Unificando.

Un approccio sinottico a Verga, Montessori, Croce e Sant’Agostino.

Come potrebbero coincidere i pensieri dei più grandi esponenti della cultura mondiale.

(Dott. Placido Fallica)

 

La morte di Cavour e la proclamazione del Regno d’Italia chiudevano il periodo storico del Risorgimento e ne aprivano un altro meno esaltante ma certamente difficile e decisivo; finito il tempo degli eroismi, bisognava costruire un nuovo stato, affrontare e risolvere una lunga serie di gravi problemi organizzativi, tra i quali quelli relativi alla scuola, ai tribunali, alle vie di comunicazione, ai pubblici uffici, alle tasse e così via. Le difficoltà maggiori derivavano dal fatto che l’Italia era stata unificata da gruppi di persone piuttosto ristretti (studenti, professionisti, ecc.) i quali per lo più non costituivano neppure l’intera classe borghese in quanto una parte di essa era rimasta pressoché indifferente ai contrasti e ai conflitti per l’unità. Pochissimi poi erano gli operai e i contadini che avevano personalmente partecipato alle lotte unitarie e possedevano una sia pur pallida idea del concetto di “nazione” e di “patria”. Ecco spiegato perché D’Azeglio affermasse che l'imperativo in quel momento fosse quello di fare gli Italiani, di dare loro uno spirito civico e una coscienza nazionale. L’Italia era ormai fatta, aveva raggiunto l’indipendenza e una parziale unità. Si trattava però piuttosto di una unità territoriale e non spirituale: espressione non già di tutto il popolo ma di una piccola parte di esso.
Con l’espressione di Massimo D’Azeglio si riconosceva anche il profondo distacco fra le diverse parti del paese: specie tra Nord e Sud la distanza era enorme.
In una situazione del genere, si fronteggiarono a lungo le due anime del Risorgimento Italiano: da una parte quella borghese, sempre pronta a scelte fatte da un ristretto numero di persone culturalmente ed economicamente predominanti, dall'altra quella democratica e popolare, vivacemente espressa da Mazzini e dai suoi seguaci. Rimase, alla fine, vincitrice la tendenza borghese e venne fuori, sul modello della Francia napoleonica, uno stato accentrato (piemontesizzazione) nel quale una schiera di funzionari, per lo più piemontesi, sarebbero stati distribuiti in una rete destinata a due scopi essenziali:
· controllare la popolazione, nel senso di garantire l’ordine pubblico e garantire ogni manifestazione di assenso e ogni volontà di distacco dal nuovo e ancor fragile organismo statale;
· trasmettere la volontà dello stato dall’alto dei suoi vertici fino all’ultimo degli abitanti.
Il Regno d’Italia venne così suddiviso in province, il cui prefetto veniva nominato dal governo. Le province a loro volta furono suddivise in comuni con a capo un sindaco, anch’egli nominato dal governo[1].
Con l’avvento del 1861, notiamo un’arretratezza economica: l’unificazione del mercato nazionale, una delle condizioni essenziali per lo sviluppo capitalistico, era compiuta. Ma, come si legge in un rapporto sull'economia italiana redatto per il Foreign Office inglese: “Al momento dell'unificazione, le industrie manifatturiere erano piccine e di importanza locale. Gli stabilimenti industriali si annidavano nelle vallate, dove si trovavano la forza motrice pronta e non costosa nei torrenti e nei fiumi che la traversavano. La manodopera era composta principalmente da contadini che spesso possedevano qualcosa di loro, i salari troppo bassi, gli scioperi sconosciuti”.
Il processo di industrializzazione procedeva a rilento per la limitata disponibilità di capitali offerti dalle banche ma soprattutto per la quasi totale assenza di ferro e carbone nel sottosuolo. A peggiorare la situazione contribuivano la mancanza di manodopera specializzata e le difficoltà per importare dall’estero macchine che costavano molto, mentre il poco denaro disponibile serviva per l’acquisto dei cereali.
L’Italia era un paese prevalentemente agricolo ma la grande proprietà terriera, specialmente nel sud, era largamente dominante e, nonostante le promesse, una seria riforma agraria non era nemmeno stata abbozzata.
La situazione economica, variava a seconda delle differenti aree geografiche.
· Nell’Italia settentrionale cominciava a diffondersi un nuovo ceto di imprenditori agricoli, molto spesso fittavoli, disponibile a investire il proprio capitale nel miglioramento e nella gestione del fondo in particolare nell’allevamento, nella risicoltura, nelle piantagioni di gelsi per la seta.
· La situazione nell’Italia centrale, in particolare nel territorio dell’ex Stato della Chiesa, era più arretrata. La grande estensione delle terre ecclesiastiche, la diffusione della mezzadria e del piccolo affitto, la mancanza di innovazione determinavano una relativa arretratezza.
· Nel Sud Italia, la prevalenza del latifondo determinò un pesante stato di degradazione e di immobilismo. L’incuria dei latifondisti, l’impiego di sistemi arcaici, la mancanza d’investimenti, la miseria e l’oppressione causavano un tasso di produttività tra i più bassi.
Anche se gran parte della popolazione era urbanizzata, eccezion fatta per pochissime città come Milano o Genova, i centri urbani erano del tutto parassitari nel senso che consumavano prodotti delle campagne senza fornire in cambio prodotti industriali. Inoltre l’isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione da luogo a luogo, il permanere di forme di proprietà e di gestione semifeudali e la scarsità degli investimenti avevano fatto sì che la maggior parte delle attività agricole fosse destinata all'autoconsumo.
Anche il mancato sviluppo ferroviario giocava un ruolo pesantemente negativo; di fronte ai 38.000 chilometri di ferrovia dei paesi più progrediti d’Europa, la penisola italiana poteva contare solo su 2.000 chilometri di ferrovie quasi tutte al Nord e questo non forniva certo la formazione di quel mercato a livello nazionale che l'unificazione avrebbe dovuto aver dato vita.
Altro problema fondamentale, era quello relativo alla pubblica istruzione. Bisognava organizzare scuole e portare l’insegnamento elementare fra una popolazione che per il 78% era ancora costituita da analfabeti. Tale percentuale si elevava addirittura al 90% in certe regioni del Meridione e della Sicilia, ove i sovrani borbonici avevano deliberatamente lasciato le masse cittadine e rurali nell'ignoranza e nella superstizione, convinti come erano che “solo se abbandonata in quelle condizioni la plebe obbedisce e non si mette grilli nel capo”.
Fin dal 1860 venne estesa a tutti i territori unificati la legge Casati: l’istruzione elementare, impartita gratuitamente per quattro anni, era distinta in due gradi, superiore ed inferiore, entrambi biennali, di cui soltanto il primo era obbligatorio. Erano gli asili che dovevano impartire l’istruzione elementare, ma allo stesso tempo erano considerati mezzi per la diffusione dei valori civili e patriottici.
La scuola costituì un rimedio importante visto che l’italiano era sì la lingua ufficiale dell’Italia unita ma pochi la conoscevano, pochissimi la parlavano; ovunque prevalevano i dialetti. In dialetto poi non parlavano solo le classi popolari ma anche i ceti colti. Gli abitanti del Piemonte non capivano i Siciliani; i Veneti non riuscivano a comprendersi con i Napoletani, i Liguri con i Calabresi.
La legge Casati, fu una grande riforma seppur portasse con sé delle incongruenze poiché, anche se resa obbligatoria per legge la scuola accoglieva sempre una minoranza nelle aule scolastiche. Inoltre, fuori dalle aule i bambini vivevano in ambienti dove dominava il dialetto. Gli stessi maestri, per farsi capire, furono costretti per decenni ad usare nella scuola il dialetto o un misto di dialetto e di lingua letteraria.
Dal punto di vista dell'istruzione la legge Casati aveva alcuni gravi limiti:
· per quanto riguarda i maestri, vi era uno scarso controllo sulla loro formazione e qualificazione; le nomine erano decise in modo insindacabile dalle autorità comunali, soli requisiti necessari erano una “patente” di abilità e un certificato di moralità rilasciati dal comune stesso; le retribuzioni erano generalmente molto basse e venivano decise in modo arbitrario.
· L’istruzione obbligatoria, limitata alla frequenza per soli due anni, non era assolutamente sufficiente a garantire un’istruzione di base.
· Le classi erano di dimensioni spropositate: la legge fissava un tetto massimo di settanta alunni per classe, che non garantiva nessun effettivo rapporto allievi docenti.
· Numerosi erano ancora nei primi decenni del regno i comuni senza scuole o con scuole inadeguate, sia per mancanza di finanziamenti (per lungo tempo lo stato si sarebbe dimostrato riluttante ad assumersi grossi oneri finanziari nel settore), sia perché la norma relativa ai 50 bambini consentiva a molti enti locali di non costruire scuole e di non assumere maestri. Tutto ciò significava che i bambini dovevano recarsi a scuola a piedi nelle scuole vicine per rispettare l’obbligo scolastico.
Un primo importante progresso fu favorito dall’industrializzazione e dallo sviluppo della città.
L’unificazione significò forti tasse in tutto il paese (anche per pagare i debiti contratti durante la politica di guerra per l’unificazione d’Italia). Si trattò di imposte indirette, che ciò colpiscono i consumi e non i redditi, perché il Parlamento che le approvò e i governi che le decisero erano composti di rappresentati delle classi possidenti. Inoltre la situazione critica in cui l'economia italiana si trovava nel momento del suo inserimento nel mercato internazionale poneva l’esigenza di scelte drastiche: liberismo o protezionismo, sostegno all'industria o privilegiamento dell'agricoltura, sviluppo equilibrato Nord-Sud o primato delle aree più dinamiche, fiscalismo rigido o astensionismo statale in campo economico, sostegno alla domanda di mercato o prevalenza del risparmio e del’investimento.
Miseria e malattie. Anche dal punto di vista sanitario le cose lasciavano molto a desiderare. La miseria era causa di malattie particolari come la pellagra (dovuta a scarsezza di vitamine per un’alimentazione insufficiente a base di granoturco) e la malaria ( dovuta invece alla zanzara, diffusissima nelle regioni paludose della Maremma, delle Paludi Pontine, del Polesine, della Sardegna), o di malattie infettive quali il colera, che di tanto in tanto compariva e faceva strage fra la popolazione, e il tifo, diffuso per la scarsa igiene e per la mancanza di acquedotti specie nelle terre meridionali. Altrettanto grave si presentava il problema delle abitazione, spesso del tutto malsane e insufficienti alla crescente popolazione: una parte di questa era costretta a vivere in grotte, in capanne, in cantine o, nel migliore dei casi, entro misere stanze, talora addirittura prive di finestre.
Altro problema da fronteggiare era il brigantaggio meridionale. I primi anni di vita dello stato unitario furono per il Mezzogiorno continentale anni di violente, disperate insurrezioni contadine e di una lunga e sanguinosa guerra per bande nelle campagne. Le classi dirigenti definirono subito tutto ciò, sprezzantemente, “brigantaggio” e insistettero sullo stimolo e sul sostegno che ai “briganti” venivano dalla corte pontificia e da quella borbonica in esilio.
Guerriglie e rivolte assunsero proporzioni tali da mettere a dura prova il nuovo stato.
Contro i “briganti” il governo scatenò una repressione feroce. Ai delitti brutali commessi nel corso delle rivolte rispose con rappresaglie atroci, alla guerriglia con esecuzioni sommarie. Le garanzie statutarie furono di fatto sospese proprio su quella parte della nazione alla quale erano state da poco estese e per le popolazioni meridionali lo Stato significò solo tribunali militari, leggi speciali, prigione, stato di assedio permanente.
Fu una “guerra” spietata - la prima dell'esercito italiano, e fu una guerra civile - fatta, più che di battaglie, di agguati e selvaggi combattimenti corpo a corpo, di stragi, di reati comuni e di vandalismi connessi da ambedue le parti. Infuriò tra l'autunno del 1860 e la fine del 1864, ma continuò, se pur in forme meno violente, fino agli inizi del 1870. Impegnò contro migliaia di “briganti” organizzati in 400 bande, due quinti dell’esercito italiano, ingenti forze di polizia, carabinieri, guardie nazionali, corpi di volontari. La guerra inoltre, devastò l’economia di intere province, provocando la distruzione di decine di paesi e la morte di migliaia di uomini.
