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LA DOLCEZZA DEL FRUTTO
di Enzo Cicchino
A Gigliol A




                   Ogni albero ha bisogno della dolcezza del frutto
                   per poter riprodurre la forza del suo grande amore
                   e dare figli al suo tronco prima che venga distrutto
4                 dal fuoco o dal tarlo che lo rode bruciandone l'ore!

                   Il carrubo la nera sellecchia non dona pei maschi cavalli
                   alle stanghe, che soffrono il morso e il dolor della corsa,
                   ne' per il vil vetturino in cassetta,  bramoso di scialli
8                 e di donne che sferza carezza e ne frusta la viva risorsa...

                   No, il carrubo la bacca lasciva cui dolce l'omo s'eterna
                   non porge p'imperio dei suoi vulvosi piaceri che gode
                   in taberna e ne' per la dama che smanta e cui nudo s'inferna.
12               Ogni albero vuol solo la terra che del seme impregna le sode!

                   cosi' per le vezzose ciliegie, le umbrose percoche, il susino
                   dal cupo velluto, il melone brumoso, o i gravidi gelsi golosi
                   dai bruni caporelli ascosi p'oscure malie, o il fier benzoino,
16               o la fragola scura ch'uccelli inambrosia per mugoli canti ansiosi.

                   Ogni ramo ogni verzura ogni frutto vol esser sgravato in zolle!
                   carne foglie seme! Cadeva sull'orfano letto fanciulla, mia madre
                   abbandonata e c'era il sole sulla mia collina quella volta che folle
20               ruppi le acque. Oh, 'n comprendevo che in quella terra sbranata

                   dal fuoco gli occhi mi sarebbero serviti per piangere e le gambe
                   per correre verso altrenotti torridi odorose di lacrime di malva,
                   o del cuore rapito avrei spento il sussurro di cui brucio, in vambe
24               alide. Era una quercia mia madre. Scorzuta abbrunata salva

                   mentre le fameliche sambe porgevano il solarino nodo scorsoio
                   a me chicco degli attimi. Sull'aia era l'alba. Del nespolo cadeva
                   il pomo succoso appassito dal sole solerte che dei giorni e' frantoio;
28               s'annudava la polpa e, bionda, appena velata, al notturno mi ardeva!

                   Quel frutto divenni, gustando la vita, cercando l'ardor della terra.
                   Ma dal cielo boschivo improvviso ecco un gallo, fuggendo dai falchi
                   tra i lecci, in corsa con un vol mi raggiunse, mi punse e mi serra
32               nell'ali. Era femmina il gallo cedrone che m'aperse quei valchi

                   del sole sulla mia collina, dileguando i frantumi incolleriti d'urla,
                   mi strinse alle piume, al suo vorticor miele nero. "Lùlùlùh! Lùlùlùh!"
                   riudivo lo stridulo ruglio, il panico amore p'indurmi a sedurla
36               "Lùlùlùh!" perforante giallore sulle nervature tramonto "Lùlùlùh!"

                   E la voce va e viene sul filo del ricordo, arroventata, espugnata
                   dal tuono, la sua odo, e' ancora quella del gallo cantore squamata
                   bruciata le penne sventrate "Lùlùlùh!"  e' la voce dell'erba rinata
40               delle infinite farfalle arieggianti il notturno, e' la tua... respirata!

                   A me, frutto, eri venuta, solerte di piume; percepivo tua carne volare!
                   C'era il sole sulla mia collina quando ti rubai per la prima volta, amore,
                   e non sapevo che le mani sarebbero cresciute forti solo per il conquistare
44               la cruda beltà del giorno; e la lingua in ceppi frinire! nuda cicala a ore,

                   per l'acuta arditezza del sonno. Non sapevo che un giorno avrei perso!
                   che avrei accoltellato la gioia, che sarei corso verso la morte ...alieno
                   e ne avrei morso le guance come un millennio rattrappito risommerso.
48               Non sapevo che solo quando le mie dita avrebbero afferrato appieno

                   le spine del tuo curbore, le brividezze del tuo dorore, il morso! ninfea
                   tu saresti divenuta il mio giglio regina gardenia vergine alpestre aurora
                   ed io sarei potuto correre alla finestra aperta su Valle Gianese, ove ardea
52               nel meriggio il bruno miraggio d'un volo. Il tuo "Lùlùlùh!" m'accora.

