l'uomo e con l'uomo per la donna. Donna che nel libro è un'immagine perdente destinata ad essere o moglie fedifraga e madre assente col figlio Orazio, oppure puttana schiava di un vantaggio borghese. Unica figura femminile che sembrerebbe salvarsi è Giovanna, che quando sa di aspettare un bambino decide di trasferirsi con Cipresso nel suo paese, anche se ci lascia col fiato sospeso il fatto che appena diventata moglie fa rinnegare a Cipresso la sua vena poetica per una voglia "tutta nuova" di tornare a vivere a Pesche con lei. Un luogo non troppo distante, dove Cipresso rischia di diventare a sua volta un altro padre padrone. ""Sicché, torni tra i tuoi cafoni!?". Anacleto, ripensandoci masticava il pensiero. C'aveva riflettuto ancora su quella resa di Cipresso e […] non riusciva a mandarla giù. "Torno tra i miei cafoni. Certo! […] ora che sono sposato, ci voglio vivere! Allevarci mio figlio. Come ha fatto mio nonno, mio padre, e tutti gli altri". Dunque, l'attesa di un figlio sembrerebbe aver già fatto dimenticare a Cipresso la poesia che aveva dato a Irene, e che a lei era caduta di tasca come un foglio sgualcito prima delle inutili lacrime. E in questa condanna alla ripetizione ecco che comprendiamo perché a tratti la scrittura di Cicchino sembri scavare dentro la ricerca affannosa dell'immagine originaria della nascita come prima fantasia umana che non può perdersi nel mondo infinito della natura. Natura che non pensa e non odia e che la fantasia dell'umano non ha e non potrà mai avere a che fare. Cicchino sa che dietro il duro e "rugoso" lavoro del contadino c'è un'idea. Ma sa anche che per restare tale deve essere legata agli affetti sani della vita che il ciclo di riproduzione della natura non conosce. E forse sa anche che gli animali non fanno scienza né arte. E quando le parole diventano troppe, ridondanti, eccessive, ciò è certo dovuto al fatto che sono alla ricerca forsennata di qualcosa andato perduto, ma che si può recuperare colmando il vuoto di disumana ignoranza sull'umano, a cominciare proprio dal cerchio angusto di Gavena, dove il prete Bartolo è l'unica autorità che incute rispetto e il veterinario è costretto ad essere anche il medico chirurgo "amico, confidente, avvocato e giudice" dei cristiani del paese. "Nel dolore tuttavia, il parroco trattenne un sorriso, come quando un germoglio tenero fa capolino dalla bisaccia di un ortolano. Non era che un tralcio da potare anche la sua cisti! Pur se Anacleto l'avrebbe poi buttata in quell'orfanotrofio squallido che è il bidone della spazzatura!?". La religione come alleata di tutto ciò che è solo manifesto come le ferite del corpo, che hanno le stesse caratteristiche sia nelle bestie che nei cristiani, è un pensiero latente cesellato abilmente dall'autore fino all'ultima pagina. Quando fede e ragione si trovano insieme a rispecchiarsi nella morte, che cade sul marmo gelido della chiesa mentre sangue ancora caldo vacilla alla ricerca di un latte umano che non lo faccia sentire solo come è stato con quello della scrofa, da sembrare raccolto fino alla fine tra le mani ancora tremanti di Anacleto protese a toccarne "i trepidi capezzoli". Alla sintesi di questa eloquente rappresentazione pensava inconsapevolmente l'autore quando faceva dire da Giovanna a Cipresso: "Divengono sculture… le tue parole".