La realtà sofferta della gente, fu meticolosamente affrontata da Giovanni Verga , al quale piacque analizzare quel mondo di gente semplice, schiacciata dalla dura legge della sopravvivenza. Nell’attività letteraria del Verga si distinguono tre periodi; il periodo romantico patriottico, il periodo romantico passionale e il periodo verista. Al primo periodo appartengono i romanzi giovanili Amore e patria (incompiuto), I carbonari della montagna, Sulle lagune, tutti ispirati alla storia del Risorgimento e a motivi patriottici e amorosi. Al secondo periodo romantico passionale appartengono i romanzi scritti durante il soggiorno fiorentino e milanese quando il Verga viene a contatto con la cultura positivistica e con gli ambienti della Scapigliatura. Sono romanzi in cui si narrano torbide storie d’amore e di morte in ambienti aristocratici e borghesi.
Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840, ed era discendente del ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, appartenente alla nobiltà antica di Vizzini, un grosso borgo che si trova a metà strada sulla via che porta da Catania a Ragusa, e che ha cercato di rivendicare i natali dello scrittore.
Lasciati gli studi di legge per entrare, nel 1861, nella Guardia Nazionale, manifesta fin da giovane un grande interesse per la letteratura, pubblicando a soli ventidue anni il romanzo storico “I carbonari della montagna”. Già in quest’opera è visibile l'ardore patriottico dell'autore, e il suo impegno politico per l'annessione della Sicilia al Regno d’Italia; questi si fanno più evidenti con il secondo romanzo, “Sulle lagune” (1863) e con la fondazione del giornale “Roma degli Italiani”. Nel 1865 si trasferisce a Firenze, pubblicando i romanzi “Una peccatrice” (1866) e “Storia di una capinera”[2] (1871), quest’ultimo di grande successo.
In una lettera del 1878 espone il suo progetto di un ciclo di romanzi, dal titolo “I vinti”. Nel 1880 esce la raccolta di novelle “Vita dei campi”; l’anno successivo il primo romanzo del ciclo dei vinti e il suo capolavoro, “I Malavoglia”[3]; nel 1882 il romanzo “Il marito di Elena”; nel 1883 le raccolte di novelle “Per le vie” e “Novelle rusticane”. Nel 1884 ha la soddisfazione di veder rappresentata in teatro una sua novella contenuta in “Vita dei campi”, la “Cavalleria rusticana”, che Pietro Mascagni tramuterà in opera lirica nel 1890. Nel 1888 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, il “Mastro don Gesualdo”[4]. Raggiunta l’agiatezza economica e la tranquillità sentimentale, dopo alcune relazioni anche adulterine, nel 1894 si ritira a Catania e pubblica ancora una raccolta di novelle, “Don Candeloro”; nel 1903 esce il dramma “Dal tuo al mio”, nel 1911 inizia il terzo romanzo del ciclo, “La duchessa di Leyra”, che però rimane fermo al primo capitolo. Nominato senatore nel 1920, muore nel 1922.
Il Verga ebbe una concezione dolorosa e tragica della vita. Pensava che tutti gli uomini fossero sottoposti a un destino impietoso e crudele che li condanna non solo all’infelicità e al dolore, ma ad una condizione di immobilismo nell’ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, ma va incontro a sofferenze maggiori, come succede a’Ntoni Malavoglia e a Mastro Don Gesualdo. Con questa visione un po’ pietrificata della società il Verga rinnova il mito del fato ( cioè la credenza in una potenza oscura e misteriosa che regola imperscrutabilmente le vicende degli uomini), ma senza accompagnarlo con il sentimento della ribellione in quanto non crede nella possibilità di un qualsiasi cambiamento o riscatto. Per il Verga non rimane che la rassegnazione eroica e dignitosa al proprio destino. Questa concezione fatalistica e immobile dell’uomo sembra contraddire la fede nel progresso propria delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche. In verità, Verga non nega il progresso, ma lo riduce alle sole forme esteriori ed appariscenti; in ogni caso, è un progresso che comporta pene infinite. La visione verghiana del mondo sarebbe la più squallida e desolata di tutta la letteratura italiana se non fosse confortata da tre elementi positivi. Il primo è quel sentimento della grandezza e dell’eroismo che porta il Verga ad assumere verso i "vinti" un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione: pietà per le miseria e le sventure che li travagliano, ammirazione per la loro rassegnazione. Secondo elemento positivo è la fede in alcuni valori che sfuggono alla dure leggi del destino e della società: la religione, la famiglia, la casa, la dedizione al lavoro, lo spirito del sacrificio e l’amore nutrito di sentimenti profondi ma fatto di silenzi, sguardi furtivi e di pudore. Il terzo elemento è la saggezza che ci viene dalla coscienza dei nostri limiti e ci porta a sopportare le delusioni.
Verga, a differenza di altri scrittori, non espose le proprie idee sulla letteratura e sull’arte in opere compiute; preferisce invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto lavoro di scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello dell’impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende innanzi tutto come “schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa”. Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato “raccolto per viottoli dei campi, press’a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare”, sacrificando “l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale”; l’obiettivo è quello di giungere a un romanzo in cui l’affinità di ogni sua parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà un mistero, la mano dell’artista rimarrà invisibile e “l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé”. Verga vuole rappresentare la lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi a quelli più elevati e questo sia per la sua esigenza personale di rimeditare la propria esperienza umana e artistica e anche per estendere l’indagine che si era in genere limitata ai ceti popolari, alle classi più alte. Le tecniche narrative riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche espressive, la sintassi e il lessico. La novità di Verga sta nella distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del narratore regredito. L’autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la sua presenza. Verga cerca di realizzare l’eclissi dell’autore delegando la funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito nell’ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei personaggi rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare l’idea dell’autore. Il narratore assume così, un aspetto camaleontico evidente soprattutto nei Malavoglia. Verga vuole essere impersonale fino in fondo e, oltre a rinunciare alla sua mentalità ai suoi ideali e principi rinuncia anche alla sua lingua e cerca di adottare un tipo di espressione più vicina possibile agli umili rappresentati; l’autore cerca, infatti, di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che appartengono alla cultura locale. L’autore utilizza anche la tecnica del discorso indiretto libero tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di identificarsi col pensiero della gente del posto. E’ utilizzato anche l’artificio dello straniamento realizzato attraverso un modo di raccontare i fatti secondo cui quello che è normale appare strano e viceversa.
Sul finire dell’Ottocento, assistiamo all’emergere della corrente verista, vale a dire un movimento letterario e artistico che propugnava l’estrema aderenza alla verità.
Il verismo, sviluppatosi in Italia fra il 1875 e il 1890, pur richiamandosi alla tendenza realistica del romanticismo che fa capo a Manzoni e prendendo forma nell’ambiente fervido di stimoli culturali della scapigliatura lombarda, si ricollega direttamente alle teorie positivistiche e al grande modello del naturalismo francese. Mentre gli scrittori realisti francesi avevano dietro di sé una società matura e consapevole e potevano quindi fare delle loro opere uno strumento di azione rinnovatrice, i nostri scrittori veristi si trovavano dinanzi a masse culturalmente sprovvedute e incapaci di recepire il messaggio sociale a esse rivolto. Di qui la condizione di isolamento dello scrittore verista che assume un atteggiamento più contemplativo che attivo e volge la sua attenzione alle sofferenze delle plebi contadine, ma è incapace di sottrarsi al paternalismo e di additare concrete possibilità di riscatto. Accanto a questa fondamentale differenza tra naturalismo francese e verismo italiano (orientato il primo verso le classi sociali produttive dal proletariato all’alta borghesia, volto il secondo a descrivere il mondo agricolo-provinciale e le plebi contadine) è da rilevare il carattere moderato, meno rigido, con cui fu applicata la teoria zoliana del “romanzo sperimentale” e lo stesso canone dell’impersonalità. Teorizzato da Luigi Capuana, il verismo ebbe in Sicilia il suo massimo rappresentante in Giovanni Verga, accanto al quale è da ricordare il concittadino e amico De Roberto.
Dopo aver nutrito la formazione di Luigi Pirandello, il verismo ha trovato rinnovata fortuna, nel secondo dopoguerra, in coincidenza con la fioritura del neorealismo.
Il 1870, di cui sopra abbiamo parlato, segna la nascita di una grande pedagogista italiana: Maria Montessori, nata a Chiaravalle, un paese nella provincia Ancona, da Alessandro Montessori, ufficiale, e Renilde Stoppani. I suoi genitori erano di buona cultura, ma non particolarmente benestanti. Maria studió presso l’Università di Roma, dove nel 1986 le fu affidato il reparto psichiatrico dei bambini subnormali, che normalmente venivano tenuti chiusi in delle stanze, senza attenzione o stimolazioni. Con la Montessori le regole cambiarono: si doveva parlare a questi bambini con rispetto, organizzare per loro delle attività didattiche, fra cui quella di prendersi cura di se stessi ed altre nozioni di cultura generale.
Attraverso l’osservazione di questi bambini subnormali la Montessori fu in grado di valutare cosa funzionasse meglio con loro e quando; vide che i livelli di sviluppo erano diversi per ogni bambino e che l’apprendimento migliore avveniva quando il bambino era pronto per apprendere. Per questo anche l’insegnante, con il suo metodo, deve essere pronto a sua volta, sempre attento ai segnali che riceve, per presentare nuovi materiali didattici.
Nel 1907, Maria Montessori fondò a Roma la “Casa dei Bambini” ed iniziò l’attività educativa, destinata non più ai bambini ritardati, ma ai figli delle famiglie operaie del quartiere di san Lorenzo a Roma. Nel 1909, all’età di 39 anni, pubblicò il suo primo libro: “Il metodo della pedagogia scientifica” applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini; da quel momento cominciò a tenere corsi che ebbero un grande successo internazionale, cui seguirono altri libri: “L’autoeducazione nelle scuole elementari”, del 1916, “I bambini viventi nella Chiesa”, del 1922, “La vita in Cristo”, del 1931 e “La santa Messa spiegata ai bambini”, del 1932.
Nel 1933, in pieno fascismo, Maria si dimise dall’Opera nazionale e se ne andò prima in Spagna, poi in Inghilterra e infine in Olanda, dove già vi erano oltre duecento scuole montessoriane, sia cattoliche che "laiche"; qui si stabilì definitivamente l'Associazione Montessori Internazionale (Ami), con la direzione effettiva del figlio e l’appoggio di personalità come Freud, Piaget, Marconi, Tagore, ecc. Invitata dal teosofo George Sidney Arundale in India alla vigilia della seconda guerra mondiale, vi passò alcuni anni durante i quali collaborò con le Missionarie della Scuola e con la loro fondatrice, madre Luigia Tincani.
Nel 1946 tornò in Europa, dove ebbe riconoscimenti prestigiosi; fu ricevuta a Montecitorio, dall’Assemblea Costituente nel 1947. Nel 1950, a 80 anni, ricevette il Premio Nobel della Pace e due anni dopo morì in Olanda, dove riposano ancora le sue spoglie, nel cimitero di Noordwijk. L’idea centrale della pedagogia della Montessori è quella di riconoscere al bambino energie creative e disposizioni morali che l’adulto ha ormai compresso dentro di sé, rendendole inattive; di qui la tendenza dell’adulto a reprimere il bambino e a costringerlo fin dalla tenera età a ritmi di vita innaturali.