                   Apprendevo il singhiozzo. E sognai sugli africhi corni l'allegro abbordio
                   di sciabecchi, nel fumo le zizzanie delle ancore, i campi di fuggenti
                   magnolie e i clochard col cappello imprigionato dal sole e il tenebrio
56               di proboscidi mai sazie di dolore. La tua voce va e viene inseminata di genti

                   e fu posta nell'acqua perche' rinascesse coi tralci e spine di lontananza.
                   Di quarantene s'ammantava la cimba la cocca la ruga l'amarra agli scalmi
                   e sui legni lo splash sfrigolio del velaccio tra le bolle di catrame e la danza
60               che bevo. La pietra è in collera con la mia fronte. Sulle mie ferite si spalmi

                   ancora l'odore del mattino! La voce va e viene dentro il tuo corpo ed il suono
                   e' un ruggito di spuma. Dentro me. Spazzimo. Te, mia... La voce va e viene.
                   Ma dove? Copre il tempo fuggito che pentro che danzo. La voce va e viene. Buono!
64               donde viene? Donde si rafferma il pane azzimo che l'estate ha cuociuto? Sviene.

                   Albero crebbi e fui governo di navi che, mosso l'argano, strappano
                   il mare libero alle riottose forme del vento e udivo tua landra fusa
                   erta nitrire. Dolce l'orgasmo di cui fosti frumento, i corpi vagano
68               tesi alle feritoie tra chiglia e cassero, gemito di vele p'irta cambusa

                   profondan l'asmo, ahi, tu terra perche' mi manchi!? per la parvula
                   pomice che tesse gli spasimi e restano a galla tra l'onde! o per gli sterili
                   travertini che s'inventano petti villosi di vaiolato tarlo! O per la larvula
72               irosa facciata di pietrisco franoso ove crebbero i colombi e pennuti esili

                   altr'uccelli mi sostennero casa. Il tuo muschio su cote focaia
                   dal pelo dentroso ancor mi s'incava tra le costole inviolate.
                   Fui porta carraia, ove il nudo lapicida dormiente all'orco s'appaia.
76               Si, terra, mi manchi. Il tuo seme e' impazzito tra vele spiegate!

                   Oh, riecco il tuo prono ombelico dai gemiti astrali ed i seni invitti
                   che strinsi qual fasciame di nave, distesa, sospinta dai remi nel golfo;
                   donna, il tuo regno e' il sussurro della carne. Ti siedi, ti sveli. M'infitti.
80               Non ho bisogno di andare sulla luna, profumo, stanotte il tuo zolfo

                   umore si è avvolto a me. Presuntuoso e vitale questo flirt giornaliero.
                   Sai, una stella particolare sei tu, da amare, vieni giu' fin sul mare
                   ed entrambi non sappiamo nuotare. Bambino, ricordo il sentiero...
84               mio padre, quando con la luna giocavamo di notte a farla innamorare

                   nascosti fra i lecci e lei ci rincorreva, come segugia vegliosa cagna
                   che odora i passi con la luce della sua perenne corsa. Di lei ero allievo
                   ape desideroso e lei, complice della mia gioia, voleva essere! Compagna
88               della prima illusione di vincere, quando sapevo che l'unico sollievo

                   era che, pur fuggendole, c'avrebbe raggiunto! Ninfea, ho scoperto,
                   quella luna sei tu! tu, che ami il sole che somiglia alle parole.
                   Tu che m'accogli nelle viscere incolte e poni sementi a concerto;
92               tu, da cui traggo il vero fustigatore! Innocente. Cocente. Mi dole.