 

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La fonte di Mazzacane, quanno ri tedeschi
di Enzo Antonio Cicchino

(Recensione a cura di Enzo Natta)

 

"Divengono sculture...le tue parole". E' una battuta che può essere presa a campione di La fonte di Mazzacane di Enzo Antonio Cicchino (Laruffa Editore. Reggio Calabria, 2012. Pagg. 243. € 14,00), romanzo dove ogni parola sembra scolpita nella dura e selvaggia terra del Molise. In questo ambiente desolato e sperduto, in un mondo arcaico e crudele, ferino e primitivo, reso ancor più ostile dalle ferite ancora non rimarginate della guerra e dal ricordo dell'eccidio di Colle Impergola, si dipana la storia di Anacleto, veterinario ma anche medico all'occasione, che va su e giù per queste valli che conservano intatto l'orgoglio sannita sannita con la sua assordante motocicletta. Povero Anacleto, invischiato in un matrimonio stanco e rattrappito in una gelida indifferenza, cireneo che porta sulle spalle tutte le pene del mondo confluite in questa Macondo, un non-luogo che si popola di un'umanità tanto enigmatica quanto paradossale, incarnazione del bene e del male che procedono appaiati, tenendosi a braccetto sui sentieri di una terra di mezzo.
In un impasto di materia e poesia, eros e thanatos si intrecciano di continuo nel racconto e Anacleto è il primo personaggio che si incontra, parimenti segnato dall'amore e dalla morte, dal desiderio e dalla gelosia, ma nello stesso tempo da un fato inesorabile, da una condanna che tutto stritola e divora. Straziato, disperato, ossessionato da un'esistenza mai condivisa nel suo divenire, Anacleto si dibatte inutilmente in un'energia emotiva che si fa febbre dionisiaca, estasi, eccitazione, vertigine, ma che lentamente lo consuma e lo svuota. Il tutto in un turbine di sentimenti, amarezza, fatalità, mistero, alimentato da una natura primitiva e da uno spirito lirico fusi in un linguaggio sperimentale, corposo e sanguigno .
In questo quadro magico e arcano, lo scenario descritto da Enzo Antonio Cicchino si dilata fino a diventare paesaggio universale, palcoscenico dove l'amore, eternamente cercato e inseguito, si fa sofferenza, oscurità, angoscia.

"Partenze", primo capitolo del romanzo, dà il via a un lungo viaggio, che non è l'odissea di un singolo personaggio (per questo l'uso del plurale) ma di un'intera comunità umana, mista, eterogenea, fatta di giovani e vecchi, ricchi e poveri, dove compaiono anche, figure misteriose e fuori luogo, un inglese alto e robusto e un bambino nero.
Bastano poche righe, comunque, perché la narrazione si rivesta con i contorni del sogno, di uno spazio onirico dal quale affiorano angosce e turbamenti, tipi curiosi oltre che strani, mostri d'ogni tipo, compresi grossi capitoni e sanguisughe che strisciano sul fondo dei vagoni di un convoglio ferroviario. E basta anche passare al secondo capitolo, "Ritorni", per capire che le differenze fra realtà e sogno non sono poi così marcate, afferrabili soltanto nel linguaggio che le evidenzia.
Surreale, magico, fantasmagorico, La fonte di Mazzacane è la fonte stessa della vita, è la Storia con la S maiuscola che si innerva in un'umanità dolente e ferita, dove lo stile è quello dell'egloga che alterna la prosa bucolica e pastorale con la lirica, dove l'avanguardia e lo sperimentalismo fanno capolino sommandosi a un postmoderno in cui la commistione dei generi determina un "crossover" letterario fatto di grottesco, fantastico, favolistico, ma anche di naturalismo che si accavallano e si confondono.
Tutto questo fa sì che personaggi e ambiente si integrino e si uniformino in un blocco armonico duro e tagliente come le pietre scheggiate che dominano la scena, restituendo così il senso di un livido grigiore, mescolanza del bianco della neve e del nero di rocce antiche, che trascolora nel grigiore delle anime.
Come in Brecht il conflitto di classe che risuona di continuo si riverbera in un linguaggio che suona come parodia di una lingua altra, con assonanze e dissonanze che si inseguono e si trasformano in una poesia dalle molte voci: un caleidoscopio linguistico modellato su forme narrative intercambiabili, dove il confine tra il reale e il fantastico è sempre incerto, sì che nel suo labirinto è facile smarrirsi.
Sostenuto da un vitalismo epidermico dove trionfa la nuda forza di una natura selvaggia, La fonte di Mazzacane si presenta dunque come un gioco di specchi dal quale emerge un verismo sanguigno e carnale che indaga l'indecifrabile zona oscura di quel tormento esistenziale che si agita nell'animo di emarginati colti nell'esplosione di passioni vissute in modo viscerale, non senza allusioni grevi e volgari che conferiscono piena autenticità a una carnalità esibita a oltranza in un insieme di goffaggine e fragilità di personaggi descritti con un linguaggio denso e corposo, in un impasto di lingua e dialetto, di miseria e grandezza, di metafore sanguigne e sensuali che si librano al di sopra di una coscienza reificata.
Ed è allora che il tema dominante della malinconia per la fugacità della bellezza e della morte che bussa per esigere il suo irrinunciabile tributo si riveste di una ruvida scorza in cui l'eco di classici come Rabelais e Villon si trasforma in esuberanza linguistica comprensiva di invenzioni e deformazioni, in una prosa che si nutre dell'humus ancestrale della terra molisana e lo trasforma in stile.