Caratteristica della scuola montessoriana è un ambiente fatto su misura del bambino, anche nei particolari dell’arredamento, e l’impiego di adeguati materiali di sviluppo. È più importante educare prima i sensi e poi l’intelletto del bambino. Maria Montessori sviluppò del materiale con cui i bambini potevano imparare a scrivere e a leggere solo con l’aiuto dei sensi.
Il bambino deve avere la libertà di scegliere che cosa vuole fare. Condizione necessaria è un ambiente preparato per lui, giochi sufficienti ed adulti che lo aiutano. Alla Montessori sono però state mosse delle accuse sul piano ideologico per la contrapposizione troppo rigida del “fanciullo buono” all’adulto sclerotizzato e corrotto; sul piano didattico è stato messo in discussione il carattere artificioso dei materiali e l’uso troppo rigido del loro impiego. Ciò nonostante il metodo montessoriano è tuttora largamente molto diffuso, in particolare all’estero.
Secondo Maria Montessori, il principio fondamentale deve essere la libertà dell’allievo, poiché solo la libertà consente uno sviluppo di manifestazioni spontanee, già presenti nella natura del bambino. Il bambino deve capire la differenza fra bene e male e compito dell’insegnante è che il bambino non confonda essere buono con l’immobilità e il male con l’attività. L’intento deve essere quello di creare una disciplina per l’attività, il lavoro, il bene, non per l’immobilità, la passività, l’obbedienza. La disciplina deve emergere a partire dalla libertà; noi non consideriamo disciplinato un individuo reso silenzioso come un muto ed immobile come un paralitico: se è così egli è un individuo annichilito, non disciplinato. “Noi crediamo che un individuo disciplinato è padrone di se stesso e capace di regolarsi da solo quando sarà necessario seguire delle regole di vita. Non possiamo conoscere le conseguenze che avrà l’aver soffocato l’azione al momento in cui il bambino sta appena cominciando ad essere attivo: forse gli soffochiamo la vita stessa”. L’umanità si mostra in tutto il suo splendore durante l’età infantile come il sole si mostra all’alba ed il fiore nel momento in cui dispiega i suoi petali: e noi dobbiamo rispettare religiosamente, con riverenza, queste prime indicazioni di personalità. Mediante la sua opera innovatrice, Maria Montessori, cominciò a sensibilizzare la massa nell’attenzionare i problemi inerenti l’utilizzo della moralità verso il soggetto. Già Benedetto Croce[5] (1866-1952) concentrò la sua attenzione sul concetto di morale.
Vediamo di evidenziare i punti salienti del celeberrimo filosofo. Benedetto Croce risolve tutta la realtà nel Pensiero ossia nello Spirito: a sua volta la Filosofia è lo Spirito che riflette su se stesso diventando autocoscienza.
Lo Spirito possiede per Croce una duplice sfera di attività, l’attività teoretica e l’attività pratica, ciascuna delle quali si può volgere al particolare o all’universale.
L’attività teoretica o conoscitiva volta ad un oggetto particolare si presenta come intuizione[6], la cui espressione più alta è l’Arte; volta invece alle verità universali dà luogo ai concetti della Filosofia. L’attività pratica se mira a un utile particolare si risolve in Economia; se bada al bene universale diventa Morale. Come si vede l’attività dello Spirito si presenta distinta in quattro momenti: intuizione (e quindi arte), filosofia (espressa nei concetti), economia (basata sull’utile) e morale (volta al bene). Sia nella sfera teoretica, però, sia in quella pratica il momento particolare fornisce la materia al momento universale: in altre parole la filosofia e la morale non hanno un contenuto proprio, ma si valgono rispettivamente del materiale dell’intuizione e della economia. In un primo tempo, nell’”Estetica” del 1902, l’Arte appare come intuizione e cioè conoscenza del particolare: il che porta a tutta una serie di conclusioni. Anzitutto, l’intuizione estetica, appunto perché conoscenza ossia teoria, non può consistere in un sentimento o gusto o piacere estetico, né per contro può essere soggetta a giudizio morale o didattico (in altre parole l’opera d’arte di per sé non è né buona né cattiva, né educativa né dannosa); se così non fosse, l’arte consisterebbe in qualche cosa di pratico e non di teoretico. Pur essendo poi teoria, l’intuizione estetica, appunto perché intuizione non è conoscenza dell’universale ossia non è concetto: conseguentemente non può né rispecchiare la realtà né travisarla, e quindi non può essere accusata di errore. Infine l’intuizione estetica non è neppure sensazione, in quanto l’intuizione sensibile è puramente passiva, mentre l’intuizione estetica è espressione fantastica. Il secondo momento della conoscenza (e cioè la cognizione dell’universale) è dato dalla filosofia, nella quale lo Spirito conosce mediante l’intelletto e quindi mediante i concetti: come però già abbiamo notato questo secondo momento necessita del primo, perché la conoscenza filosofica inquadra nei concetti i singoli fatti e questi a loro volta, sono colti con l’intuizione. Il concetto filosofico comprende dunque i fatti particolari, di cui è intessuta la storia, in un organico ordinamento universale: dal che si conclude che il concetto è ad un tempo universale e concreto, e che la filosofia in quanto si avvale dei concetti per inquadrare i singoli fatti storici si identifica con la storiografia. Ma a loro volta filosofia e storiografia, così identificate, si identificano con l storia stessa intesa come svolgimento dello Spirito: infatti la filosofia e quindi la storiografia sono manifestazioni concrete di questo Spirito. Altro concetto importante affrontato da Croce, è quello della morale. Come l’intuizione fornisce il materiale alla logica, così l’economia[7] offre il contenuto alla morale e in questo senso è premorale. Se l’azione è volta ad un fine individuale appartiene all’economia, ma se appare diretta ad un fine universale allora rientra nell’etica: così per esempio, se l’infermiere mira esclusivamente all’utile derivantegli dallo stipendio, si può dire di lui che agisce per un fine individuale, cioè economico; ma se invece agisce per amore dell’umanità, allora la sua azione diventa morale. Come si vede l’uomo nell’azione morale non bada a soddisfare l’individualità che è in lui, ma mira ad appagare quella umanità che lo affratella agli altri uomini in un vincolo universale; rimane definito però che come l’intuizione è autonoma rispetto alla logica ( e cioè può esservi intuizione senza concetto), così l’economia è autonoma rispetto alla morale (l’azione può essere economica e non morale): in altre parole i vari momenti dello Spirito (intuizione, logica, economia, filosofia) sono autonomi e cioè distinti tra di loro. I vari distinti (arte, logica, economia e morale) sono autonomi fra di loro: tuttavia si fondono nell’unità dello spirito mediante la circolarità dello Spirito. Per quanto riguarda invece la dialettica degli opposti, bisogna dire che essa non si attua fra un distinto e l’altro, ma nell’ambito dei singoli distinti: bello e brutto nell’arte, vero e falso nella logica, utile e dannoso nell’economia, bene e male nella morale.
Croce credeva nel libero arbitrio[8] e in uno stile di vita fondato sull'apprezzamento del bello; concepiva la storia come filosofia in movimento, un'interpretazione del passato in termini del presente. Poiché secondo lui gli storici espongono l'essenziale dell'umano e del naturale in relazione a cause ed eventi, egli sostenne che la storia dovesse essere dominio dei filosofi. Questa riduzione della filosofia a storiografia è di particolare interesse, perché colloca la stessa filosofia al centro dei problemi concreti che l’uomo ha proposto e propone nel corso dell’evoluzione storica.
Come abbiamo evidenziato precedentemente (si consulti la sezione dedicata a Maria Montessori, o quella dedicata a Giovanni Verga), l’attenzione verso il soggetto umano diviene via via più significativa. Sant’Agostino (Tagaste, Numidia 354 - Ippona 430),[9] il quale similmente a Croce credeva nel libero arbitrio, sembra essere l’esempio lampante di cristianità e di attenzione verso le debolezze umane. All’età di diciannove anni, in seguito alla lettura dell’ “Ortensio” di Cicerone, Agostino riconobbe in sé la vocazione alla filosofia e, dopo breve tempo, aderì al manicheismo[10], una dottrina dualista di origine persiana che era diffusa soprattutto nell’impero romano d’Occidente. Fondato sul chiaro principio del conflitto fra male e bene, il manicheismo sembrò inizialmente al giovane Agostino la migliore dottrina cui aderire. La contraddittorietà di talune (in particolare l'incoerenza tra regole morali e l'effettiva condotta dei membri della setta) lo spinse ben presto a prendere le distanze dai manichei. Intorno al 383 lasciò Cartagine per Roma, ma l’anno successivo si recò a Milano, come maestro di retorica. Le letture di testi filosofici neoplatonici, particolarmente delle Enneadi di Plotino, e l’incontro con il vescovo della città, sant’Ambrogio, contribuirono alla sua conversione al cristianesimo: nel 387 Agostino ricevette il battesimo dalle mani di Ambrogio, dal quale aveva appreso il valore dell’esegesi allegorica delle Scritture. Egli intuì allora la superiorità metafisica del cristianesimo, che risolveva il problema del male senza elevarlo al ruolo di principio sostanziale, come avevano fatto i manichei, ma definendolo come privazione o assenza d'essere. La filosofia, conoscenza dell'essere, avrebbe dunque dovuto illustrare razionalmente ciò che per la fede è certezza assoluta: solo il percorso svolto nell’interiorità dell’anima verso il riconoscimento del superiore livello della fede corrisponde al cammino di salvezza che il cristianesimo rappresenta. Parliamo adesso della famosa conversione agostiniana.
Agostino, nel 391 venne ordinato sacerdote e nel 395 vescovo di Ippona, in un periodo di disordini politici e conflitti teologici: mentre i barbari premevano ai confini dell’impero, la Chiesa si vedeva minacciata da scismi ed eresie. Agostino si dedicò totalmente alla lotta contro le dottrine eretiche dei donatisti e dei pelagiani: i primi facevano dipendere la validità dei sacramenti dal rigore morale di chi li amministra, mentre i secondi negavano la dottrina del peccato originale. Nel corso di quest’ultimo conflitto, che fu lungo e aspro, Agostino elaborò le sue dottrine sul peccato originale, la grazia divina e la predestinazione. Cercando una mediazione fra gli estremi del pelagianesimo e del manicheismo, Agostino affermò la presenza del peccato nell’uomo e la necessità dell’intervento della grazia divina per conseguire la salvezza, al fine di confutare la dottrina pelagiana; contro i manichei, egli difese invece la coesistenza di libero arbitrio e Grazia. Secoli dopo, gli aspetti istituzionali ed ecclesiastici delle dottrine agostiniane incontrarono il favore della Chiesa cattolica, mentre quelli più puramente teologici vennero a costituire il nucleo fondamentale tanto della teologia cattolica quanto di quella protestante.
L'importanza di Agostino è equiparabile a quella di san Paolo. La sua opera più nota, le Confessioni (400 ca.)[11], è un'autobiografia dove si ritrova il cammino intellettuale che porta l'uomo al progressivo riconoscimento, nella sua interiorità, della Verità e del fatto che questa Verità è Dio di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella Città di Dio (413-426), una vera e propria apologia del cristianesimo, Agostino elaborò una concezione teologica della storia. Dieci dei ventidue libri dell'opera sono dedicati alla polemica contro il panteismo,[12] mentre i rimanenti dodici descrivono l’origine, la crescita e il destino della Chiesa, considerata peraltro come l'erede degli aspetti più nobili della cultura pagana: Dio determina le vicende storiche e alla città terrena, mossa da stolti appetiti, si contrappone la città di Dio, comunità dei giusti. Fra il 426 e il 427 Agostino compose le Ritrattazioni, in cui giudicò retrospettivamente tutte le proprie opere, correggendone gli errori. Fra gli altri suoi scritti vi sono le Epistole, che abbracciano il periodo compreso fra il 386 e il 429; i trattati Il libero arbitrio (389-395), La dottrina cristiana (397-426), Del battesimo contro i donatisti (400-401), Sulla trinità (399-419), Sulla natura e sulla grazia contro Pelagio (415), e studi su vari libri della Bibbia, in particolare sulla Genesi.


