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Pedagogia e Nuova Psichiatria

a cura di Giovanna Bruco

Pedagogista Relazionale

 

 Due parole su un film di Massimo Fagioli, "La psichiatria: esiste?"
replica del 9 febbraio 2003 al cinema Farnese di Roma


Un suono di immagini

Immagini discontinue tornano alla mente con incerto ordine di sequenze.
La prima è quella di un luogo toccato da un numeroso silenzio che sale per verdi pareti cipresso stagliate su uno sfondo giallo oro.
Appare e scompare l'uomo che ci lascia in pedana.
Accantonati l'uno dentro l'altro, rinfrancati da poche sedie chiuse, riposano gli sgabelli. Se ne stanno impettiti sospirati braccioli. Lucenti e sinuose panche di legno si confrontano con ripidi scalini.
Imperterrita aria velata prende respiro da generose porte.
Da una di queste rientra l' ospite che inizia a parlare di sé e di una storia straordinaria.
Dopo di lui uno spigliato conduttore pone domande a storici e psichiatri e intreccia liberi commenti non truffaldini.
La materia religiosa ci giunge con spontaneità di vedute, la storia con ricchezza di nessi, la psichiatria con significati che travalicano vecchie concezioni filosofiche.
Una calda voce di donna taglia l'aria di bianco e di blu, e cattura lo sguardo dello spettatore su una ristrutturazione ad anfiteatro del '92. Chi è mancato all'appello dell'analisi collettiva dall'89 si trova immerso in una panoramica che si annebbia per risvegliarsi in uno spazio nuovo che parla di riuscita e di libertà.
Toni pacati e precisi ritraggono uomini in penombra assorta e svelano una identità suadente che sa parlare alle donne. E queste porgono parole aizzate da una cinepresa che rifiuta bellezze artefatte. Luci crude e impietose sono una sfida alla virile dolcezza degli uomini.
A due prime ore intense di immagini armoniche ne seguono altre due tra i bemolle e i diesis di una composizione musicale inusuale e ribelle.
Un noto suono di chitarra annuncia il ritorno di un canto diamantino e spande manciate di esseri umani su verdi poltrone di un'Aula Magna non abituata a imprevedibili incontri.
La tristezza di una bella donna gocciola su una terrazza dall'affaccio sconosciuto e rimbalza sui colori accesi di una psichiatria che muove da un irrazionale dipinto sulla quotidianità di un tavolo tondo.
Rapisce lo spettatore la ripresa insistente di un volto. Il duello con l'alternarsi del luccichìo dentro occhi scuri ricorda profondi e precisi disegni.
Nell'intermittenza delle fiammelle ci perdiamo. Ascoltiamo il parlato senza capire.
La storia di una resistenza interna ci inghiotte nello sfondo non visivo di una immagine più ampia.
Nello sfumato che segue, bagliori di luce bionda e matura rivelano una chiara conoscenza della mente. Il regista l'ha ridisegnata restituendole lo scavo di una cesellatura che va a conferire bellezza di corallo.
Ci prende un momento di freddo al pensiero di altri volti coperti nell'identità.
Riprendiamo calore lungo superbi profili accavallati, guizzanti chiare parole certamente sconosciute agli etruschi, con i cui immobili rilievi sembra giocare lo stop della cinepresa. L'impercettibile movimento di un'ombra sul muro aspetta di riconoscersi nel proprio volto di carne.
Giovani uomini senza più invidia non temono biondi e lunghi capelli striati di rosso, né un broncio, né altri riccioli attenti.
Parlano senza eccessi o timori a riscatto dei padri, e offrono voci fuori campo a volti e corpi di donna.
Senza attrito su selci romani, medici attori si lasciano toccare da una regia da cortile.
Foglie lanceolate su seri usci ridenti sfiorano frasi di effervescente vertigine.
Parlano i gruppi tra loro su una scacchiera mai vista prima, senza regina e re, e sostano su uno spicchio di gironi concentrici separati da travertino bianco.
Conducono pensieri sui loro nuovi passi riscoprendo più estesi colori.
Come caleidoscopi in balìa di un canovaccio di nuova e sorprendente storia che non potrà più essere smentita mutano assemblaggi.
Luci caravaggesche mettono a fuoco un senso preciso di esistenza, e paiono muoversi sui corpi fermi, e si fermano su un corpo che si muove in un sospeso spazio alato.

Un cappotto bianco di buio
un attaccapanni
una scrivania
una pedana
uno scalino
gli stivali
la gonna
lo spacco
la donna
un libro
un casco biondo di capelli
un volto seminascosto
una voce

La voce scorre lungo le pagine di un libro mentre la carrellata va e torna su gruppi di psichiatri che parlano inchiodando all'ascolto.
Il suono di immagini ombrate si estingue in uno spezzone del film Rashomon di
Akira Kurosawa: un bianco e nero sgranato senza più musica che piange e grida.
Scappano i sottotitoli trascinandoci su tre versioni di una storia di donna e bambino che inseguiamo sulle figure di fondo.
Sulle orme non propriamente piccole di passi in cui ci riconosciamo torniamo nel plauso dell' analisi collettiva.
Era una replica del 9 febbraio 2003 al cinema Farnese di Roma.
Prima di entrare un venticello gelido ci sferzava tenendoci in fila all'aperto per far dispetto alle maleducate colonne di fondo destinate a custodire i posti dei ritardatari.
-Perché dicono che c'è crisi di film d'autore?
Ha detto qualcuno tra la folla.