 

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Filippo La Porta
Diario di un patriota Perplesso negli USA
Edizioni e/o Roma 2008

 

Recensione di Giovanna Bruco

 


Patriota, citano i dizionari, è persona portata all'esaltazione della difesa di un'idea nazionale e politica, oppure semplicemente colui che ama il proprio paese e si sacrifica per esso. Perplesso è chi è indeciso per il persistere di motivi di incertezza.
Nel capitolo di questo libro "I veri patrioti" ci viene infine data l'interpretazione attuale in America sugli autentici patrioti (precisata sulla rivista radicale The Nation ). Essi non sarebbero più i fan della guerra ma le Associazioni che tra alcuni articoli del famigerato "Patriot Act" hanno fatto abrogare quello che permetteva all'FBI di sorvegliare le letture degli utenti attraverso i libri dati in prestito.
Cosa dunque può passare per la testa di un patriota perplesso negli Usa? La Porta ce lo racconta in un saggio non formale scritto dopo un soggiorno di sei mesi negli States.
<<Senta, sono italiano, amo il vostro paese, il vostro spirito di tolleranza (...) Ora in Italia abbiamo tanti difetti ma tendiamo a trovare una soluzione ai problemi della quotidianità. Siamo più flessibili, più elastici. Non abbiamo il culto della regola, come da voi. Non le pare che così si vivrebbe meglio?>> (Dialoghetto a Providence).
Già in questa domanda c'è tutta la pretesa dell'autore di non violare il ritmo segreto, interno, di quelle che Mussolini chiamava le "mollezze" degli italiani, se non per incanalarle verso una necessaria razionalità pubblica.
Costretto a ripiegare su convincimenti "perplessi" difronte all'autostima di un paese di cui Soldati aveva previsto fin dal 1929, seppure già con nostalgia della nostra cucina e dei nostri cortili, la prorompente e inarrestabile modernità (Con amore e squallore), l'autore ci racconta di situazioni parossistiche dove finisce per convincersi che a sbagliare siamo noi italiani.
Che ci si senta lasciati a terra malridotti alla stazione di Providence a meditare sulla " dialettica di regole e diritti in una democrazia" tra gli odori pestilenziali di hamburger e chips, o ci si lasci azzittire a un "cocktail party come impegno" che assomiglia a una terapia di gruppo dove "è vietata l'ironia" anche su ciò che dovrebbe essere spontaneo (Riti protestanti), La Porta ci coinvolge a dibatterci con lui tra la modernità d'oltreoceno, poco incline all'autocritica, e una incapacità tutta italiana di fare i conti col nostro grande passato che sembra essersi dissolto nelle due grandi modernizzazioni degli anni sessanta e ottanta (L'umile Italia e noi).
Raffronti che passano dal cinema neorealista alla letteratura americana si interrogano sull'immaginario non più vero che ciascun paese continua ad avere dell'altro. "Il sogno americano" degli ultimi anni cinquanta, che ben si sposava con "Il bel paese dove fioriscono i limoni", è andato oltre la Coney Island delle obese famiglie americane di oggi, dove non ci stupiremmo di incontrare la mole corpulenta di Aldo Fabrizi, mentre la spiaggia di Fregene esibisce muscolaure scolpite sotto abbronzature perfette. (Una modernità rattoppata). L'espressione "il bel paese" di Stoppani, assorbito nel marketing da un caseificio che doveva competere coi formaggi francesi, si è perso in un immaginario globalizzato, tendenzialmente americano, che fa sì che le differenze che sottendevano certi stereotipi vanno sempre più a sparire.
E' un bene o un male? Si domanda l'autore. Prima, "cialtroni e allergici alle regole almeno eravamo diversi dagli altri", ma adesso? Anche se siamo pronti a utilizzare un repertorio di invettive antiamericane giustificabili (Ritorsioni), anche se sappiamo reagire di fronte ai molti stereotipi negativi accumulatisi specie in America sul nostro paese, perché ancora non riusciamo a separarci da (L'America immaginaria come specchio della nostra identità)?
E' forse per questo che il nostro scarso patriottismo si traduce in un atteggiamento autolesionistico?