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[1] Solo a partire dalla fine dell'800 esso sarebbe stato eletto liberamente dai consiglieri comunali e quindi, in base all'ultima riforma della legge elettorale, direttamente dagli elettori del comune). I prefetti diventarono in pratica gli arbitri della vita locale e influenzarono le elezioni appoggiando - specialmente nel sud - i candidati favorevoli al governo. Inoltre al prefetto spettava la tutela dell'ordine pubblico, la disponibilità delle forze di sicurezza, la direzione degli organismi sanitari provinciali e, più in generale, il potere decisionale in tutti i settori cruciali della vita civile, dalla scuola ai lavori pubblici. La centralizzazione significò insomma che il governo, tramite il ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici, aveva l'ultima parola in ogni minima questione locale. Una strada o una scuola non potevano essere costruite senza il suo consenso.

[2] Pubblicato nel ’71 dove Verga svolge un tema che in passato aveva ispirato vari autori tra i quali Manzoni. La fanciulla Maria, costretta dalla matrigna a farsi novizia, torna per breve tempo in famiglia conoscendo la libertà e innamorandosi di Nino, il fidanzato della sorellastra. Il ritorno al convento con la definitiva assunzione dei voti scatena in lei una follia mortale. Il romanzo ha il carattere di una confessione intima, orientata verso la resa dei sentimenti e di nascoste passioni ma vi è anche la documentazione dell’inflessibile autorità familiare e del rigido cerimoniale dei conventi.