                   Il pane di fango ricordo. L'alba, i vascelli cui partimmo. Altre acque
                   viandanti! e col rostro ebbi a sveller le onde in rotta su Venere piena!
                   ricordo il tuo volto d'ambra che m'inteneri' l'assalto sincero, tacque
96               la dea e sol tra le rocce, alla foce, ne la corrente mi volse la schiena

                   cadde. "Lùlùlùh!" fu ultima voce umana d'uccello in volo, inchiodato
                   alle stelle da acuti speroni bruciati carezzati dallo spasmo "...Lùlùlùh!"
                   era il grido del mio capo a precipizio verso il fondo cercando affogato
100             nel mare la ferita del mondo ove por le radici il mio canto "Lùlùlùh!"

                   Ebbe perle il pirata che col pane deterse il mio sangue nemico
                   e mi vinse in battaglia! Alterna. La voce va e viene per la sete
                   che non può spegnere. Il brigantino equipaggio s'avvento' lubrico
104             ed or corro ad ornar degli abissi le travi coi miei naufraghi in rete!

                   Affondo. Ma deliro fra bastimenti di meraviglie. La voce va e viene.
                   Verso sera, in memorie sanguigne. Tra il virgo dell'onde sul molo
                   e il sorriso del pregno viandante che fu sottovento. La voce va e viene
108             per gli addii che furono, per i seni che non morsi, quelli per cui dolo!

                   per le promesse che n'ebbero ritorno! per gli abbracci trattenuti e le voglie
                   disperse nel mare per esausto abbandono. Per i baci caldi sulle gote e feroci
                   quelli che non furono. Per i desideri nati spenti, caduti... immobili spoglie
112             l'uno sull'altro. La voce va e viene tra le perdute carene di saettie precoci.

                   Perdo il respiro! Dove sei? La voce va e viene! Dentro la spuma aulente.
                   Dentro. La voce. Che cosa? Va e viene. Copre il tempo. Dove? nel grembo.
                   Danza. La voce. Donde? Viene. Raffrena. La ingoio. E' avara, impenitente.
116             Grano di miglio. S'abbruna. E' corteccia arrossata d'un mutevole lembo.

                   Generosa, m'aita. Sul fondo, serpeggia. Mi schiaccia. La voce va e viene
                   con la sua lontananza... "Lùlùlùh". Si, il tuo letto di onde m'offre ancora
                   impossibili ancore. Ma io vado giu', giu' nell'abisso, or qui nulla mi tiene.
120             MAAAh! ritrovo querci incredibili! i falconi, le piovre, dall'alghe affiora

                   vorticosa la preda, non uccelli! qui nella bruma fa ronda l'amanta col suo manto
                   di cagna che rincorre i marinai sepolti. Carezzo principesse concupite da lupi
                   ululanti al guinzaglio di Nemo e le cui piume ornano il seggio amaranto
124             ove siede l'auriga dei sogni. Il sole e' in vol fra tempeste su in alto tra i dirupi

                   del cielo nella volta delle acque. L'ardore non smorza la corsa. D'acero,
                   foglie vedo scender nel fondo, lievi, sapienti, ed il mar se ne ricolora
                   donandole branchie, lapislazzuli, ed il relitto da cui mi persi lacero
128             or s'e' avvolto di luminelle che lo ritessono d'erba. La bocca assapora

                   il grano marino, trebbiato dagli argentei branchi dei tonni; e lievitavo
                   fra le tue membra qual fossi pane azimo. Dall'acque vorrei riemergessi,
                   ninfea, scolpita del bruno topazio dell'onde com spiga bionda dell'avo
132             Nettuno che rosso rimedita lampi su la candida trina coi tridenti riflessi!

                   Il petto mio tremola adagio s'impazza e la corda che flemola addenta
                   le pietre le attrazza, stridente nel folto, sincero le aggramola e alloggia
                   le mura coi suoni piu' dolci, ambrati desiderati: petali finestre s'inventa,
136             ed il cor mio sdrucciola e tasta quel gracile smalto di spuma, lo sfoggia!