Ma ecco che nei capitoli dedicati a C.Levi scopriamo che la perplessità di la Porta è ricerca orgogliosamente letteraria. L'incertezza di una perplessità che vuole spingersi oltre un generico pedagogismo preconcetto, nel momento in cui propone come unica via d'uscita possibile il recupero della bellezza suggerito da Levi (Amore per la bellezza), non è più tale per la proposta appassionata di ritradurre il nostro passato in una idea di modernità più ricca e più complessa. Che non è certo quella dell'impegno dell'"Italian Style" come marchio esportato dai nostri stilisti, "degenerato nello strapotere dei cosiddetti creativi della cultura della moda", ma di uno stile di vita che sviluppi quel qualcosa che abbiamo "dentro" da sempre. Quel "dentro" scimmiottato furbescamente dagli sceneggiatori dei Simpson quando ne hanno messo in luce la decadenza nella famosa puntata in cui compare una Lamborgotti (che ovviamente sta per Lamborghini) dove campeggia la scritta neobarocca <<per chi non ha davvero nulla dentro>>.
Ma è confessando di sentirsi letterariamente meno patriottico di un suo "equivalente" americano (Dialogando con Liesl Schillinger ) che l'autore fa tacitamente appello a un patriottismo letterario che può e deve andare oltre. Se è vero che con il postmoderno si sono esaurite le grandi narrazioni, e il vuoto viene riempito dagli iperconsumi come surrogati mediatici della realtà dove la nostra anima "viene amputata senza che nessuno abbia mai capito da chi e neppure in cosa precisamente consista" (Ma come, non sono americano?), declinare la modernità sta forse nel compito difficilissimo di rielaborare il passato per reinterpretarlo e ricrearlo in una idea nuova che recuperi il nostro antico "amore per la bellezza"
Ecco che in tempi di disvalore di questa, dove le certezze granitiche di leghismo e berlusconismo vanno a imbruttire quelli che C. Levi chiamava "i bei volti" degli italiani, riproporre il suo singolare patriottismo diventa una modernità auspicabile.
Attualissima la distinzione metaforica tra "Luigini" e "contadini"(dove i primi amano solo comandare e ubbidire per calcolo, mentre i secondi son quelli che amano le cose che fanno e se le fanno bastare) che Levi fa ne "L'orologio" (Antitaliani e arcitaliani). Ma pur mal sopportando i Luigini pavidi e conformisti che plasmano la vita della nazione egli non cessa di amare certe qualità degli italiani che sente originarie.
Anche quando in "Cristo si è fermato a Eboli" sottolinea l'eterno fascismo italiano con la sua tendenza a crearsi uno Stato idolatrico (Un patriottismo disturbato), lo fa sognando uno Stato non compromesso dalla retorica fascista, capace di eliminare i Luigini. E per questo se la prese anche con Churchill difendendo la maggioranza degli italiani che il fascismo lo aveva subito.
L'idea fortemente pedagogica che percorre tutto il novecento, che gli italiani vanno "raddrizzati" (Raddrizzare gli italiani?) auspicando prove terribili che ne formino il carattere ( il risentimento di Mussolini negli ultimi anni lo portò a parlare di "deficienza della razza" suscitando le polemiche di tutti gli altri ministri), è totalmente estraneo alle attitudini di Levi che ama gli italiani e li accetta per quello che sono. Laddove gli altri popoli si limitano a vivere intorno alle regole imposte dalle Istituzioni, gli italiani devono raccogliersi intorno all'Arte come valore esistenziale.
Nella polemica di Levi contro l'estetismo del D'Annunzio si riscontra una attitudine antropologica immersa in un mondo arcaico, che si accosta a quello di E.De Martino su una base di misteriosa sicurezza della presenza dell'esistere. Il rapporto di Levi con l'Arte, ci ricorda la Porta, è ferma intuizione che i difetti degli italiani, visti come degenerazione di qualità originarie, possono risalire alla ricreazione di queste. E ciò gli fa rifiutare atteggiamenti moralistici sui "cattivi", perché anche i clichè più negativi rimandano alla perdita di qualcosa che si può riconquistare. Nelle stesse pagine che Levi scrive sull'ozio italico che degenera in inerzia e indifferenza, lui distingue tra un ozio parassitario o forzato e un ozio "divino", legato a una filosofia di vita che oggi potremmo chiamare libertà, e che non è necessariamente in contrasto con la laboriosità del "contadino", che ama quello che fa anche quando lo alterna al "dolce far niente" di una felicità legata alla bellezza non razionale del vivere.
L'antipedagogismo di Levi, nella misura in cui pone considerazioni di costume (Difetti e qualità coincidono), allontana il problema patriottico da quella discontinuità che gli storici hanno messo a fuoco tra Risorgimento e Resistenza. Fino a far forse ipotizzare che alla base del persistere dei nostri stereotipi negativi, prima ancora dell' immaginario politico legato ai fatti, ci sia il problema del pensiero immagine che lo sottende e che la moderna psichiatria ha messo a fuoco.
Niente paura se i colori della bandiera americana ci evocano gioie infantili legate ai western "festosamente epici" di Jhon Ford mentre il tricolore ci "ispira sentimenti neutri, imbarazzanti" (Bandiere).
Forse l'immaginario legato al ricordo delle figure percepite con gli occhi stenta a incontrare quell'immagine originaria invisibile, nemica di ogni nazionalismo, di cui Levi aveva intuito l'esistenza.
In sostanza, a chiusura del libro, ci è sembrato che l'autore abbia voluto chiederci: perché le moderne narrazioni diventino processi capaci di influenzare uno stile di vita bello, quanto e come l'immagine deve incontrarsi con l'immaginario? Non lo sappiamo. Ma la ricerca è aperta.