[3] Le vicende si svolgono nei primi anni dell’unità d’Italia, tra il 1863 ed il 1876 ad Acitrezza. Prendono le mosse da una piccola speculazione commerciale che padron ‘Ntoni intraprende per migliorare le condizioni della famiglia, aggravatasi quando il nipote ‘Ntoni va a fare il soldato e viene meno il suo lavoro. Padron ‘Ntoni acquista a credito dallo zio Crocifisso una partita di lupini, che Bastianazzo imbarca sulla "Provvidenza" per andare a venderli. Durante il tragitto una tempesta provoca la perdita del carico di lupini e la morte di Bastianazzo. A questa seguono altre disgrazie: la morte di Luca nella battaglia di Lissa, la morte di Maruzza per il colera, la perdita della casa del Nespolo per l’insolvenza del debito e degli interessi, il traviamento di ‘Ntoni, che, tornato cambiato dal servizio militare, non si adatta alla vita di stenti, si unisce a una compagnia di contrabbandieri e ferisce con una coltellata il brigadiere don Michele, che lo ha sorpreso in flagrante con gli altri. Durante il processo l'avvocato imposta la difesa sostenendo l'attenuante dell'amore per 'Ntoni che sapeva di una relazione della sorella Lia con Don Michele. ‘Ntoni è condannato a cinque anni di carcere e Lia, considerandosi colpevole verso il fratello scappa di casa e si perderà. Il disonore getta nella costernazione i Malavoglia: padron ‘Ntoni, affranto, si ammala e muore all’ospedale. Intanto Alessi, che ha sposato la Nunziata, con la sua laboriosità riscatta la casa del Nespolo, dove torna ad abitare insieme alla sorella Mena la quale rifiuta di sposare compar Alfio, perché si sente anche lei disonorata per la perdizione di Lia. Nei Malavoglia si scontrano due concezioni della vita: la concezione di chi, come padron ‘Ntoni si sente legato alla tradizione e riconosce la saggezza dei valori antichi come il culto della famiglia, il senso dell’onore, la dedizione al lavoro, la rassegnazione al proprio stato; e la concezione di chi, come il nipote ‘Ntoni, si ribella all’immobilismo dell’ambiente in cui vive, ne rifiuta i valori ed aspira ad uscirne con il miraggio di una vita diversa. La simpatia latente del Verga è per padron ‘Ntoni e per il nipote Alessi, che ne riproduce il carattere e ricostruisce il focolare domestico andato distrutto. Attorno alle vicende dei Malavoglia brulica la gente del paese che partecipa coralmente ad esse con commenti ora comprensivi e pietosi, ora ironici e maligni. Lo stesso Verga narratore sembra essere uno del posto che racconta e commenta col distacco impassibile del cronista, vale a dire di un anonimo narratore orale; da ciò nasce l’impressione di un Verga narratore camaleontico, che assume di volta in volta la maschera e l’opinione di tutti coloro che entrano in scena. Anche il paesaggio partecipa alla coralità della narrazione, ora quasi compiangendo, ora restando indifferente alla sorte degli uomini. Per quanto riguarda la lingua, il Verga accettò, per sua stessa confessione, l’ideale manzoniano di una lingua semplice, chiara, antiletteraria. Egli riuscì a creare una prosa parlata, fresca, viva, popolare, che riproduce, nella sintassi e nel lessico, il dialetto siciliano. Nei Malavoglia è rigorosamente applicato il canone dell’imparzialità e dell’obiettività. Nella prefazione al romanzo, Verga sottolinea come lo scrittore di fronte alla propria storia non abbia il diritto di giudicare, ma solo di tirarsi fuori dal campo della lotta per "studiarla senza passione". Nella pratica poetica quest'idea si traduce in una tecnica di grandissima originalità. Abbondano i discorsi indiretti liberi, cioè gli interventi dei personaggi non mediati attraverso la elaborazione del narratore. Anche le parti connettive del romanzo non lasciano mai trasparire la sovrapposizione dell’autore e sembrano uscire dalla bocca di un anonimo paesano, che sia come un portavoce dell’intera comunità di Acitrezza. Per rafforzare questo effetto Verga si avvale di un discorso indiretto tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolare e di identificarsi con il pensiero della gente del posto.