                   Scale ricreo nel risciacquo asprigno e case concilianti l'intaglio dei giorni
                   l'uno in fila all'altro come tanti ieri inesplorati di cui nessun puo' disporre.
                   Ventimila leghe sotto i mari vivevo, costruttore di sottomarini ambiti forni
140             per umido pane; la nuova citta' estesa fin dove l'orizzonte delle acque corre.

                   Battei la pietra cupa tentai di scolpirla, adagiandomi al petto silente
                   di una roccia non ancora dissossata. E fra nubi d'acqua s'innalzarono
                   tetti dai muri volanti e balene e orche con impeto li congiunsero, attente,
144             ad ampie cattedrali di madreperla le cui campane per magia palpitarono.

                   La voce va e viene sul filo del ricordo inzavorrato dalle spettrali
                   chiglie che dal fondo vedevo aleggiare lascive in superficie di luce:
                   m'ingannava l'orizzonte bianco dell'alto e, tu che torni, mi assali
148             con lo sguardo basso, capovolta, ma non ignori ove'l cor conduce.

                   Le corde finissime della cetra remavano per entro quella vagina
                   testarda che era il mio nautilus e il ricordo trasuda lapilli di cera
                   ancor ora coi suoi umori marini e crea singulti nell'acqua ferina
152             che spezza l'asfalto dai teneri zigomi escavato sul fondo; a sera

                   udivo i fantasmi della carne. La voce va e viene tra gli amanti in volo
                   prima d'essere pietrificati dall'impotenza. O, incastonata sul bugno
                   di alabastro, insieme all'equoree gemme d'oleandro, vive l'assolo
156             di fughe. Il blu ardesia mi dava un brivido al cuore: gonfio, carugno

                   di lunghi versi svaniti nel truogolo dell'incanto. Di arenaria oramai
                   era solo la roccia cui voltavo le spalle terrene, ricoperta dell'aspro
                   silenzio granito da cui mi lasciavo prendere. E una pietra scagliai,
160             con goffi ansimi, verso mostri di livido tufo ed invece eran diaspro.

                   Invano dall'alto, sul fondo, la pomice tonfa! resta a galla sol mota
                   non l'esile travertino col suo vaiolato pietrisco franoso. Le pupille
                   brille dei pesci farfalla si specchiano alle finestre che l'onda pota,
164             e d'Atlantide cercano il profumo, acuto, delle piu' capricciose ville

                   sedotte dal graffio del mio scalpello. Sol la luna e sua greggia
                   di levigate stelle par indifferente ai palazzi sommersi dalle praterie
                   marine, o alle savane di intenerite lucciole attorno alla reggia
168             picchiettata con fini venature di sottana. Squali meduse arpie.

                   Udivo e udivo il mistero del suono e il ricordo ammaliante.
                   C'era il sole sulla mia collina. Vergine e sangue del giorno.
                   urlante, scoppiettante. La voce va e viene sul rivo incalzante
172             erba amara, in piena, che, del verde mio bosco fu adorno.

                   La voce va e viene e ci impregna. Noi due. Soli. Abbandonati.
                   No, non fuggire, ninfea. La mia luna è il tuo corpo in cui penetro
                   e scopro le stelle che chiedono il frutto della terra, i nettari amati
176             moltiplicati ogni notte sulla tua bocca. Nella tua morgia ti venetro.

                   Si. C'era il sole sulla mia collina quella volta che nacqui, cadeva
                   a perpendicolo su Valgianese inginocchiata a quel grembo di fate
                   che avviluppava le pietre qual fossero un lieve mosaico di lupineva.
180             In su per gli orti il bidente strappava la luce alle braccia spezzate

                   con colpi fecondi che, dentro la soda terra, innervavano lo sputo,
                   di fango, di schizzi rabbiosi ignudi, mentre forte il sapore d'asfalto
                   sorgeva sulle labbra arse. Dio! c'era il sole sulla mia collina, muto,
184             e tu eri creazione scolpita lontano; albero di nave, essenza di malto.