***

 

 

Giuseppe Francesconi
"Fabulae Sparsae" di un cacciatore semipentito
Titania Editrice, Lucca 2008
pp.88 E. 20

Recensione di Giovanna Bruco


La foto di copertina, dove l'autore stringe la zampa al suo cane, ci dice subito di una fedeltà a ricordi mai cancellati di cui sapremo più avanti.
Entriamo nel libro con leggerezza. Un po' per non disturbare la quiete dell'acqua che lambisce i campi dietro le due figure, un po' perché di caccia non ne sappiamo nulla; se non per quei divieti in zone di ripopolamento dei fagiani di cui a volte leggiamo sulle colline toscane, quando quei volatili saltano fuori dai cespugli a sorprendere le nostre passeggiate.
Scorrendo le pagine ci colpiscono foto d'epoca e altre a colori, dalle quali ci lasciamo trasportare in luoghi senza tempo, dentro paesaggi rimasti intatti nella memoria.
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come si ricorda per raccontarla (p.12), evoca separazioni fatte con fantasia, e il passaggio dalla Prefazio al Preludio con rapido spostamento dalla mente alla pancia, non suona per niente irriverente alla poetica di Marquez, pur avvenendo tramite una ricetta di cucina. E non solo. Il succulento Timballo alla lucchese (p16) fa riflettere noi pignoli di professione su alcune carenze di materia filosofica. Sul fatto, ad esempio, che illustri studiosi della relazione mente-corpo non sono mai arrivati ad accostarli così armoniosamente come fa l'autore, forse perché quelli erano lontani dal saper mescolare l'odore dei maccheroni e il sapore della briciolina fritta agli affetti trepidanti dell'attesa che appartengono ai sogni e all'inesperienza della prima infanzia, quando nella sfera del pensiero il sensoriale tutto è meraviglioso nel suo mistero senza intelligenza.
Poniamo attenzione ad altre citazioni di Poliziano, Dante, De Nobili. E accanto a questi non sembra sfigurare la presenza di una " Circe piumata" (Il fringuello fuggitivo p.19), la descrizione del cui canto lo rende incorporeo, quasi solo un suono di immagine, la cui scomparsa è impalpabile delusione.
In un altro tomo una curiosa storia ci racconta dell'avventuroso recupero, dal fondo delle acque del lago, del fucile del maestro Giacomo Puccini. E subito dopo entriamo nell'omertà del padule, dove scopriamo esserci leggi non scritte ma ben precise, che più avanti ci rassicureranno sul fatto che la fossa destinata a tinche e lucci messi nel barchino per crescere è stata riempita di nuovo. Senza più pericolo,
Altrettanto precisi ci vengono incontro i caratteri di alcuni personaggi tra cui primeggia Berto, il maestro di caccia dell'autore che fu ricordato dallo stesso De Santis come un uomo "che aveva tanta tenerezza e un cuore come un grattacielo" (p.31), e che appare nelle foto del libro circondato da un silenzio infinito. E' forse lo stesso che ha lasciato nell'autore quel "groppo di nostalgia e sconfinata angoscia" (p.30) che ancora gli attanaglia la gola quando si reca alla sua tomba ?
Questa confessione ci fa venir voglia di leggere gli altri capitoli tutto d'un fiato, quasi a voler cercare negli anfratti delle storie l'origine di questo sentire.