[4] In Mastro-don Gesualdo il Verga narra le vicende di un ex muratore, che con la sua tenace laboriosità è riuscito ad arricchirsi. Non gli basta però la potenza economica, egli mira ad elevarsi socialmente e sposa Bianco Trao, una nobile decaduta che ha avuto una relazione amorosa col cugino Rubiera ed è stata da lui lasciata, perché la madre, la baronessa Rubiera, si è opposta al matrimonio riparatore. Il matrimonio con Bianca non porta a Mastro-don Gesualdo la sperata soddisfazione, perché, ora che è diventato "don", si sente escluso non solo dalla plebe dalla quale proviene, ma anche dal mondo aristocratico, che lo considera un intruso e lo tratta con distacco. Egli porta nei due titoli che precedono il nome "Mastro-don Gesualdo" il suo dramma: per la plebe è diventato un "don", un signore quindi, e perciò appartiene a un altro mondo; per gli aristocratici rimane il "mastro" di sempre, e quindi è un estraneo al loro mondo. Ma il dolore maggiore gli deriva dal non sentirsi amato né dalla moglie né dalla figlia Isabella, che, d’altra parte, non è propriamente sua figlia, ma è nata dalla relazione di Bianca con Ninì Rubiera. Egli, che ignorava tutto ciò, fa educare la figlia in un collegio di nobili e la vizia accontentandola in tutti i desideri. Ma poi si scontra con lei quando Isabella si innamora del cugino Corrado La Gurna, e la fa sposare ad un nobile palermitano. Mastro-don Gesualdo, che nel frattempo ha perduto la moglie, è costretto a lasciare il paese in rivolta per i moti del ’48; poi, essendosi ammalato di cancro, va ad abitare a Palermo nel palazzo della figlia dove assiste allo scempio delle proprie ricchezze e muore solo e abbandonato da tutti. Sul piano sociale il romanzo rappresenta la borghesia in ascesa di nuova formazione, avida e ambiziosa simboleggiata da Mastro-don Gesualdo, e le vecchie aristocrazie in declino, simboleggiate dai Trao. Mastro-don Gesualdo è un uomo senza riposo, sempre attento a custodire i suoi beni e i suoi affari, morso dal cruccio interno della coscienza che ha del proprio fallimento famigliare e sociale. Il mito del progresso e dell’innalzamento delle nuove classi, tanto spesso sbandierato dalla cultura del positismo, è sottoposto ad una critica assai più radicale che nei Malavoglia, e tutto ciò mentre anche i privilegi e le tradizioni dell’ordine antico sono osservati con occhio lucido, senza alcuna indulgenza. Nel Mastro lo scrittore, pur mantenendo la sua fedeltà al metodo impersonale e obiettivo, è indotto dalla maggiore complessità dei temi e dal maggiore approfondimento psicologici dei personaggi a usare soluzioni di linguaggio meno audacemente innovative rispetto ai Malavoglia.
La lingua è quella d’uso comune, ma non propriamente popolare.