Sulla poetica della psichiatria

Se appena usciti dal cinema, di primo acchito può venir voglia di tradurre in linguaggio scritto le immagini più persuasive tirate giù dalla tela, poi viene da riflettere.
Un po' indecisi se andare a rivedere il film subito (perché di film si tratta non essendo "La psichiatria: esiste?" lucido documento di luoghi, fatti, situazioni) o lasciare che il tempo ci richiami a ciò che di nuovo saprà suscitare in noi curiosi, ci facciamo alcune domande.
La prima è sul rapporto cinema scrittura, e poi su tale rapporto come rappresentativo di una psichiatria incessantemente collegata allo sviluppo di una letteratura che va dalle premesse di Massimo Fagioli ai suoi libri teorici, a quelle degli Incontri di ricerca psichiatrica e ai recenti articoli settimanali su Left.
Discorso difficile che fa brancolare il pensiero cosciente.
Che rapporto c'è, ci chiediamo, tra il suono di uno scritto che letto può divenire parlato e quindi udito, e la visione di filmati così forti da coprire le parole che li accompagnano senza spogliarle del significato che comunque percepiamo?
E che scarto c'è, tra uno scritto che sintonizza un'armonia di senso con quanto visto e udito e la registrazione percezione di immagini filmiche che lo ha stimolato?
Se il bambino che reca con sé la scienza della propria nascita, divenendo espressione della psichiatria che l'ha scoperta, non può dirci nulla del significante e del significato, dello strutturalismo e del formalismo caro ai linguisti; se si limita a cercare di legarli insieme succhiando latte, ascoltando suoni e percependo il freddo o il calore di un abbraccio e lasciando a noi adulti la comprensione e la spiegazione di come sono andate le cose, sicuramente egli offre alla nostra osservazione un movimento, una immagine che si impone come oggetto di indagine poetica.
Modulandosi su queste premesse "La psichiatria:esiste?" di M. Fagioli, che fa seguito a "Il cielo della luna" del'98 dove c'era una certa qual trama di una signora borghese che si innamora di un barbone, si svolge con totale libertà di composizione.
La precisione scottante del linguaggio articolato si innesta dentro giochi di musica e colore evocando il primo mondo di affetti senza parola del nostro primo anno di vita.
L'assenza di filo conduttore, che pavoneggia nel film la scoperta dell'origine pulsionale del pensiero umano, ruota nella sua invisibile corposità fino a farlo divenire predominante sul significato complesso e molteplice del parlato.
La storia che sempre gli uomini hanno fatto senza mai veramente raccontare, rivela la scoperta di una fisionomia del femminile nuova che solo la macchina da presa di una regìa volta al non definibile riesce a evidenziare, rendendo la logica ferrea dei discorsi ancella del non cosciente vitale.
Ci vien da dire che la trama del film è nel "violento" rapporto con il mondo interno dello spettatore; ed essendo la casualità di reazioni infinita, trama diviene la ricerca che lo avvolge.
Chi segue M. Fagioli come psichiatra accetta il rischio di raccogliere la propria dissociazione nel fondo intatto della rappresentazione per non aver saputo regredire ai primi mesi di vita senza linguaggio nella percezione sensazione dell'identità che lo ha pronunciato; per la difficoltà che incontra a legare insieme immagini e suoni da ricercare poi in quel luogo chiamato setting dell'analisi collettiva.
Perché tanto le immagini filmiche quanto i ritorni della poliedrica scrittura fagioliana che ne sostengono la cornice, entrano dentro chi ad esse si accosta a far riemergere qualcosa che è nostro da sempre e che si fa subito affetto e pensiero.
Impossibile separare il Fagioli regista dallo psichiatra e dallo scrittore. Volutamente ingenua in un percorso di lavoro che accoglie e rifiuta, la sua identità medica non si lascia superare dalla esplosione di un movimento culturale che non gli concede tregua. E l'ultima domanda che ci facciamo è questa: sta forse nell'incessante reagire di una indiscussa genialità che si offre come sostanza di ricerca e conoscenza, oltre la teorica formulazione, l'evidenza della scoperta della nascita umana?
E di conseguenza della nascita di una psichiatria come possibile arte trasformativa contrapposta a una morte nella prigione dell'arte qualora sia espressione di un non essere che annulla il rapporto interumano col diverso da sé se l'immagine, parziale e incompleta, non combacia con il vero?
Non sappiamo rispondere. Sappiamo solo sentire. E talvolta vedere.
Ancora forse neanche sentire e vedere insieme.
Mentre l'eterna natura riposa sui suoi cicli di sempre noi siamo frastornati, in balìa di qualcosa di assolutamente nuovo che ci sorprende.
Come le prime luci di un'alba impaziente quando non siamo ancora svegli.

Giovanna Bruco

 

webmaster Fabio D'Alfonso


 
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