Ma i rituali di un mondo che non abbiamo mai conosciuto, e che giunge quasi ossessivo, carpisce tutta la nostra attenzione. Tanto che non ci lasciamo distogliere dall'ironia con cui l'autore ci racconta di avventure cubane non solo venatorie, o dalla malinconia con cui vengono ricordati i cari amici Paolo e Mauro, e alla fine Enea. Una lettera firmata da Mauro stempera ricordi vissuti in luoghi esotici, la cui bellezza è contrastata dalla impossibilità di una libertà dai bisogni cui gli esseri umani hanno diritto.
Così come la natura ha diritto alle sue albe meravigliose.
Siamo arrivati a Cuba (Cuba te quiero p.47) con l'autore dopo aver intuito che il marrobbio è una rapida variazione del livello marino, che la votazza o fottazza è lo sciabordio dell'acqua che serve ad attirare le folaghe, che la pessola è il foulard che il cacciatore si mette al collo per asciugare il sudore, e che il verbo aggallare deve ben sposarsi con un cuore gonfio di aspettative carniere.
Ora che sappiamo che il il nostro cacciatore ha imparato ad usare la doppietta Krupp tre anelli regalatagli dal padre, non ci tiriamo indietro e andiamo a cacciare con lui. Sapevamo solo dei codoni, fischioni e morette. Adesso conosciamo anche le alzavole e i moriglioni. E scopriamo che la Canapiglia è un uccello simile al Germano Reale, dal quale si distingue solo nel volo perché mostra la pancia bianca, e che a Cuba è un uccello proibito da cacciare.
Mentre beviamo con più attenzione l'acqua Panna leggendo del luogo che le dà il nome, ci lasciamo mettere in disparte dai successi del nostro cacciatore in una battuta all'inglese senza cani, in quel di Scarperia, che si chiude troppo presto per quota da lui raggiunta dei capi assegnati da abbattere.
Poi andiamo in Argentina (qui la descrizione dei luoghi è particolareggiata ed essenziale come sapientemente centrata era stata quella dell'accoglienza cubana), nella cui pampa sconfinata si possono cacciare lepri e pernici a volontà. L'amico Mauro ha scritto al nostro che il suo fucile lo aspetta ancora ( e chissà se l'autore si abituerà mai al cibo argentino difficile da assaporare! )
Ed ecco che nell'ultimo capitolo assistiamo a un vivacissimo scontro tra il grande cacciatore Malecche, Calzoncin, o Berto di Calzon, che torna protagonista assieme a un altro grande, Enea detto il Volpino, in un incontro imprevisto nel padule per uno sbaglio di turno di caccia che sprigiona tra i due un astio lungamente sopito e taciuto(p.82).
La loro "commedia al braccio"(p83) ricorda le baruffe goldoniane perché i loro "sussurri", dice l'autore, sono "di puro onore professionale" (p.84), e quindi diversi da quelli che insorsero anni addietro tra il Calzone padre di Calzoncin e il "pesciaio" Guglielmo, le urla violente dei quali giungevano emblematiche di una povertà ancestrale (p.84), e di una secolare esperienza (p.83).
Questi altri due "big dell'Ars Venandi"(p.81) sembrano differenziarsi dagli altri personaggi (come Bacchio, che dà il nome oltre che al podere anche al suo vino, e porge la dolce uva proibita solo alla contessa Caterina da Bacchio, nonna del nostro; o lo stesso padre di Berto Casimiro Checchi, guardia del lago con giacca ben lavorata da annosi incontri con il sole e la pioggia- p.23-) per una legittima vocazione a contendersi una identità umana che pretende di essere tale prima ancora di diventare lotta per la lira. Per la rivendicazione di sopravvivenza culturale e storica che non vuole restare voce roca.