[5] Nato a Pescasseroli negli Abruzzi il 25 febbraio 1866, il più grande "mostro di cultura" italiano non era laureato. Aveva studiato in casa, figlio di ricchi possidenti di Pescasseroli (L'Aquila), dove la famiglia perse la vita nel terremoto. Legato per tutta la vita a Napoli, Benedetto Croce era dotato di una enorme capacità lavorativa, durata fino alla morte, a 86 anni. Messo al riparo dalle necessità materiali da un ingente patrimonio personale, svolse come libero scrittore un'ininterrotta e intensa attività nei più svariati campi della filosofia, della storia, della letteratura e dell'erudizione.
Filosofo e mentore politico, Croce era un liberale molto moderato, diffidente verso il suffragio universale fino alla prima guerra mondiale. Teorico dello storicismo e dell'idealismo, è conosciuto per la sua teoria delle quattro sfere dello spirito: la morale, la politica, l'estetica e l'etica; ognuna di queste ha, secondo Croce, una propria autonomia, ma tutte godono della circolarità dello spirito. Giolittiano, senatore di nomina regia, fu ministro della Pubblica istruzione nel dopoguerra. All'avvento del fascismo, fino al delitto Matteotti, dimostrò grande indulgenza verso il regime. Legato da amicizia con Giovanni Gentile (che fu per molti anni, e fin dall'inizio nel 1903, collaboratore della sua rivista «La critica»), Croce ruppe questa amicizia quando Gentile pubblicò il Manifesto degli intellettuali fascisti. Croce promosse sulla sua rivista un contromanifesto che diventò un riferimento dell'antifascismo interno (pubblicato il 1° maggio 1925). A questa rottura, seguì da ambo le parti una polemica puntigliosa, durata molti anni. Il regime fascista, per costruirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di critica politica. Mussolini chiese: "Quante copie tira Critica?". Gli risposero: "1500". "Allora lasciatelo stare". Croce pensa del fascismo che sia una "brusca interruzione", frutto di una "necrosi spirituale" portata dalla guerra. Croce si avvalse di questa possibilità nei libri e nelle note che veniva pubblicando su «La critica» per una difesa degli ideali della libertà. Esiliato in patria, diventa il riferimento di molti intellettuali italiani. Nel 1944, elabora la teoria del fascismo come "parentesi". Nel 1943-47 fu presidente del Partito Liberale, e partecipò ai governi Badoglio e Bonomi e alla Costituente. Decisamente avverso al comunismo, si commuove leggendo le lettere di Gramsci, di cui loda il valore letterario. Un giudizio che peserà. Collabora anche al "Mondo" di Pannunzio. Muore a Napoli il 20 novembre 1952.
Ricordiamo tra le sue numerose e fondamentali opere: l'Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902); la Logica come scienza del concetto puro (1909); la Filosofia della pratica, economica ed etica (1909); laTeoria e storia della storiografia (1917); il Breviario di estetica (1912); il volume La poesia (1936); gli Ultimi saggi, 1935; La storia come pensiero e come azione, 1938; Il carattere della filosofia moderna, 1941; Filosofia e storiografia, 1949. Saggio sullo Hegel, 1912, e gli studi su Materialismo storico ed economia marxista (1900); gli Scritti di storia letteraria e politica.