                   Morde quaggiu' nostalgia! la voce... va e viene, perdutamente m'afferra
                   e tu conosci, donna, quant'è potente?! Hai mai sentito in bocca il sapore
                   della terra quando vi zampilla il fulmine e sotto l'uragano sverga e sferra
188             con un grido? Tu lo conosci il sapore che penetra e intriga con il suo odore!

                   Ti vien voglia di mangiarla a cucchiaiate la terra coi suoi galeoni feriti!
                   ove gli alberi hanno perso la scorza e sono navi che nascondon dentro
                   la tempesta! Anch'io ricordo. Mi appari scolpita in cupo topazio, arditi
192             scalpelli i tuoi baci e labbra mi spremi con la tua fionda e mi addentro

                   e ne godo l'ordito e la tessitura che ne emerge! il morbido spigo
                   che tracima sulla tremola gola sotto il ponte e i marinai austeri
                   si buttavano nella spuma confusi dalle tue lacrime. Il tuo intrigo
196             è la corda, il tritone ti vuole donna. Le viscere aperte ai pensieri

                   nella stanza. Vocali. Desiderate urla! parevano stridule sul corpo
                   concitato. Al mio linga. Estensione dell'enclitico lume stizzito.
                   Il mio. In attesa. Era quello di un dio! che avvinto nell'accorpo
200             con le onde, sulle anastrofe agilità delle acque, rimane inviperito.

                   Impudenti sdrucciole sillabe d'incertezza. Amore, anche negli abissi
                   la vita è malata di pianto e quel gracile smalto di spuma non basta
                   ai vergini lavacri, il cui frutto, è figlio risciacquo sanguigno. Subissi,
204             custode del fuoco, il primo desiderio della felicità! S'imbeve dell'asta

                   il garrulo inizio mai corroso dalla tua irata energia di donna.
                   Dubbio. Il  vibrato pensiero e' molesto dentro la calda collina;
                   sull'aia... i candidi primi passi concilianti rudezze...; ti addonna
208             un bambino, ne senti il sussurro confortante nell'ampolla divina.

                   E per Lui che Atlantide ho lasciato sul fondo. Son tornato. Su.
                   Con un boato sommergibile di luce alla superficie. Sulla nave
                   del giorno! ora, novello straniero, ho potuto mirare di nuovo giu'
212             il mare da sopra il pennone, risentirne l'assenzio, l'onde schiave,

                   Del profondo ero sazio e di Atlantide sottomarina che avevo costruito
                   con ira felina. "Lululuh!" Mi mancava il sole, il vero sole! la luna!
                   il tuo utero gonfio un po' denso. "Lululuh!" La dolcezza dell'acqua,
216             l'infinito respiro dell'erba, le viole; mi mancava la tua cruna "Lululuh!"

                   Ogni uomo ha bisogno della dolcezza del frutto
                   per poter riprodurre la forza del suo grande amore
                   e dare figli al suo tronco prima che venga distrutto
220             dal fuoco o dal tarlo che lo rode bruciandone l'ore!

                   "Lululuh!" "Lululuh!" "Lululuh!"

 

Note:
(5) Il carrubo e' un albero di grossa mole del cui frutto color nero dal sapore dolciastro e di forma allungata simile alle fave sono ghiotti i cavalli. Ragion per cui i vetturini ne sono spesso forniti.
(12) La 'soda' e' terreno non coltivato, tenuto a riposo.
(32) Nel bosco, bambino, ho visto l'ultimo gallo cedrone che saltava tra i rami di un albero, ne ricordo ancora il canto... "Lululuh!" L'ultimo, prima che fossero estinti.
(51) Valle Gianese (o Valgianese): la valle onde cui si aggettava Colle Rinuso (o Colle della Noce) la collina alla cui sommita' sorgeva la casa in cui sono nato. E la valle si biforca in due rami, uno escavato dalle piene del Carpino che s'immerge verso la buia gola acquosa de -Il Feudo-, l'altro percorso dalla ex strada statale nazionale n. 17 Appulo Sannitica che portava a Isernia eppoi in Abruzzo sulle orme dell'antico tratturo.


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