Berto non aveva mai compreso perché fosse stato arrestato prima dai tedeschi e poi dagli americani. Perché l'unico imbroglio che lui conosceva era quello de La Tela alle folaghe(p.39). Era per questo, ci chiediamo, che fumava e taceva e dava del lei?
E vien anche da domandarsi se quello che nel libro circonda Berto Checchi sia il silenzio della natura o quello suo interno umano.
Perché ci viene ben detto che il silenzio non senza pensiero della cultura contadina, pur limitandosi a piantare patate nello zag (p16) scavato per le trincee tedesche, riusciva a salvarsi dalla stupidità della violenza della guerra. Se già nella Praefazio ci era stato raccontato che la caccia era stata non solo una ragione di vita ma di sopravvivenza, e nel Preludio ci aveva intrigato quel sotterrare la cassa di zinco coi fucili da caccia per salvarsi dalla morte, ora ci viene il sospetto che questi racconti venatori siano solo un pretesto per dire altro. Ovvero di come la semplicità e saggezza contadina possano contrapporsi con efficacia al sadismo bellico.
Foto del nostro amico che esibisce prede abbondanti ce lo rendono per un attimo estraneo. Preferiamo ritrovarlo con gli occhi contro il sole nel cuore del libro, separato dalle stesse prede deposte accanto a lui sul sedile. Il fucile a riposo sulle ginocchia.
A noi alla fin fine non dispiace che l'autore non abbia mai imparato a sparare come avrebbe voluto il suo maestro Berto Checchi. Diversamente dalle prede uccise, che non hanno il pensiero, quando anche il peso degli anni può farci sentire il core sbietolito e il cervello sbambagiato (Commiato p.87), per noi umani è sempre possibile ricreare quanto vissuto nell'età bella dell'incoscienza con un velo di pentimento che non annulla i rapporti vissuti. Questo consente alla narrazione di svelarci la sostanza invisibile che c'è sempre nel tessuto letterario. Il libro sembra chiedersi: gli animali si uccidono per la sopravvivenza della specie. Noi li uccidiamo per mangiarli. Ma gli uomini, perché mai si odiano e si uccidono tra loro?
E ' da questa domanda che viene l'angoscia di cui pagine prima si era parlato?
E' nella contrapposizione apertura di caccia- eventi bellici che va cercata secondo noi la vera "trama" che lega insieme queste "Fabulae Sparsae" che possono essere viste come un chiarissimo trattato di filosofia moderna; dove il rapporto uomo-natura sembra finalmente e giustamente lontano da quello di heideggeriana memoria che non ha mai saputo distinguere l'uno dall'altra relegando tutto all'Ente supremo indeterminato e astratto.
Non è astratto invece questo libro di Giuseppe Francesconi, la cui struttura narrativa fonde felicemente insieme immagini e segno scritto in una prosa semplice ma non banale, perché ricca di quella poesia che è memoria inconsapevole di affetti pieni.

 

 



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