[6] L’intuizione è la prima attività dello Spirito, cioè il puro conoscere e rappresentare: essa comprende tutta una serie di forme che vanno dalle più rudimentali fino alla produzione più elevata che è l’Arte.

[7] L’economia fornisce materiale all’etica: un’azione volta all’interesse del singolo è utile, volta ad un fine universale è morale.

[8] Facoltà dell’intelletto umano di decidere indipendentemente da limitazioni imposte da una qualche causa, dalla necessità o dalla predeterminazione divina. Un’azione assolutamente libera costituisce di per se stessa una causa e non un effetto, poiché non segue alcuna sequenza causale o legge di causalità. Il problema della facoltà umana di determinare le proprie azioni è rilevante sia in filosofia – soprattutto in campo metafisico ed etico – sia in teologia. Alla dottrina che sostiene l’assolutezza del libero arbitrio si oppone il determinismo che sostiene invece che l’azione dell’uomo non scaturisce da un libero atto della volontà, ma piuttosto dall’influenza di passioni, desideri, condizioni fisiche o circostanze esterne che sfuggono al controllo dell’individuo.

[9] Filosofo e santo, uno dei più eminenti dottori della Chiesa. Figlio di padre pagano e di madre cristiana, di famiglia umile, Agostino studiò retorica con eccellenti risultati, disciplina che insegnò inizialmente a Cartagine, dove visse insieme a una donna da cui ebbe un figlio, Adeodato (“dono di Dio”).

[10] Antica religione così chiamata dal nome del fondatore, il persiano Mani (216 ca. - 276 ca. d.C.), che rappresentò per alcuni secoli l'alternativa principale al cristianesimo.

[11] Per ricostruire nelle sue varie fasi la conversione di S.Agostino non si può non tener presente quel documento biografico preziosissimo che sono le Confessioni, in cui l’autore narra apertamente la propria vita e la propria condotta. Il titolo dell’opera Confessiones significa da un lato il riconoscimento dei propri errori e dall’altro una manifestazione di lode e di ringraziamento a Dio misericordioso che ha liberato il peccatore Le Confessioni, in tredici libri, furono scritte ad Ippona fra il 397 e il 401, quando Agostino, tra i quarantatre e i quarantasette anni, ormai vescovo, volle raccontare il lungo e meraviglioso processo attraverso cui Dio lo aveva condotto alla verità, convertendolo a Sé. Negli ultimi tre libri dell’opera, libri essenzialmente filosofici e teologici, l’autore, in realtà, commenta le prime pagine della Genesi, soffermandosi sui significati allegorici che se ne possono ricavare per giungere alle principali verità cristiane.

[12] Dottrina che identifica l'universo (greco, pan, “tutto”) con Dio (greco, theós). Il pensatore può muovere da un'idea della realtà divina e indagare poi la relazione tra ciò che non è divino e il divino; questa posizione viene comunemente denominata “panteismo acosmistico”. Oppure, il pensatore può partire da una comprensione della finitezza e mutevolezza della realtà e dare il nome di Dio alla loro totalità onnicomprensiva; questo orientamento è chiamato “panteismo ateistico”.



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